di Francesco Mario Agnoli
Le celebrazioni – praticamente già in corso anche se manca ancora qualche mese alla data fatidica – del bicentenario della Rivoluzione francese rendono inevitabile che si pensi anche al suo contrario, la controrivoluzione, e che se ne parli e discuta, sicché gli organizzatori del grande spettacolo rivoluzionario hanno ritenuto opportuno prendere l’iniziativa occupando lo spazio dei loro possibili contraddittori.
Ecco apparire così in libreria, per i caratteri dell’editore Mursia, La Controrivoluzione, di Jacques Godechot, pubblicato in Francia nel 1961, che riprende, come annota in premessa l’autore, un corso di lezioni tenute negli anni 1958-59 a studenti che avevano nel loro programma di storia il periodo 1789-1804 (il che spiega l’insolita scelta del termine finale del 1804, nonostante che la controrivoluzione si sia protratta alquanto oltre tale data) (1).
Opera non recente, quindi, ma la cui pubblicazione in Italia si giustifica da un lato con la scarsità di studi sull’argomento, dall’altro con il fatto che, a dispetto del tono scientifico e asettico, si tratta di una controrivoluzione vista con gli occhi di uno studioso rivoluzionario, che, del resto, non sempre riesce a nascondere le sue simpatie e le sue convinzioni e a volte, specie quando all’ideologia si aggiunge il tradizionale nazionalismo francese, si abbandona, a conforto delle proprie tesi, a vere e proprie manipolazioni della storia.
Indubbiamente l’ideologia controrivoluzionaria non abbonda di teorici e ideologhi, e le difficoltà di precisarne confini e contenuti sono accresciute dal fatto che in tempi recenti si sono attribuiti alla controrivoluzione movimenti politici (basti pensare al fascismo c al nazismo), scrittori e pensatori (2) che sono invece discendenti diretti e legittimi dell’ideologia rivoluzionaria, anche se è vero che non pochi dei loro seguaci si ritengono in buona fede dei controrivoluzionari e in diritto di richiamarsi ai valori della tradizione (3).
In nome del cristianesimo
Tuttavia non è consentito a chi vuole fare opera di autentica ricerca e di chiarificazione mescolare, come fa invece Godechot, veri e fondamentali pensatori controrivoluzionari, quali, primi fra tutti, Edmund Burke e Joseph de Maistre, e scrittori, oltre che modesti e superficiali, imbevuti in realtà di cultura illuministica e di spirito sostanzialmente rivoluzionario come Sénac de Meilhan (4) o personaggi che nell’ultimo decennio del secolo XVIII e nel primo del XIX si batterono effettivamente, magari non solo con la penna, ma sul campo, a favore della dinastia dei Borboni di Francia, come Mallet du Pan, ideatore e direttore di una vasta rete spionistica filomonarchica, e, quindi, contro il fenomeno storico della Rivoluzione, della quale però, in definitiva, non ripudiavano i princìpi fondamentali, a cominciare dal pregiudizio anticristiano, ma soltanto gli eccessi o, al limite, le frettolose imprudenze (5).
È possibile che il numero dei pensatori realmente controrivoluzionari sia in realtà così modesto da ridurre a uno smilzo libretto un’opera, quale è in definitiva quella di Godechot, che miri più a divulgare che ad approfondire, ma ciò non giustifica che si travestano, per esempio, da controrivoluzionari i fautori del dispotismo illuminato o che si faccia passare per tale qualunque sostenitore della monarchia (6). Come si è appena avuto occasione di dire (cfr nota 5), dal momento che l’ideologia e l’azione rivoluzionarie erano e sono essenzialmente e radicalmente anticristiane, controrivoluzionario è chi alla Rivoluzione si oppone non a difesa di interessi, di un trono o di una dinastia, ma in nome degli eterni princìpi del cristianesimo.
Ovviamente non vi è ragione di non riconoscere, nonostante la fermezza delle nostre opinioni sul punto, che fin qui ci si muove (come sempre avviene nel dominio delle idee la cui verità non è suscettibile di dimostrazioni matematiche) nel territorio dell’opinabile e che agli occhi del lettore il nostro concetto di controrivoluzione vale quello, essenzialmente diverso, di Godechot; ma la situazione muta quando si passa agli avvenimenti storici, ai “fatti”, suscettibili anch’essi di valutazioni diverse e di divergenti interpretazioni, ma indiscutibili nella loro realtà, nel loro essersi o no storicamente realizzati. Ed è su questo punto che si rivela in pieno il carattere settario dell’opera di Godechot, che, mescolando rivoluzionarismo e sciovinismo, altera completamente, almeno per quanto riguarda la controrivoluzione italiana, la realtà dei fatti.
Non unicamente quando parla dell’Italia (ma solo a questa ci atterremo) Godechot, nell’evidente intento di negarne la spontaneità e l’origine nella fede cristiana delle popolazioni, cerca di trovare alle “insorgenze” contro francesi e giacobini cause e motivazioni variabili da luogo a luogo e in molti casi fondate, per darvi un’apparente consistenza, su vere e proprie falsificazioni della storia.
Così l’insorgenza di Lugo di Romagna del 1796 viene spiegata principalmente con il desiderio della popolazione lughese di non essere sottoposta a Ferrara. Scrive a questo proposito Godechot: «Lugo aveva un lungo passato d’indipendenza, era una cittadina, ma essa si era sempre considerata pari a Ferrara e perfino sua rivale. Ora i Francesi avevano stabilito un’Intendenza di finanza a Ferrara e non a Lugo. L’Intendenza di Ferrara aveva ripartito i tributi imposti dai Francesi In tutta la regione; di modo che, per la prima volta nella sua esistenza, indubbiamente. Lugo si trovava sottomessa a Ferrara. Gli abitanti di Lugo si mostrarono molto irritati per essere stati sottomessi ai Ferraresi. La rivolta di Lugo si spiega quindi non solo con l’ostilità nei confronti dei Francesi e delle idee rivoluzionarie, ma anche con una circostanza particolare: la subordinazione a Ferrara».
Occasione, non causa
Ora è ben vero che Lugo aveva sempre mal sopportato la supremazia ferrarese e che l’occasione (l’occasione, non la causa) dell’insorgenza del 1796 fu data dalla pretesa di Ferrara, incaricata dai Francesi di procedere all’odiosa esazione, di raccogliere a Lugo e negli altri paesi della Legazione buona parte dei tributi imposti dai conquistatori, ma non era affatto la prima volta che Lugo si trovava soggetta a Ferrara, dal momento che era da secoli in questa situazione, avendo fatto parte dapprima del ducato estense, poi. fino al giorno dell’invasione, della Legazione di Ferrara, che, appunto per questa ragione, e non per particolari simpatie dei Francesi, era stata incaricata della “raccolta” delle contribuzioni (per di più la stessa affermazione che a Ferrara fosse stata istituita un’Intendenza di finanza è un piacevole eufemismo per descrivere la ben diversa situazione di un contributo di guerra imposto ai ferraresi, che avrebbero risposto in proprio di quanto non fossero riusciti a raccogliere nel territorio della Legazione ).
Infine non manca, a discapito degli insorgenti, la nota di colore, naturalmente falsa, con la quale l’autore cerca in qualche modo di compensare le malefatte dei suoi compatrioti, affermando che, partiti i soldati, “i contadini che erano insorti in precedenza contro i Francesi penetrarono nella città e continuarono il saccheggio iniziato dai soldati”, un saccheggio del quale non si trova traccia nei documenti dell’epoca, che riferiscono invece con ampiezza delle devastazioni e delle uccisioni consumate dai “liberatori”.
Del resto simili imprecisioni caratterizzano tutta la ricostruzione della controrivoluzione italiana fatta da Godechot, che giunge perfino a contraddirsi quando, dopo avere attribuito all’insorgenza carattere esclusivamente contadino, nell’evidente tentativo di assimilarla alle antiche jacquerics del suo Paese, conferendole, in sostanza, natura di lotta di classe ante litteram, riferisce poi che tanto a Lugo come a Pavia (altro epicentro di una rivolta antifrancese e antigiacobina nel 1796) i moti ebbero “come istigatori piccoli artigiani e contadini appoggiati da alcuni nobili dei dintorni, forse anche da qualche parroco”, senza accorgersi che in tal modo smentisce il proprio assunto, dal momento che contadini e artigiani costituivano la totalità delle classi popolari, gli uni delle campagne e gli altri delle città.
Ugualmente esatto che modesta fu la partecipazione dei nobili all’insurrezione, anche se a Lugo più elevata che altrove, e che gran parte del clero, soprattutto della gerarchia, non solo non appoggiò i moti popolari, ma tentò di indurre le popolazioni alla calma e all’ordine. Particolari questi (ridotta presenza dei nobili e atteggiamenti delle gerarchie ecclesiastiche) che giocano a favore di una assoluta spontaneità dei moti, che Godechot tenta invece di mettere quanto meno in dubbio. Ovviamente in tutte o quasi le insorgenze (ma vi è, per esempio, l’importante eccezione delle “Pasque veronesi”, che ebbero soprattutto carattere cittadino) i contadini recitarono un ruolo preponderante, ma unicamente perché alla fine del secolo XVIII costituivano ancora la componente di gran lunga più numerosa delle classi popolari.
Comunque la tecnica “giacobina” del nostro autore è quella di scartare la nota religiosa, comune in tutti i moti popolari di quegli anni, per ricercarne e sottolinearne gli elementi di differenziazione, sempre rintracciabili nelle insorgenze, specie quando volutamente o no si confonde l’occasione con la causa, come conseguenza del loro carattere spontaneo in un’epoca di difficili comunicazioni, quando pressoché ogni paese, a causa del suo relativo isolamento, conservava le proprie peculiari caratteristiche: fenomeno accentuato in Italia dalla frammentazione politica e, quindi, dalla mancanza di un centro, come in Francia Parigi, capace di dettare mode e costumi.
Così a proposito delle Pasque veronesi viene sopravvalutata l’efficacia causale dell’attività provocatoria dei servizi segreti dell’esercito francese, che senza dubbio si adoperarono per fornire a Napoleone il pretesto di cui andava in cerca al fine di impossessarsi, nonostante la sua proclamata neutralità, della Repubblica di Venezia della quale intendeva servirsi come merce di scambio per compensare l’Austria della perdita della Lombardia e indurla alla pace, ma altrettanto certamente è eccessivo affermare che senza tale intervento probabilmente non vi sarebbe stata alcuna rivolta, pur se il particolare è in realtà irrilevante per chi non confonde l’occasione con la causa. E che nella rivolta veronese l’attività degli agenti provocatori costituisse nulla più dell’occasione di una insurrezione che sarebbe potuta scoppiare in qualunque momento per qualunque altro motivo è riconosciuto fra le righe dallo stesso Godechot, costretto dalla realtà dei fatti ad ammettere che questa ebbe “di gran lunga una maggiore rilevanza di quanto si pensasse” (evidentemente anche gli 007 napoleonici, a somiglianza del loro tardo compatriota, non avevano capito che la collera dei veronesi, profondamente offesi nella loro fede cristiana e nel loro attaccamento alla Serenissima, sarebbe esplosa alla prima occasione, fosse questa l’ipocrita suggerimento di un agente provocatore, una menzogna fatta circolare ad arte, il divieto di una processione o la spoliazione di una chiesa).
L’insurrezione dei “Viva Maria”
Persuaso forse di essere riuscito a spezzettare in episodi isolati un fenomeno che ebbe invece rilievo nazionale, anzi europeo, pur nell’assenza di un unico centro direttivo, come identica reazione di un popolo a identiche (nella loro vera sostanza) sollecitazioni, Godechot si spinge ad affermare che, in fondo, si trattò, anche in una valutazione complessiva, di un fenomeno di scarsa importanza per la sua breve estensione sia nel tempo che nello spazio. «Si rilevano soltanto – scrive – quattro centri insurrezionali, per giunta limitati geograficamente: uno nella regione di Pavia, un altro nella regione di Lugo-Imola, un terzo nella zona di Verona, un quarto in Liguria. Infine, queste quattro rivolte furono represse assai facilmente. Ritroveremo suppergiù gli stessi caratteri nelle insurrezioni che si sarebbero verificate nel 1798.»
In realtà le insorgenze interessarono tutti i territori toccati dall’invasione francese: la Lombardia, il Veneto, la Liguria e quella parte della Romagna che fece conoscenza con i “liberatori” già nel 1796 (si rammenti che in questa occasione i Francesi non giunsero a Rimini e che anche a Lugo, e, in genere, nelle Legazioni di Ferrara e di Ravenna, la loro presenza fu, dapprima, limitata a un breve periodo) (7). Se, per esempio, l’insurrezione dei “Viva Maria” toscani si manifestò solo nel 1799, ciò accadde perché solo in quell’anno i Francesi posero fine all’esistenza del granducato, che fino a quel momento aveva, è vero, vivacchiato in un limbo da Stato vassallo, in condizioni di solo parziale indipendenza, che tuttavia, in un’epoca nella quale non era ancora vivo il sentimento nazionale come poi lo si intese, bastava a garantire ai suoi abitanti ciò che loro importava: il diritto di vivere secondo le loro tradizioni e costumanze e, soprattutto, di professare liberamente la propria fede con i riti cari al loro cuore, che, a differenza di quanto si è oggi portati a credere, non avevano soltanto un valore esteriore, come quei nostri remoti antenati seppero dimostrare affrontando, per assicurarne il rispetto, ogni disagio e la morte.
Contro il vescovo giansenista
Del resto anche prima del 1799 il popolo toscano era insorto non appena aveva avvertito l’addensarsi di nubi minacciose sulla religione cattolica. A Prato nel 1787 e a Pistoia nel 1790 vi erano stati tumulti (a Pistoia avevano preso l’aspetto di una vera e propria insurrezione) contro il vescovo giansenista Scipione de’ Ricci, che, favorito dal granduca Pietro Leopoldo, aveva tentato di realizzare una Chiesa nazionale toscana, separata da Roma (forse il popolo non capiva molto di teologia, ma aveva giudicato con certezza delle intenzioni del vescovo quando questi aveva fatto abbattere un’altare nell’oratorio della soppressa Compagnia della Misericordia). Per di più simili tumulti, precedenti alla grande insorgenza del 1799, non avevano mancato di coinvolgere i Francesi allorché costoro avevano imposto al debole Ferdinando III ¡1 loro “temporaneo” insediamento a Livorno, occupata il 26 giugno 1796.
Emerge, quindi, in tutte le insurrezioni il dato costante di una spontanea sollevazione popolare in coincidenza con l’occupazione francese e l’instaurazione di governi giacobini non appena se ne offre l’occasione e quando i provvedimenti antireligiosi rendono evidente l’esistenza di un programma di scristianizzazione. La trascuratezza di Godechot per questo fondamentale e veramente caratteristico elemento delle insorgenze non può, d’altronde, spiegarsi con la scarsa conoscenza (comunque ingiustificabile in chi si accinge a scriverne) che di quelle vicende italiane si ha in Francia (e, per il vero, a causa del voluto velo di oblio con il quale si è tentato di nasconderle, anche in Italia), dal momento che le affermazioni più singolari e più remote da una realtà, almeno questa, universalmente riconosciuta si riferiscono all’unico episodio della resistenza antifrancese e antigiacobina che, per la sua importanza, si è potuto demonizzare, ma non celare: la riconquista del Sud ad opera dell’Armata della Santa Fede condotta dal cardinale Ruffo.
Si legge, difatti, nelle pagine dedicate alla nascita e all’effimera esistenza della Repubblica Partenopea, installata a seguito della conquista militare francese subito dopo l’ingresso a Napoli, il 23 gennaio 1799, delle truppe del generale Championnet: «E’ indubbio tuttavia che, nonostante l’assenza di provvedimenti favorevoli alle masse contadine [da parte del neonato governo repubblicano] l’adesione delle stesse alla repubblica al momento della proclamazione del nuovo regime, sia stata generale. All’inizio ci fu solo un piccolissimo numero di oppositori rimasti fedeli ai Borboni». E ancora: «Per quel che attiene al lealismo dinastico, non esisteva più. Ferdinando III (8) era figlio di Don Carlos, il primo dei Borboni che aveva regnato su Napoli. Nel corso dell’epoca moderna a Napoli si erano frequentemente alternate l’una all’altra le dinastie: nessuna aveva destato profondi sentimenti di simpatia nella popolazione».
Sembra di sognare e si stenta a credere che queste parole siano state scritte da uno storico che si picca di sapere qualcosa delle vicende italiane. Personalmente sono propenso a pensare che, in quel momento storico, i personaggi che incarnavano la dinastia dei Borboni di Napoli non meritassero la fedeltà delle popolazioni meridionali: Ferdinando IV era sovrano imbelle anche se i suoi atteggiamenti e i suoi modi autenticamente popolareschi gli attiravano molte simpatie: la regina Maria Carolina si era atteggiata con singolare incoscienza a protettrice dei liberi pensatori, degli illuminati e della massoneria al punto che l’abate Jerocades nel 1782 l’aveva elogiata quale patrona delle logge di Napoli con questi orribili versi:
«Venne al Tempio l’augusta regina
e ci disse: miei figli cantate,
ma la legge, ma il rito serbate
ma si accresca del soglio l’onor.
Io vi salvo dall’alta ruina
io distruggo le frodi, gli inganni:
io vi tolgo dal petto gli affanni
io vi rendo la pace del cor».
Con simili precedenti si poteva supporre che il popolo assistesse indifferente al crollo del regime mentre l’esercito regolare napoletano si squagliava come neve al sole e la Corte si affrettava a imbarcarsi per la Sicilia, ma ciò non avvenne e i fatti sono più forti di qualunque ragionevole logica.
A smentire Godechot basterebbe la fulminea riconquista del Regno a opera dell’Armata della Santa Fede compiuta sulle ali di un entusiasmo popolare così dirompente che il cardinale Ruffo, sbarcato il 7 febbraio 1799 praticamente solo a Pezzo, sulla costa calabrese, poteva pochi giorni dopo contare sopra un grosso esercito, anche se assai male armato, il cui rapido formarsi lo storico francese, non potendone ignorare consistenza e imprese, attribuisce all’incapacità del governo repubblicano di sfruttare l’iniziale benevolenza dei contadini e l’adesione delle masse, per quanto “non profonda”, che si sarebbero consolidate “se fossero stati rapidamente presi dei provvedimenti a favore dei contadini, al fine di migliorare la loro situazione sociale ed economica”.
Ennesima dimostrazione dell’incapacità degli storici giacobini e dei loro epigoni di comprendere che le azioni umane hanno spesso cause e fini assai più profondi di quelli economici e di intuire l’importanza del sentimento religioso, del quale Godechot si sbriga assai rapidamente con l’affermare che “una disamina approfondita dei problemi religiosi in Calabria dimostra che i repubblicani non avevano assolutamente messo le mani nelle questioni di carattere religioso durante i sei mesi nei quali essi erano restati al potere”, per concludere che la rivolta ebbe il carattere di “una lotta contro i ricchi per impossessarsi delle loro proprietà” (9).
Ma anche a volere accettare le tesi del nostro autore per quanto riguarda il periodo della riconquista, rimane inesplicabile il suo silenzio sugli avvenimenti che caratterizzarono la fase della conquista francese, a cominciare dalle insorgenze abruzzesi e, soprattutto, dalla resistenza disperata opposta dai “lazzari” alle armate del generale Championnet, e che dimostrano, aldilà di ogni ragionevole dubbio, quanto sia sbagliata la categorica affermazione sull’assenza nel Regno di Napoli di un lealismo monarchico e sulla presenza esclusivamente di “un piccolissimo gruppo di oppositori rimasti fedeli ai Borboni”.
Evidentemente Godechot non ha mai letto nemmeno Croce, certo non sospetto di simpatie controrivoluzionarie e anzi notoriamente ammiratore degli intellettuali che costituivano il nucleo e la quasi totalità della Repubblica Partenopea, il quale, senza esitazione, identifica i pretesi “pochissimi” che avevano preso le armi contemporaneamente all’ingresso nel Regno delle truppe dello Championnet provenienti dallo Stato Pontificio e alla rotta dell’esercito napoletano malamente guidato dal generale Mack, con “la maggior parte della popolazione del Regno, i contadini e pastori, i quali non avevano altro barlume d’idea politica che la potenza del Re, presente in persona alla plebe della capitale e a lei caro per affinità di carattere e costume, splendente di lontano all’immaginazione del popolo delle provincie […]. La monarchia napoletana, senza che se l’aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettavano nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re e furono denominate, allora per la prima volta, bande della Santa Fede” (10).
Ritorno in Romagna
Si potrebbe continuare a lungo, perchè la storia della controrivoluzione in Italia, anche a limitarla al periodo 1796-1804, esigerebbe ben più ampi spazi (11), tuttavia quanto si è fin qui detto appare più che bastevole a dare conto della scarsa attendibilità del lavoro di Godechot e delle probabili ragioni ideologiche che stanno alla base della sua tanto sollecita pubblicazione in Italia a preferenza di altre opere (come quella di Leoni), forse meno accademicamente autorevoli, ma certo più significative e più utili a chi desideri un quadro non deformato della realtà storica.
Mi sia solo consentito di chiudere questo excursus storico, che ci ha portati dal nord al sud della Penisola, con un ritorno alla Romagna attraverso la citazione di un autore, in gioventù rivoluzionario e componente della municipalità giacobina di Cesena e nei suoi anni maturi ministro liberal-moderato di Pio IX, in preparazione del ministero riformatore di Pellegrino Rossi, Eduardo Fabbri, il quale nelle sue memorie così rammenta l’insorgenza antifrancese del Cesenate e dell’Urbinate del marzo 1797 (naturalmente del tutto ignota a Godechot, come, del resto, avevano cercato di trascurarla e nasconderla gli storici dell’epoca): «I Francesi, coi vocaboli di libertà ed uguaglianza, male interpretati e peggio applicati, capovolsero ogni ordine antico. In Romagna ebbero fieramente avversi clero e plebe. Bella e onorata fu a quei giorni la sollevazione di Urbino e non s’intende perché il valentissimo Botta non ne abbia ai posteri tramandata la memoria» (12).
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1) Per l’esattezza, come fenomeno politico-culturale, continua ancora oggi, come, d’altronde, la Rivoluzione.
2) Si pensi, tanto per fare un nome, al filosofo Julius Evola.
3) In realtà il termine “tradizione” si può prestare a equivoci e sarebbe necessario aggiungervi la specificazione “cristiana”. Non si vuole con questo intendere che la religione cristiana debba necessariamente e totalmente coincidere con il cosiddetto “tradizionalismo”, in quanto questo ha contenuti politici e sociali che non sono coessenziali al cristianesimo, ma appartengono piuttosto alla sua storica realizzazione in un periodo, il Medioevo, nel quale, secondo i tradizionalisti, si realizzò meglio che in ogni altra epoca una societas Christiana.
4) Nel suo libro Des principes et des causes de la Révolution française Sénac pone si l’illuminismo fra le cause della Rivoluzione, ma afferma trattarsi di un illuminismo (sul quale esprime giudizio positivo) male interpretato da persone impreparate a riceverlo e a capirlo.
5) Occorre usare i termini con precisione. Di conseguenza non è possibile qualificare come controrivoluzionari, nel senso che qui si intende, tutti coloro che di fatto si batterono contro la Rivoluzione e che molte volte furono mossi semplicemente da interessi personali, attaccamento ai privilegi nobiliari, fedeltà dinastica. Se (come si potrebbe dimostrare anche se non è questa la sede per farlo, considerato il più modesto oggetto che ci si è proposti) l’essenza della Rivoluzione fu l’anticristianesimo e il suo scopo principale quello di cancellare la Chiesa dalla faccia della terra, è ovvio che il primo requisito che si deve richiedere a un autentico controrivoluzionario è la fede cristiana. Per questo nel primo periodo della fase violenta della Rivoluzione – nel quale si possono includere anche l’impero e le conquiste napoleoniche – i veri controrivoluzionari furono soprattutto i contadini e gli artigiani, gli umili appartenenti alle classi popolari, insorti in armi contro un’opera di scristianizzazione della quale essi, con una sensibilità a volte molto maggiore dei loro pastori, avvertivano tutta la pericolosità.
6) Erano. per esempio, certamente controrivoluzionari i cittadini della Repubblica di Venezia (la Serenissima, non la sua effimera parodia della Repubblica Democratica messa in piedi da Napoleone, che poi si affrettò a distruggerla cedendola all’Austria, a conferma di quello sprezzante cinismo che lo aveva indotto a scrivere al Direttorio il 26 maggio 1797: «Difficilmente Venezia può sopravvivere […] Popolazione inetta, vile e del tutto inadatta alla libertà», che a Verona eroicamente insorsero contro l’occupante francese e i suoi scarsi amici giacobini nelle cosiddette “Pasque veronesi”.
7) L’occupazione di Ravenna ad opera delle truppe del generale divisionario Augereau si protrasse solo per nove giorni e la stessa Lugo venne abbandonata dai Francesi subito dopo il sacco. Il 30 luglio 1796 Napoleone dovette richiamare anche le truppe francesi dall’assedio di Mantova e il contingente che, al comando del colonnello Yann, presidiava Ferrara, per fronteggiare gli austriaci del maresciallo Wurmser. I Francesi rientrarono poi in Ravenna il 18 agosto di quello stesso anno, ma questa città venne restituita al Papa e l’occupazione fu circoscritta – fino alla battaglia del Senio del 2 febbraio 1798, che diede ai repubblicani il dominio dell’intera Romagna – a Ferrara e alla Bassa Romagna (o Romagnola), che aveva in Lugo il suo centrò principale. L’estendersi dell’occupazione francese e il crollo delle speranze in una vittoria delle armate pontificie, che si erano radunate a Faenza e avevano avuto l’appoggio entusiastico di numerosissimi volontari o arruolatisi nell’esercito regolare o a questo unitisi in occasione della battaglia sotto il comando dei “capimassa”, fece quasi immediatamente scattare nuove, violentissime insurrezioni che coinvolsero, a cominciare dal marzo 1797, tutta la zona montana del Cesenate, del Forlivese e dell’Urbinate (famoso l’episodio dell’incendio, ad opera delle truppe del generale Sahuguet, del paese di Tavoleto), delle quali Godechot non fa menzione nonostante avessero tale importanza, consistenza ed estensione che i Francesi, anche dopo le vittorie conquistate sul campo, dove la loro superiorità in armamenti e organizzazione era schiacciante, non ebbero mai, fino al 1801 e anche oltre, il controllo delle campagne, restando confinati nella cerchia delle mura cittadine, che lasciavano solo intruppati in ben armate colonne. Successivamente, nel febbraio del 1798, la conquista di Roma e l’instaurazione della Repubblica Romana determinarono l’insurrezione dell’intera Italia centrale, che venne repressa sanguinosamente, ma mai interamente domata.
8) In realtà Ferdinando IV.
9) Indubbiamente nella insurrezione del Sud fu presente anche un aspetto sociale, non riscontrabile invece nelle insorgenze del Norditalia (basti ricordare il detto “E se tiene pane e vino ha da esser giacobino”), pur se in parte motivato, più che da brama di possesso, dallo sdegno per l’irreligiosità della ricca borghesia e della nobiltà soprattutto della capita- le.
10) B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari 1972. Per il vero le stesse affermazioni di Croce non sono del tutto esatte, in quanto, se non forse quella dei “lazzari” napoletani, dei quali nulla si sa a questo proposito, la monarchia aveva messo nel calcolo la resistenza delle popolazioni abruzzesi se Ferdinando IV, l’8 dicembre 1798, quando si apprestava a riparare in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese, aveva rivolto ai montanari d’Abruzzo un appello per spingerli a prendere le armi contro gli invasori.
11) Per un quadro schematico, ma sufficientemente completo, si può suggerire la lettura di F. LEONI, Storia della controrivoluzione in Italia (1789/1859), Napoli 1975.
12) E. FABBRI, Sei anni e due mesi della mia vita, a cura di N. TROVANELLI, Cesena 1915
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