da Avvenire martedì 12 febbraio 2019
Il neuroscienziato Spitzer: «Sono strumenti ideati per produrre pubblicità, non per stabilire rapporti umani. Gli studi documentano solitudine da narcisismo che indebolisce il sistema immunitario»
Daniela Pizzagalli
Da anni lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer mette in guardia sui catastrofici rischi dell’iperdigitalizzazione. Dopo il successo di Demenza digitale e di Solitudine digitale il nuovo saggio Connessi e isolati (Corbaccio, pagine 293, euro 19,90) già dall’ossimoro scelto per il titolo dell’edizione italiana mette in luce le contraddizioni dell’invadente mediatizzazione che, mentre dichiara di mettere in contatto le persone, sparge invece insoddisfazione e solitudine.
«La reale funzione di Facebook, Twitter, Instagram e tutti gli altri social network è la pubblicità, il loro è un modello commerciale» sottolinea l’autore, neuroscienziato di fama internazionale, che è stato anche visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm. «I social stanno ai rapporti interpersonali reali come i pop corn stanno alla sana alimentazione: ci si aspetta di provare gioia tra amici e ciò che in verità si ottiene è solo aria fritta».
Oggetto specifico di questo nuovo libro sono le più recenti ricerche che Spitzer ha dedicato alla solitudine dell’uomo d’oggi, che nel sottotitolo è definita ‘un’epidemia silenziosa’, perché è ormai provato che non si tratta di un semplice sintomo di diverse patologie psichiche, ma di una malattia a se stante che provoca dolori cronici, che è contagiosa ed è addirittura fra le principali cause di morte nel mondo occidentale.
Se la solitudine porta all’isolamento, come può contagiare gli altri?
Nel caso in cui l’isolamento sociale è un fatto oggettivo non può essere contagioso, tuttavia c’è anche una percezione soggettiva di solitudine, che riguarda persone inserite in un contesto sociale ma con la sensazione di non essere considerate e comprese. Questo tipo di insoddisfazione si può propagare attraverso persone particolarmente sensibili e capaci d’immedesimarsi, infatti i nostri studi hanno dimostrato che se si hanno amici o vicini di casa che soffrono di solitudine, sono le donne a essere contagiate più facilmente, sia a livello emozionale che comportamentale.
Quali sono le cause della sempre maggiore diffusione della solitudine?
Si possono individuare diversi megatrend. Uno è la crescente urbanizzazione, che nel secolo scorso riguardava il trenta per cento della popolazione mondiale, mentre oggi siamo al cinquanta per cento. Sembra assurdo parlare di solitudine quando si è tra tantissima gente, ma nelle grandi città le persone non s’incontrano, si incrociano. L’urbanizzazione favorisce l’attuale tendenza alla vita da single: i matrimoni diminuiscono, si fanno pochi figli, le case sono sempre più piccole, e gli stessi miglioramenti economici favorendo l’autonomia favoriscono anche l’individualismo.
Non si dà più valore alla comunità. Un altro megatrend è la mediatizzazione, non solo quella dei social, anche la vecchia tv alimenta la solitudine. Oggi i contenuti televisivi forniscono modelli sociali attribuendo la fama non a chi si distingue nei vari campi, ma semplicemente a chi fa apparizioni: ‘famous for being famous’. Questo trend si diffonde anche nell’educazione, col risultato che fin da piccoli ci si sente ‘speciali’ non sviluppando interesse per gli altri. Il narcisismo è ormai parte integrante della cultura: basta vedere la valanga di selfie che i giovani mettono in rete.
Esiste un rapporto preciso tra solitudine e dolore fisico?
Io stesso sono stato sorpreso dai risultati delle ricerche condotte sugli effetti della solitudine sull’attività cerebrale: solitudine e dolore vengono elaborati nella stessa area cerebrale. Questo significa che, a parità di patologie, chi si sente solo soffre più degli altri. I nostri test hanno dimostrato che se si mostra a un soggetto sofferente la fotografia di una persona cara, la sua percezione del dolore diminuisce.
In che modo la solitudine, come lei sostiene, è una malattia che può avere esiti letali?
Innanzitutto la solitudine, che può essere una prima fase della depressione, provoca stress e quindi porta con sé una maggiore disposizione a ipertensione, a problemi cardiovascolari, a disturbi del metabolismo, a patologie polmonari e perfino a malattie infettive, perché indebolisce il sistema immunitario. Ad esempio, un esperimento ha dimostrato che chi soffre di solitudine prende più facilmente l’influenza!
Come si può curare la solitudine?
Ovviamente gli approcci variano da caso a caso, ma l’aspetto più importante è sempre quello di migliorare i contatti diretti, eventualmente anche sviluppando le competenze sociali. Per questo è molto dannosa la frequentazione dei social per i giovanissimi: ostacola l’apprendimento delle competenze sociali, perché non avendo davanti l’interlocutore non si può misurare lo svolgimento di una relazione attraverso gli sguardi, le espressioni facciali e corporee che sono gli indicatori delle emozioni suscitate.
Così non si impara a sviluppare l’empatia, una funzione profondamente radicata nella biologia umana, che è la vera ricetta per la felicità, perché è dimostrato che l’egoriferimento, oggi così dilagante, non produce soddisfazioni autentiche e durature come succede nelle relazioni prosociali. Tutte le ricerche lo confermano: come già diceva Aristotele, l’uomo è un essere socievole, per stare bene ha bisogno di essere inserito in una comunità.
Questo non vuol dire che sia necessario stare sempre in mezzo alla gente: basta il contatto con la natura ad alleviare la solitudine: è stato dimostrato che l’osservazione della natura mette in moto il sistema nervoso parasimpatico e provoca benessere. Ad esempio, durante una passeggiata in montagna si è portati a sentirsi piccoli davanti alla maestosità delle cime e questo ci porta a ridimensionare i nostri stessi problemi, inoltre è inevitabile sentirsi parte di un tutto, alleviando la sensazione di solitudine.