Atlantico quotidiano 12 Giugno 2019
di Anna Bono
Protestano i cittadini di tre paesi africani – Sudan, Algeria, Liberia – sfilano per le strade delle capitali, erigono barricate. In Sudan e Algeria le manifestazioni sono cominciate mesi fa.
In Sudan fino ad aprile la gente è scesa in strada contro il presidente Omar al-Bashir, da 30 anni al potere, talmente feroce nel reprimere ogni opposizione e nella realizzazione del suo progetto di arabizzazione del paese, costato milioni di morti e di profughi, da aver meritato nel 2009, primo presidente al mondo, di essere incriminato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.
Dopo che l’11 aprile i militari lo hanno deposto, le proteste sono riprese non appena si è capito che un nuovo regime rischia di sostituire quello precedente. Dall’inizio di giugno, quando il Consiglio militare di transizione ha ordinato alle Forze speciali paramilitari di aprire il fuoco sulla folla inerme per disperderla e liberare le strade dalle barricate, i morti sono già decine, forse più di 100.
In Algeria le proteste erano iniziate a febbraio, all’annuncio che il presidente Abelaziz Bouteflika, in carica dal 1999, si sarebbe candidato per un quinto mandato alle elezioni in programma il 18 aprile.
La rivolta era contro “le pouvoir”, il potere: così gli algerini chiamano il sistema corrotto e clientelare consolidatosi nei 20 anni di Bouteflika. L’11 marzo l’ufficio di presidenza annunciava la rinuncia del presidente a candidarsi, l’imminente formazione di un nuovo governo e il rinvio delle elezioni sine die.
Ma le proteste sono continuate: anche dopo le dimissioni di Bouteflika, rassegnate il 2 aprile, dopo la nomina del presidente del consiglio Abdelkader Bansalah a capo dello stato ad interim e dopo l’annuncio della data delle elezioni, fissata al 4 luglio.
La popolazione contesta la persistenza al potere, neanche dissimulata, della vecchia leadership e le ingerenze dei militari negli affari politici. Per tutta risposta il 3 giugno il Consiglio costituzionale ha annullato il voto del 4 luglio.
Le ragioni dei manifestanti a Khartoum e ad Algeri sono chiare: protestano contro regimi corrotti e violenti e contro chi li vuole rimpiazzare senza che però niente cambi. Che la Liberia sia in rivolta invece sembra insensato.
Il paese è stato governato per 12 anni, dal 2006 al 2017, da Ellen Johnson Sirleaf, premio Nobel per la pace 2011. Alla scadenza dei suoi due mandati, nel gennaio del 2018, la carica è passata a George Weah, ex giocatore di calcio, vincitore di elezioni giudicate dagli osservatori internazionali “fair and free”, trasparenti e libere.
Nel 2006 la Liberia usciva da due guerre civili e 14 anni devastanti. Johnson Sirleaf promise che la lotta alla corruzione sarebbe stata il “nemico pubblico numero uno”. Invece ha lasciato che la corruzione continuasse a dilagare. “Fedele” alla consuetudine dei leader africani, ha assegnato cariche governative importanti a tre figli e a una sorella.
A chi la criticava rispondeva: “Dov’è il problema? Avevo bisogno di persone di fiducia”. Alla sua seconda vittoria ha contribuito il sostegno politico di Prince Johnson, ex leader del gruppo armato National Patriotic Front of Liberia, protagonista della prima guerra civile, combattuta dal 1989 al 1996. Nel 1990 il suo Fronte riuscì a rapire il presidente Samuel Doe che fu torturato per molte ore prima di essere ucciso.
Torture ed esecuzione furono filmate e il video diffuso in tutto il mondo. Riprende Johnson che assiste alle torture, che beve birra, mentre i suoi uomini tagliano un orecchio al presidente. Tuttavia, nel 2005 Johnson ha vinto un seggio al Senato e tuttora vi rappresenta la contea Nimba.
George Weah, all’indomani del suo insediamento, ha detto di aver ereditato un paese “fallito, impoverito dal malgoverno”, e ha dichiarato un impegno totale per garantire d’ora in poi trasparenza e buon governo. Dopo un anno e mezzo, però, ancora nulla è cambiato. Invece, nel frattempo, Weah ha avviato l’ampliamento dei poteri presidenziali e la concomitante riduzione dell’autonomia di istituzioni come la Commissione anticorruzione.
Per gli enormi problemi economici del paese, il 5 febbraio scorso ha esortato la popolazione a pregare Dio due ore al giorno affinché intervenga a risolverli e ha chiesto a tutti i credenti di dedicare alla preghiera l’intera notte precedente l’ultimo venerdì di ogni mese, per chiedere a Dio di benedire il governo.
Weah ha voluto come vicepresidente Jewel Taylor, ex moglie dell’ex presidente liberiano Charles Taylor, condannato e attualmente in carcere per crimini di guerra. Jewel, che ebbe un ruolo attivo durante la presidenza del marito, è stata anche nominata presidente del Comitato Sanità e Welfare del Senato su gender, donne e infanzia.
Le manifestazioni di protesta in corso in Liberia sono le più grandi dalla fine della guerra civile. “Salva lo stato!” scandiscono i partecipanti che chiedono a Weah di combattere la corruzione e mettere fine alle violazioni della costituzione e lo accusano di ignorare le difficilissime condizioni della popolazione e di pensare solo ad accumulare ricchezze.
Due scandali in particolare che riguardano la scomparsa di fondi pubblici hanno suscitato l’indignazione generale: i container pieni banconote appena stampate per un valore di 104 milioni di dollari svaniti nel nulla appena sbarcati nei porti liberiani e il cattivo uso di 25 milioni di dollari nel 2018.
Nella scomparsa di 104 milioni di dollari, lo scandalo più grosso, è coinvolto il figlio di Johnson Sirleaf, Charles, vice governatore della Banca centrale della Liberia, arrestato a marzo con altri funzionari con l’accusa di sabotaggio economico, uso illecito di denaro pubblico e cospirazione criminale.
Mentre era vice governatore della Banca centrale della Liberia, Charles avrebbe fatto stampare da una ditta svedese delle banconote per un totale tre volte superiore a quello autorizzato dalla banca. La differenza, 104 milioni di dollari (pari a circa il 5 per cento del Prodotto interno lordo del paese), pare non sia stata depositata nelle casse della Banca centrale.
Una parte di quei milioni sarebbe finita nelle tasche del figlio dell’ex presidente. Era stata Ellen Johnson Sirleaf a nominare Charles vice governatore della Banca centrale. Invece al figlio Robert aveva affidato la presidenza della Compagnia nazionale petroli, fallita nel 2015.
La Liberia è al 181esimo posto nell’Indice di sviluppo umano 2018 su 189 paesi classificati. La speranza di vita alla nascita è di 63 anni, 20 meno che in Italia. Il tasso di occupazione dei liberiani di 15 anni e oltre è del 54,3 per cento, il Pil pro capite annuo è 753 dollari.
All’epoca dell’epidemia di Ebola, nel 2014-2015, si è scoperto che il paese ha solo 80 posti letto di ospedale ogni 100.000 abitanti e 50 dottori su una popolazione di 4,3 milioni. Eppure, Ellen Johnson Sirleaf non solo ha vinto il Nobel per la pace, ma ha anche ricevuto il premio Mo Ibrahim, della fondazione Mo Ibrahim, che viene conferito a ex capi di stato e di governo che si siano distinti per eccellenza di leadership, aver sviluppato i loro paesi, rafforzato democrazia e rispetto dei diritti umani.
Nel 2011, intervistata dal Corriere della Sera, aveva dichiarato: “La mia presidenza è stata un grande successo. Per il fatto di essere donna ho portato una quota di sensibilità in più. Grazie al mio istinto materno, siamo stati in grado di rispondere a donne e giovani. Non a caso mi chiamano Mama Ellen. Nel mio Paese mi considerano la madre della nazione”.
Lo scorso marzo, in Italia, invitata all’Inventing for life-Health Summit, ha illustrato il suo impegno per la salute e l’istruzione delle donne del suo paese. Prima donna africana a essere eletta capo di stato, Ellen Johnson Sirleaf aveva in effetti suscitato grandi speranze nelle donne liberiane. Ma, anche sotto questo profilo, le aspettative sono state deluse. Aveva avuto a disposizione 12 anni, ma soltanto tre giorni prima di cedere la carica a Weah si è “ricordata” che in Liberia circa metà delle donne subiscono mutilazioni genitali femminili e ha firmato un ordine esecutivo per proibirle alle minori di 18 anni.
Se queste sono le performance di un presidente che ha meritato un Nobel per la pace e un premio Mo Ibrahim, si può immaginare quali siano quelle di leader che neanche cercano una parvenza di rispettabilità e si capisce come mai il Mo Ibrahim, il premio più cospicuo al mondo con un assegno di 5 milioni di dollari e un vitalizio di 200.000 dollari l’anno, sia stato assegnato solo sei volte da quando è stato istituito nel 2007.