Accusano il Papa di essere responsabile della diffusione della malattia, tacciono sul rischio del “superaids” che ceti comportamenti sessuali fanno pesare sull’umanità. Il pessimo giornalismo dei liberal anglosassoni
di Rodolfo Casadei
Il modello di comportamento di una gran parte della stampa anglosassone in tema di Aids è improntato al pregiudizio anticattolico e alle forme più controproducenti di politically correct.
La Chiesa colpevole di “crimini conto l’umanità”
Per darsi arie di bastian contrari e far parlare di sé, fra aprile e maggio alcune testate hanno deciso di distinguersi dal coro rispettoso omaggio alla figura del defunto pontefice decidendo di accusarlo nientemeno che della diffusione dell’Aids, a loro modo di vedere facilitato dalla condanna morale dell’uso dei profilattici da parte della Chiesa cattolica.
Nicholas Kritof ha scritto sul New York Times che il divieto vaticano sui condom «è costato centinaia di migliaia di vite» e rappresenta «uno dei suoi più tragici errori nei suoi duemila anni di storia»; a Londra il New Statesman ha intitolato il suo servizio di prima pagina “Il sangue degli innocenti sulle sue mani” e spiegato che il Papa «probabilmente ha contribuito alla diffusione dell’Aids in Africa più dei camionisti e delle prostitute messi insieme»; Il Guardian, per non essere da meno, ha paragonato Giovanni Paolo II a Lenin: «Entrambi hanno anteposto l’estremismo ideologico alla vita umana e alla felicità, ad un costo inimmaginabile». A Sidney L’Australian, per la penna di una certa Rosemary Neill, ha pronosticato che il Vaticano «sarà infine accusato di crimini contro l’umanità».
Inutilmente da anni a tutti costoro viene fatto notare che ci vuole una totale mancanza di logica o di buona fede (più probabilmente la seconda) per immaginare fedeli cattolici che ignorano allegramente la morale cattolica quando si tratta di commettere adulterio o frequentare prostitute ma si sentono rigidamente vincolati all’insegnamento della loro Chiesa quando si tratta di usare o meno profilattici; che l’influenza della morale cattolica è in ogni caso decisamente limitata in continenti come l’Africa e l’Asia, dove i cattolici rappresentano rispettivamente il 16,5 ed il 2,9 per cento di tutti gli abitanti; che non è dimostrabile una maggiore prevalenza della sieropositività e dell’Aids nei Paesi con maggior numero di cattolici rispetto a quelli dove prevalgono confessioni religiose più “aperte” al condom, anzi semmai spesso le cose stanno al contrario: in paesi a maggioranza cattolica come Burundi (65,9 per cento), Angola (49,7), Gabon (44,8) e Uganda (43) la prevalenza di Hiv/Aids fra gli adulti è nettamente più bassa (6.1, 3.9 e 4.1 per cento rispettivamente) che nei paesi dove i cattolici sono pochi come Botswana (4,5 di cattolici e 37,3 di prevalenza di Hiv/Aids), Swaziland (5,45 e 38,8), Sudafrica (6,37 3 21,5) e Zimbawe (7,85 e 24,4); che nell’Africa sub-sahariana (700 milioni di abitanti) vengono distribuiti 700 milioni di profilattici all’anno, ma un solo paese ha ridotto sensibilmente la prevalenza di Hiv/Aids, dal 15 per cento del 1991 al 4,1 per cento di oggi, ed è l’Uganda che pratica il metodo ABC, dove la C di condom è solo al terzo posto della strategia della prevenzione, dopo l’astinenza (A) e la fedeltà coniugale (B); che infine il vero messaggio ideologico foriero di calamità è quello che dice: «Metti il condom e fai quello che vuoi», perché il tasso di fallimento di questo strumento di prevenzione, soprattutto nelle condizioni materiali e culturali prevalenti nel Terzo mondo, non è per nulla trascurabile.
Ma è inutile discutere con chi strumentalizza la causa della lotta all’Aids alle esigenze del kulturkampf anticattolico.
Lo strano caso di New York
Al chiasso ispirato dal pregiudizio fa da contrappunto il silenzio, dopo una fiammata b di interesse nei primi mesi dell’anno, sul caso di Aids resistente ai farmaci individuato a New York.
I fatti sono questi: nel dicembre scorso un soggetto omosessuale si sottopone al tst e risulta sieropositivo, e a metà gennaio gli viene già diagnosticato l’Aids conclamato. Il primo aspetto sorprendente del caso è che lo stesso individuo era stato testato più volte sieronegativo in passato, l’ultima nel maggio 2003.
In assenza di trattamenti, normalmente occorrono dieci anni per passare dalla sieropositività all’Aids. Qui invece sono passati fra i quattro e i venti mesi, e vari elementi fanno pensare che la cronologia esatta stia dalla parte del valore più basso della forchetta.
Il secondo aspetto insolito del caso sta nel fatto che da subito il virus si è rivelato resistente a quasi tutti i farmaci: di 24 medicinali attualmente usati nei regimi di trattamento antiretrovirale, si sono rivelati efficaci soltanto 2 uno dei quali è il potente Enfuvirtide, l’unico antiretrovirale attualmente somministrato solo con iniezioni, estremo ricorso in caso di Hiv resistente.
Il Dipartimento per la salute e l’igiene mentale di New York ha immediatamente lanciato l’allarme evocando la possibilità che ci si trovi di fronte ad un nuovo ceppo di Aids, aggressivo e incurabile, prontamente ribattezzato “SuperAids” dai giornali e Mdr-Hiv (cioè Hiv multifarmaco resistente) dai divulgatori scientifici.
Nove mesi dopo la prima notizia, ancora non è possibile dire se ci troviamo veramente di fronte ad una superinfezione o se lo strano caso dipenda da una predisposizione genetica del soggetto. Certamente sono noti altri casi di progressione rapidissima dell’infezione. E la resistenza ai farmaci è, purtroppo, una realtà già molto comune. «La metà dei nostri 4.200 pazienti a Baltimora – ha recentemente dichiarato Robert Gallo, co-scopritore del virus Hiv – riscontra ormai una resistenza ai farmaci.
Nel mondo circa il 15 per cento dei nuovi infettati non trova miglioramento con le cure attuali». La peculiarità assoluta del caso di New York sta nel fatto che progressione rapida dell’Aids e resistenza ai farmaci si sono manifestate contemporaneamente, cosa che non succede mai. «Quando il virus sviluppa resistenza ai farmaci, perde capacità replicativa; – spiega a Tempi Paolo Bonfanti, infettivologo del Luigi Sacco, istituto “storico” per il trattamento dell’Aids a Milano – nel caso newyorkese, invece, il virus resistente ha la stessa capacità replicativa del wild type, cioè della forma con cui inizialmente il virus è entrato nell’organismo». L’angoscioso punto di domanda, perciò, resta.
Gay e metanfetamine
Comunque stiano le cose, tutti gli infettivologi sono d’accordo su di un punto: esistono una serie di comportamenti che favoriscono la selezione di forme di Aids sempre più resistenti ai farmaci. Fra questi, la somministrazione senza controllo dell’aderenza ai trattamenti di antiretrovirali a vaste popolazioni (questo è il rischio che si corre nel Terzo mondo) e i rapporti sessuali fra sieropositivi o malati di Aids sotto terapia antiretrovirale, soprattutto quando avvengono senza nessuna forma di protezione.
Quest’ultimo fenomeno è molto comune negli ambienti gay degli Stati Uniti. Il soggetto del caso newyorkese ha ammesso di avere avuto numerosi rapporti multipli non protetti dopo aver assunto metanfetamina, un eccitante che aumenta la libido e annienta i freni inibitori. Secondo stime del governo Usa, nel paese circa 12 milioni di persone (il 4 per cento della popolazione) ha fatto uso almeno una volta della metanfetamina, ma fra i gay la percentuale è molto più alta: secondo il Dipartimento per la salute di San Francisco il 40 per cento degli omosessuali maschi della città ha fatto uso almeno una volta della metanfetamina, al cui consumo sono legati fra il 25 ed il 30 per cento dei nuovi casi di sieropositività.
Anziché processare Giovanni Paolo II e la Chiesa cattolica a mezzo stampa ed emettere caricaturali verdetti di condanna, i commentatori liberal anglosassoni farebbero meglio a dedicare la loro attenzione a questi duri fatti.