E’ in atto un pericoloso revisionismo storico, suggerito dal Consiglio d’Europa, che tende a minimizzare la persecuzione anticristiana della Repubblica spagnola che è all’origine della Guerra civile del 1936.
di Augusto Zuliani
Le cose com’è noto andarono diversamente e si aprì un nuovo capitolo della «guerra civile europea», questa volta in terra iberica, dove si intrecciavano motivazioni interne e internazionali che, per circa tre anni, fecero di tutto il Paese un campo di battaglia i cui echi giungono fino a noi, muovendo ancora passioni e contese.
Di questa «attualità» della guerra di Spagna si è fatta malamente interprete nell’ottobre 2005 la Commissione delle questioni politiche presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa che approvava all’unanimità un rapporto sulla «Necessità di condannare il franchismo a livello internazionale», proponendo di dichiarare il 18 luglio di quest’anno, che coincide con il 70° anniversario dell’alzamiento: «Giornata ufficiale di condanna del franchismo».
La lettura di questo documento suscita più di una perplessità, visto che il relatore – il maltese Leo Brincat del gruppo socialista – ricostruendo le vicende che portarono allo scatenamento della guerra civile spagnola, aderisce in modo supino all’interpre-tazione che di quegli eventi ha dato la storiografia di sinistra.
Perplessità che aumentano, leggendo nelle conclusioni del rapporto alcune «direttive» rivolte alle autorità madrilene che dovrebbero «dare sostegno morale e finanziario ai gruppi e associazioni che cercano di ristabilire la memoria storica degli attentati ai diritti dell’uomo perpetrati sotto questo regime fascista».
A tal fine si chiede anche la mobilitazione del Consiglio d’Europa, affinchè il governo spagnolo crei una commissione nazionale per indagare su tali violazioni, costituisca una commissione di storici per ricostruire quanto avvenuto, riveda l’insegnamento della storia della guerra civile e ordini alle autorità centrali e locali la rimozione di tutti i monumenti, targhe, nomi di strade che ricordino a qualunque titolo il periodo franchista.
Questo rapporto si inserisce a pieno titolo nella guerra per il «controllo del passato» nel mondo occidentale, che ha già dato la stura in diversi Paesi europei a norme che sanzionano penalmente la ricerca e l’interpretazione storica nonché la diffusione dei relativi materiali, ritenuti non conformi alla vulgata di regime.
Tuttavia l’eccesso di zelo nel seguire le indicazioni che giungono dalle centrali ideologiche dell’«europeismo» può essere controproducente, quando si vuole intervenire su argomenti che riverberano ancora oggi il loro lascito di passioni, soprattutto in un Paese come la Spagna, che ha pagato a caro prezzo l’essere stata negli anni Trenta il laboratorio dove sperimentare le devastanti utopie rivoluzionarie: dal comunismo staliniano a quello trockijsta, dal socialismo libertario all’anarchismo nichilista, al furbeco liberalismo repubblicano.
Ciò che suscita ulteriori interrogativi in questo intervento ideologico del Consiglio d’Europa, è l’intento di accusare, denunciando i crimini di Franco, «la Chiesa cattolica romana per il sostegno attivo recato al regime, che ha contribuito a rafforzare la legittimità del Nuevo Estado agli occhi di molti spagnoli».
Il fatto che la Chiesa e il mondo cattolico spagnolo fossero diventati oggetto di una vera e propria campagna di odio e poi di sterminio, le cui prime avvisaglie si erano manifestate, fin dal 1931 alla nascita della n Repubblica controllata dalle sinistre, quindi ben prima dello scoppio della guerra civile, tutto ciò viene bellamente ignorato dalla Commissione del Consiglio d’Europa che con la sua invasione di campo vorrebbe dare una copertura «autorevole» all’operazione di guilty cultur avviata dalla intellighenzia progressista contro i suoi avversari, principalmente la Chiesa.
Un’operazione che passa attraverso le cattedre universitarie e la pubblicazione di articoli, saggi e libri, spesso traduzioni di testi anglosassoni, in obbedienza all’affermazione dello storico marxista britannico Eric J. Hobsbawm secondo cui «la guerra di Spagna resta la sola causa politica che, anche a considerarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale che ebbe nel 1936» (1).
Oltranzismo storiografico
Uno dei più riveriti guru di questa scuola storiografica è Paul Preston, ben noto anche in Italia per i suoi lavori su Francisco Franco e la guerra civile: di recente è stato pubblicato un suo volume dove traccia il profilo di quattro donne che parteciparono al conflitto su opposti schieramenti (2).
Un suo allievo. Michel Richard, ha indagato sulla «cultura della repressione» che avrebbe imperversato spietatamente in Spagna ben dopo la fine della guerra, godendo della fattiva collaborazione del mondo ecclesiastico (3). Su questa linea sì muovono storici spagnoli come Julius Casanova dell’Università dì Saragozza (4): il suo collaboratore Santos Julius vicino al Psoe; Vicenc Navarro docente presso la facoltà dì Scienze politiche nell’Università «Pompeu Fabra»; José A. Piqueras docente di Storia contemporanea all’Università di Castellón de la Plana, che sostiene: «Durante la seconda Repubblica la Chiesa ufficiale e molti cattolici attirarono su di loro la rabbia delle organizzazioni e delle persone di sinistra, dopo che si erano dimostrati ostili al nuovo regime e alle sue riforme. Per sei anni alimentarono il rifiuto verso l’avversario politico e ideologico e misero la propria influenza morale e i propri mezzi di comunicazione al servizio delle tendenze di estrema destra, poco o niente rispettosi dell’ordine costituzionale e dei valori democratici» (5).
Sostanzialmente in linea con questa interpretazione del ruolo della Chiesa durante il conflitto anche il lavoro di Gabriele Ranzato (6). Un atteggiamento ancora più oltranzista è quello dell’ispanista Ian Gibson, un irlandese diventato cittadino spagnolo che in un suo recente libro cerca di scagionare le sinistre, tra cui il leader comunista Santiago Carrillo, dalla responsabilità del massacro dei prigionieri «fascisti» compiuto a Madrid tra il novembre e il dicembre 1936, scatenato anche dalla forsennata propaganda dei giornali repubblicani come La Voz (7).
Per Gibson «la Chiesa ha un atteggiamento riprovevole, ripugnante, inaccettabile, meschino […] fu (essa) che seminò i germi dell’odio e della violenza. Hanno l’obbligo di chiedere perdono se ne sono capaci». Non mancano in questa eletta schiera i cattolici progressisti come il monaco di Montserrat, Hilari Raguer, che in qualche modo giustifica gli eccidi di religiosi, adducendo il contesto storico: di fatto la Chiesa sarebbe stata responsabile di quanto le accadde.
In occasione della presentazione di un suo libro dedicato in particolare ai rapporti tra la Giunta di Burgos e il Vaticano (8), durante la quale Paul Preston era il «maestro di cerimonie», affermò; «La Chiesa spagnola deve chiedere perdono come ha fatto quella argentina, ma qui invece sembra che sia stata […] senza peccato, come l’Immacolata Concezione» (9). Né poteva mancare un fenomeno di psittacismo italico con una chiamata di correità nei «crimini di Franco» anche per il nostro Paese, che dovrebbe affrettarsi a chiedere scusa al popolo spagnolo visto il consistente appoggio dato ai nationales durante il conflitto (10).
Una risposta sferzante a tutte queste asserzioni viene, oltre che da storici laici come Pio Moa e Ricardo de la Cicrva (11), anche dal mondo religioso, di cui ricordiamo il libro del sacerdote valenciano Vicente Càrcel Orti, La gran persecución. Espana. 1931-1939 (Historia de como ìntentaron aniquìlar a la Iglesia católica) (Pianeta, Barcelona 2000), che nella prefazione al volume scrive: «Se vogliamo continuare a essere liberi, dobbiamo sottrarci alle mistificazioni che condizionano lo studio della storia, e, per quanto riguarda la Chiesa, liberarci dalla marcata tendenza – quasi una moda diffusa anche tra alcuni religiosi – a diffamare il proprio passato, screditare i testimoni della fede, berciare che la Chiesa non ha mai fatto nulla dì positivo per l’umanità, o giudicare con i criteri attuali i fatti del passato».
Si veda anche il recentissimo studio sulla persecuzione della Chiesa a Madrid, realizzato da un sacerdote dell’arcidiocesi della capitale (José Francisco Guijarro, Persecución religiosa y guerra civil. La Iglesia en Madrid, 1936-Ì939, La Esfera de los Libros, Madrid 2006), che rivendica il diritto di «poter parlare con libertà e obiettività» di quegli eventi per «conoscere tutta la verità circa i precedenti, le cause, i contenuti e le conseguenze di quel conflitto».
Imbarazzante «album di famiglia»
Oggi, mentre gli credi del Frente Popular sono giunti fortunosamente al potere, è quanlo mai utile sfogliare il loro «album di famiglia», liquidando i miti sulla guerra di Spagna che la vulgata storiografica di sinistra ha ammannito per decenni. Il principale riguarda l’alzamiento attuato da un gruppo di generali felloni, che come recitava un celebre canto repubblicano, erano da impiccare per aver tramato il golpe contro la democrazia spagnola, un po’ turbolenta è vero, ma pur sempre avviata sulla strada di un futuro radioso.
In realtà ciò che accadde il 18 luglio 1936 era solo l’ultimo violento episodio di una lunga serie di drammatici eventi, che avevano scandito per decenni la tumultuosa storia del Paese iberico e che venivano cosi sintetizzati, senza tema di smentite, da Francisco Franco nel suo discorso alle Cortes il 14 maggio 1946: «In meno di un secolo, dalla morte di Ferdinando VII al 14 aprile 1931 la Spagna ha subito centoquattro governi, tre guerre civili, circa trenta sollevazioni militari, diverse insurrezioni repubblicane, tre regimi, una repubblica, cinque costituzioni, una regina detronizzata, una mezza dozzina di capi di governo assassinati, innumerevoli eccidi, saccheggi di conventi, attentati contro il re e infine il suo rovesciamento e il crollo della nostra monarchia secolare» (12).
Era in questa atmosfera di decomposizione nazionale, già tratteggiata con feroce sarcasmo dai versi di Ramón del Valle Inclàn, una Spagna «De socialismo y cocaina /de cocotas con convulsiones / y de vastax revoluciones», o con sofferta partecipazione da José Ortega y Gasset nel suo Espana invertebrada, che venne proclamata il 14 aprile 1931 la seconda Repubblica spagnola.
Passarono poche settimane e l’11 maggio si scatenò una campagna di distruzione di chiese e altri edifici religiosi: 41 a Malaga, dove rimase indenne solo una chiesa parrocchiale, e nei centri vicini come Torremolinos, El Palo, Churriana ecc., 11 a Madrid, 4 a Siviglia, 4 a Cadice, 5 a Jeréz, 2 ad Algeciras, 2 a Sanlùcar, 21 a Valencia e provincia, 13 ad Alicante, 4 nella Murcia. In tutto oltre un centinaio di edifici tra chiese, biblioteche, centri di formazione, scuole professionali vengono distrutti nel giro di soli tre giorni, senza che le autorità di governo intervengano.
Per il presidente Alcalà si tratta «soltanto di un fuoco di paglia»; per il ministro Azafia: «Tutti i conventi non valgono la vita di un solo repubblicano. Se interviene la Guardia Civil mi dimetto». Il 13 giugno il cardinale primate di Spagna, Pedro Segura y Sàenz, autore di una pastorale in cui ringraziava il sovrano per aver abbandonato pacificamente il trono, viene arrestato al suo ritorno in patria e ricondotto alla frontiera per ordine del ministro Miguel Maura, che si diceva cattolico e che deciderà anche l’espulsione del vescovo di Viteria, Mateo Mugica, per essersi rifiutato di rinviare la sua visita pastorale in Guipùzcoa e in Vizcaya.
Il 4 agosto vengono allontanati i cappellani dalle carceri; il 21 un decreto del governo congela tutti i beni e le attività economiche legate a vario titolo al mondo cattolico; il 13 ottobre il ministro della Guerra, Manuel Azana, che il giorno successivo sarà capo del governo, pronuncia in Parlamento l’affermazione che diverrà tristemente celebre: «La Spagna ha smesso di essere cattolica».
Una frase «infelice» per Victor Manuel Arbeloa, sacerdote e storico navarrese, già esponente del Psoe e oggi vicino ai movimenti autonomisti; soltanto «imprudente» per lo storico britannico lord Hugh Thomas.
In realtà si trattava di una affermazione programmatica che gli eventi successivi avrebbero drammaticamente confermato. Il 14 ottobre Azana fa approvare dalle Cortes lo scioglimento della Compagnia di Gesù e la confisca di tutti i suoi beni, la proibizione alle Congregazioni religiose di esercitare l’insegnamento e svolgere attività di beneficenza, e nell’occasione afferma: «Non mi si venga a dire che ciò è contrario alla libertà, perché si tratta di garantire la salute pubblica […]. Gli Ordini religiosi, in virtù dei loro dogmi, hanno l’obbligo di insegnare tutto ciò che è contrario ai princìpi su cui si fonda uno Stato moderno».
Il 15 ottobre nell’editoriale del quotidiano cattolico madrileno El Debate si legge: «Abbiamo portato all’estremo limite il desiderio di concordia. Senza nessuna provocazione da parte nostra ci è stata dichiarata guerra con un attacco settario alla Religione […]. Vogliamo difendere la fede e lavorare dentro la legalità contro questa Costituzione. Nessuna guerra civile! […]. Nessuna parola altisonante!».
Una Costituzione li esplosiva
II 17 ottobre giunge un messaggio di Pio XI che protesta contro le misure adottate dal governo repubblicano e, nell’esprimere la sua solidarietà ai cattolici spagnoli, li invita a rispettare la legalità. Invito raccolto e nei giorni successivi i deputati cattolici redigono un manifesto indirizzato al Paese in cui si chiede una revisione della Costituzione; si svolgono con successo crescente manifestazioni in varie città a favore dell’iniziativa, come rileva il 22 ottobre l’arcivescovo di Tarragona, Fran-cisco Vidal y Barraquer scrivendo al cardinale segretario di Stato Eugenio Pacelli. Ma ormai il dispositivo è inarrestabile: «L’espulsione dei cattolici dalla Repubblica», secondo l’espressione di Àngel Herrera, direttore di El Debate, avvenne di fatto con l’approvazione della Costituzione il 9 dicembre 1931 (13).
Si trattava di «…una Costituzione che preparava la guerra civile» come affermò proprio un protagonista della fase costituente, Niceto Alcalà Zamora liberale e primo presidente della seconda Repubblica che inutilmente cercò di contenere le spinte estremiste del suo primo ministro, Manuel Azana, e di costituire una forza centrista.
In effetti l’art. 26 che si apriva con la frase: «Tutte le confessioni religiose saranno considerate come associazioni sottoposte a una legge speciale…», contemplava le indicazioni cui avrebbero dovuto attenersi le norme in via di elaborazione destinate a liquidare definitivamente la presenza organizzata del cattolicesimo in tutti gli àmbiti della società, dall’educazione, alle professioni, alle diverse attività economiche, prevedendo anche «lo scioglimento di quegli Ordini religiosi che per le loro attività costituiscono un pericolo per lo Stato», terminologia quanto mai generica che avrebbe aperto la strada a ogni forma di arbitrio prima, e di violenza poi. Come rileverà José Ortega y Gasset: «Questa Costituzione così ben riuscita è stata imbottita con una serie di cartucce esplosive […].
L’articolo in cui la Costituzione legifera sulla Chiesa mi sembra estremamente inopportuno, ed è un esempio dì quelle cartucce esplosive». Il primo che avrebbe iniziato a innescarle sarà a metà gennaio 1932 Rodolfo Llopis, direttore generale dell’Insegnamento e uomo chiave nel ministero della Pubblica istruzione che, con una circolare inviata ai maestri elementari, ordinò di togliere subito tutti i crocifissi dalle aule, in base all’art. 43 della Costituzione.
In tale occasione Miguel de Unamuno scriverà: «La presenza del crocifisso nelle scuole non offende i sentimenti di nessuno, neanche dei razionalisti e degli atei, toglierlo offende il sentimento popolare e anche di coloro che sono privi di credenze confessionali. Con che cosa si vuole sostituire il tradizionale Cristo agonizzante? Con una falce e martello? Con un compasso e una squadra? O con qualche altro segno religioso? Perché dobbiamo dirlo chiaramente, e di questo dovremo occuparci: la campagna ha un’origine confessionale e si tratta chiaramente dì una confessione anticattolica e anticristiana. Perché la neutralità è un inganno».
Il 24 gennaio viene decretato lo scioglimento definitivo della Compagnia di Gesù in conformità all’art. 26 della Costituzione e la confisca di tutti i suoi beni, il 2 febbraio approvata la legge sul divorzio, il 6 sconsacrati i cimiteri. l’11 marzo soppresso l’insegnamento della religione nelle scuole di ogni ordine e grado; infine il 17 maggio approvata la Legge sulle confessioni e congregazioni religiose, che verrà condannala da Pio XI nell’enciclica Dilectissima nobis del giugno 1933.
È opportuno riportarne alcuni passi, rivelatori di come la Chiesa fosse ancora aperta al dialogo e alla trattativa. Infatti dopo aver lamentalo il carattere discriminatorio di una legge che «…costituisce una nuova e più grave offesa, non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche ai decantali principi di libertà civile, sui quali afferma di basarsi il nuovo regime», il Pontefice scrive: «Non si creda che le nostre parole siano ispirate da sentimenti di avversione contro la nuova forma di Governo o contro le altre innovazioni puramente politiche che di recente hanno avuto luogo in Spaglia. […] Vogliamo qui di nuovo esprimere la Nostra viva speranza che i Nostri amali figli di Spagna. consapevoli dell’ingiustizia e del danno di queste misure, utilizzeranno lutti i mezzi legittimi per diritto naturale e per disposizioni legali… al fine di indurre gli stessi legislatori a rivedere disposizioni tanto contrarie ai diritti di ogni cittadino e cosi ostili alla Chiesa, sostituendole con altre che siano conciliabili con la coscienza cattolica [.,.]. Raccomandiamo di nuovo e vivamente a tutti i cattolici di Spagna che. mettendo da parte lamentele e recriminazioni, e subordinando al bene comune della Patria e della religione, ogni altro ideale, si uniscano tutti disciplinati per la difesa della fede e per allontanare i pericoli che minacciano la stessa società civile».
È in questo clima dì laicismo fanatico e di crescenti tensioni sociali alimentate dalle sinistre che il centro-destra, composto dal Partito radicale e dalla Ceda (Confederación espanola de Derechas autònomas) guidata dal cattolico Jose Maria Gil-Robles, vince ampiamente le elezioni politiche del 19 novembre 1933, dove per la prima volta poterono votare anche le donne.
Un successo che suscita la reazione sempre più aspra delle sinistre che scatenano nell’ottobre 1934 la rivolta delle Asturie, mentre nel contempo in Catalogna il movimento separatista proclama L’Estat català. Eventi scanditi dall’incendio e distruzione di 59 edifici religiosi – tra cui la Càmara Santa della cattedrale di Oviedo, un gioiello della dinastia asturiana fatta saltare dai dinamiteros – e dall’uccisione di 34 membri del clero regolare e secolare.
L’insurrezione asturiana segna il vero inìzio della guerra civile, come risulta anche da studi recenti su fonti socialiste e comuniste: il movimento era stato preparato da mesi dal Psoe, dagli anarchici e dall’altro minuscolo partito comunista spagnolo (Pce).
Tuttavia questi pur gravissimi episodi furono poca cosa di fronte a quello che avvenne dopo la contestata vittoria del Frente Popular nel febbraio del 1936; nel giro di poche settimane furono distrutti o profanati 411 tra chiese ed edifici religiosi e si contarono già centinaia di religiosi massacrati (14).
Per avere un’idea del clima di ferocia ci limitiamo a riportare quanto avvenne a Toledo e a Ciudad Real subito dopo l’ingresso delle forze repubblicane: «Bande di miliziani in tuta blu da lavoro – chiamate monos -e scarpe dalle suole di corda scorrazzavano per le strade alla caccia di “fascisti” e preti. I primi, in genere, venivano portati via per essere interrogati, i secondi uccisi sul posto: unità come il “Battaglione sterminatore” e il “Gruppo di vendetta”, sembravano attenersi a poche, ma semplici regole, la principale era quella di uccidere chiunque portasse una tonaca, e prima di tutto i frati […]. Ad alcuni preti fu detto che sarebbero stati risparmiati se avessero gridato “Viva el comunismo”, qualcuno effettivamente si salvò gridando questo evviva o ripetendo, su richiesta dei miliziani, oscenità e bestemmie. Ma la maggior parte rifiutò. Padre Pascual Martin fu abbattuto davanti alla chiesa di San Nicola mentre gridava “Viva Cristo Re!” […]. Furono 107 i religiosi ammazzati complessivamente a Toledo, in maggioranza uccisi per le strade durante le prime ore di occupazione, ma le atrocità commesse contro preti e frati a Toledo furono poca cosa in confronto a quelle di Ciudad Real, la provincia confinante a sud, dove lo sterminio fu quasi totale» (15).
Certamente non tutti i religiosi subirono il martirio, alcuni vissero tranquillamente in territorio repubblicano come il progressista Enrique Vàzquez Camarasa, canonico, dottore di teologia e predicatore della Cattedrale di Madrid, inviato dal governo repubblicano a trattare con gli assediati dell’Alcazar di Toledo e più tardi emigrato a Parigi.
A fronte di questa mattanza l’atteggiamento iniziale della Santa Sede fu di grande cautela; la prima informativa ufficiale su quanto stava avvenendo è dell’agosto 1936; fu inviata dal cardinale Isidro Gomà y Tomàs che l’inizio del conflitto aveva sorpreso a Pamplona e che incontrò Franco a Burgos soltanto in ottobre, mese in cui fu pubblicata sul Boletin Oficial della diocesi di Salamanca una pastorale del vescovo Pia y Deniel, dove per la prima volta appare il termine di Cruzada per definire il conflitto.
Gomà dopo aver preso contatto con tutti i vescovi della zona controllata dai nacionales, in novembre si recava a Roma per informare personalmente sulla situazione Pio XI, ma il suo non sarebbe stato un compito facile: secondo lo storico Luis Suàrez il primo incontro con il segretario di Stato, Eugenio Pacelli, «fu molto duro e molto difficile» (16).
Le ragioni di questo atteggiamento erano molteplici e riguardavano sia la situazione interna spagnola, lo sviluppo ancora incerto del conflitto e i rapporti particolari con il governo nazionalista basco, sia il quadro europeo, sempre più difficile da gestire per la politica della Santa Sede, soprattutto in Francia, dove nel giugno 1936 aveva vinto il Front Populaire ed era ancora aperta la grave crisi con l’Action Francaise, e in Germania, per i complessi rapporti con il III Reich sempre più paganeggiante. Una deliberazione venne presa, quando la sorte del Paese Basco era decisa, con la designazione di mons. Antoniutti come inviato speciale presso la Giunta di Burgos.
Il 12 dicembre il cardinale Gomà venne ricevuto da Pio XI, e appena tornato in Spagna chiese un incontro con Franco che avvenne il 29 dello stesso mese; in tale occasione il Caudillo affermò che avrebbe rispettato pienamente la libertà della Chiesa e qualunque decisione che la riguardasse sarebbe stata presa previa consultazione e trattativa con le sue autorità. Promise inoltre che sarebbero state modificate tutte le leggi ostili alla Chiesa – cosa che avvenne nel gennaio 1938 quando si costituì il primo governo nazionale – e chiese che la Santa Sede desse consigli su tutti i problemi politici che in qualche modo fossero in rapporto con la dimensione religiosa.
Nel marzo 1937 Pio XI diede la sua approvazione a che il cardinale Gomà redigesse una Carta colectiva, cosa che fece valendosi, per la stesura finale, della collaborazione del vescovo di Madrid-Alcalà, Eijo y Garay. La Carta colectiva de los obìspos espanoles, datata 1 luglio 1937, venne sottoscritta da 45 vescovi e 5 vicari capitolari; mancavano, con motivazioni diverse, le firme di cinque vescovi, ma le assenze più rilevanti erano quella del cardinale di Tarragona (Catalogna), Vidal y Barraquer che, rimasto a Roma, la considerava troppo «politica», e quella del vescovo di Viteria (Province Basche) che riteneva i nacionales responsabili dell’esecuzione di 14 sacerdoti nazionalisti baschi.
Il documento spedito dalla Francia per evitare che venisse intercettato dai repubblicani, fu distribuito a partire dal 12 luglio, ed ebbe un grande impatto a livello internazionale e non solo nel mondo cattolico.
Rivoluzione antinazionale
Si tratta di 45 pagine in cui si ricostruiscono gli eventi che avevano scatenato il conflitto; smentendo la propaganda repubblicana sulla incontestabile vittoria del Frente Popular, il documento afferma: «II nostro regime politico di libertà democratica è stato minato dagli arbitri delle autorità statali e dalla prevaricazione del governo che ha stravolto la volontà popolare, creando un potere politico in contrasto con la maggioranza della popolazione. Come è avvenuto in occasione delle ultime elezioni del febbraio 1936, quando le destre pur avendo raccolto mezzo milione di voti in più delle sinistre, contano 118 deputati in meno del Frente Popular, poiché sono state annullate in modo arbitrario le schede in intere province, minando in tal modo la stessa legittimità del Parlamento».
Più avanti il documento, nel denunciare le devastazioni di edifici religiosi e i massacri di sacerdoti, sottolinea che si tratta di azioni premeditate; inoltre rileva il carattere antinazionale della «rivoluzione comunista spagnola, le (cui) distruzioni avvennero al grido di “Viva la Russia” e all’ombra della bandiera internazionale comunista», e rimarca che «soprattutto la rivoluzione fu anticristiana: non crediamo che nella storia del cristianesimo, e nello spazio di poche settimane, ci sia mai stata una simile esplosione […] di odio contro Gesù Cristo e la sua santa religione».
La Carta si rivolgeva «ai fratelli di tutto il mondo», ma non tutti i cattolici manifestarono in ugual modo la loro solidarietà alla Chiesa spagnola; anzi ci fu chi si schierò più o meno apertamente con le sinistre, ispirato da un malinteso senso di giustizia sociale; atteggiamento che viene così stigmatizzato: «Siamo grati alla stampa cattolica straniera di aver fatto propria la veridicità delle nostre affermazioni, così come deploriamo che alcuni periodici e riviste, che dovrebbero dare l’esempio di rispetto e obbedienza alla voce dei prelati della Chiesa, le abbiano combattute o abbiano nicchiato». In effetti, soprattutto in Francia, il mondo cattolico era diviso sull’atteggiamento da prendere di fronte agli accadimenti spagnoli.
Scriveva Francis Mauriac all’inizio del conflitto: «In un’atmosfera da guerra civile (17) abbiamo voluto “conservare la ragione”. Ma se fosse provato che i nostri governanti collaborano attivamente al massacro nella Penisola, allora sarebbe certo che la Francia è governata non da uomini di Stato, ma da capibanda agli ordini di quella che si può ben definire l’Internazionale dell’odio» (18). Vicino a quello di Mauriac, anche se meno sferzante nella forma, l’intervento di Georges Bidault sul quotidiano democristiano L’Aube: «Pur senza approvare in alcun modo il pronunciamiento, i massacri di sacerdoti e gli incendi di chiese con cui gli è stato risposto ci impediscono di considerare degna di soccorso una causa difesa con tali azioni» (19).
Paul Claudel, dal canto suo, si rifiutò di partecipare al Comitato francese per la pace civile e religiosa in Spagna dichiarando: «Se fossi spagnolo non accetterei mai di discutere allo stesso tavolo con gli infami assassini e incendiari di chiese in Catalogna, a Madrid e Valencia, con i capi la cui vigliaccheria ha reso possibili crimini che fanno fremere di orrore l’umanità» (20).
Ben diverso invece l’atteggiamento di Emmanuel Mounier e dei collaboratori cattolici di Esprit, per i quali era meglio una Chiesa sofferente piuttosto che «riparata all’ombra della spada». Significativo che la rivista pubblicasse nel giugno 1937 un articolo dello scrittore spagnolo José Bergamin, che appoggiava incondizionatamente il nuovo governo repubblicano guidato da Negrìn e dominato dai comunisti staliniani, e nel contempo un intervento di Victor Serge che denunciava la repressione operata dagli stessi staliniani contro anarchici, trockijsti e Poum.
La colpevole sottovalutazione della minaccia comunista emerge da una dichiarazione dello stesso Mounier: «Bisogna che le cose siano chiare: se la minaccia di un qualunque Stalin fosse per assurdo sospesa sulla Spagna, ci vedrebbe insorgere contro di essa così come siamo contro Franco, per le stesse ragioni, con la stessa violenza» (21).
Questa atmosfera contagia anche don Luigi Sturzo, che scriverà su L’Aube: «Nessuna crociata, nessuna guerra santa. La Chiesa non è una parte in lotta nella guerra civile spagnola» (22). Le posizioni neutrali o filorepubblicane di certi cattolici si possono in parte spiegare anche con l’atmosfera che regnava in Francia in quel periodo, pervasa da una ubriacatura filocomunista e filosovietica alimentata dalla vittoria del Front Populaire e dalla frenetica attività propagandistica del Komintern guidata dal geniale agit-prop Willi Miinzenberg, che in nome della «lotta antifascista» raccoglieva adesioni e consensi nel mondo artistico e intellettuale non solo europeo, ma anche d’oltreoceano (23).
Spiegare certe posizioni non significa tuttavia giustificare, tanto meno a posteriori, e dopo che ormai sono ben note le dimensioni dello sterminio: secondo i calcoli più attendibili il numero complessivo di religiosi massacrati nel periodo che va dal 1931 al 1939 supera i diecimila su un totale di circa 72.500 morti civili imputati ai repubblicani; nelle zone da loro controllate dominava un’«ossessione antireligiosa» che toccò punte di vera e propria follia sanguinaria, come in alcune aree della Catalogna, dove il 43,8% delle vittime appartiene al mondo ecclesiastico.
A partire dal 1987 Giovanni Paolo II avviava il processo di beatificazione di centinaia di questi martiri suscitando le vivaci critiche delle sinistre spagnole e non solo, che volevano rimuovere per sempre il ricordo di quei feroci avvenimenti, con la speranza di recuperare brandelli di una mitica innocenza mai esistita.
Note
1) E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2000, p. 193.