Come mostra il ruolo della Chiesa nella difesa degli indiani d’America, è solo un mito che sia stato l’Illuminismo a difendere i “diritti umani” di tutti
Matteo Salonia
Uno dei tanti miti sul cosiddetto Illuminismo (e soprattutto sull’Illuminismo di stampo francese e anti-cattolico) è quello secondo cui a questo movimento noi dovremmo l’invenzione del concetto di diritti umani. E in effetti, leggendo storici come Lynn Hunt, si ha l’impressione che prima del Settecento ci fosse il buio più totale. Poi, come d’incanto, Voltaire e Beccaria avrebbero avuto una sorta di intuizione, difendendo le vittime di violenze e ingiustizie in quanto esseri umani, e creando per la prima volta un linguaggio universale e cosmopolita dei diritti.
Questa ricostruzione è errata per almeno due ragioni.
La prima è che il linguaggio dei diritti usato dall’Illuminismo ha una storia che affonda le proprie radici nel Medio Evo. I concetti e le istituzioni che rendono una cultura dei diritti anche solo pensabile risalgono all’epoca medievale, grazie al modello offerto dalla Legge Canonica e al costante discernimento e armonizzazione della legge civile nelle università. E del resto fece bene il grande storico del diritto medievale, Brian Tierney, a descrivere la società europea del Medio Evo come continuamente animata da dibattiti sui diritti.
Ma vi è una seconda ragione per cui la ricostruzione storica che pone la nascita dei diritti umani nel Settecento risulta semplicistica. Questa è che la prima, grande campagna internazionale per i diritti umani, accompagnata dalla prima definizione sistematica di una filosofia del diritto internazionale, ebbe luogo cinquecento anni fa, nell’Impero spagnolo. E su questa splendida pagina di storia della Chiesa voglio soffermarmi brevemente.
Ogni impero, come si sa, commette soprusi e porta coercizioni e violenze di popoli verso altri popoli. Ma l’incontro tra gli spagnoli e le popolazioni indigene delle Americhe causò pure il primo episodio di seria e profonda auto-critica. Fin dall’inizio del Cinquecento, quando i primi missionari dell’Ordine domenicano giunsero sull’isola di Hispaniola, molti di loro attaccarono il sistema coloniale spagnolo, le sue violenze, crudeltà, e ipocrisie.
Spesso, questi attacchi furono spettacolari, come nel caso di padre Antonio de Montesinos, che durante la Messa di Natale del 1511 in Hispaniola, alla presenza delle autorità politiche e dell’élite coloniale dell’isola (incluso il figlio di Colombo), usò la predica per scagliarsi contro i soprusi dei conquistadores. Montesinos non si limitò ad elencare le violenze e i peccati dovuti all’avidità degli uomini seduti in prima fila, ma si spinse fino a negare loro i sacramenti, uscendo dalla chiesa immediatamente dopo la predica, e dunque rifiutandosi di continuare la celebrazione dell’Eucaristia.
Questo fu l’inizio di una lunga battaglia che vide, da un lato, una coalizione di sacerdoti e intellettuali cattolici, e, dall’altro, i coloni spagnoli e i loro rappresentanti a corte. La battaglia fu legale e teologica, ma anche e soprattutto politica, con libri, pamphlet e dibattiti pubblici e privati. Nella vasta coalizione cattolica che difese le popolazioni indigene delle Americhe, si possono distinguere due gruppi: missionari che vivevano nelle colonie, o che comunque avevano avuto esperienze dirette della conquista; ed intellettuali che non erano mai stati in America ma difendevano i diritti degli “indiani” da posizioni influenti.
Al primo gruppo appartiene, ad esempio, Bartolomé de Las Casas, l’instancabile missionario domenicano che per quasi cinquant’anni fece avanti e indietro tra le due coste dell’Atlantico, predicando il Vangelo, organizzando comunità di popolazioni indigene al riparo dai soprusi dei coloni, scrivendo libri in cui raccontava al resto del mondo la fondamentale ingiustizia della presenza spagnola nel Nuovo Mondo, e addirittura idealizzando la bontà e innocenza delle popolazioni amerindie.
Al secondo gruppo appartiene, invece, il grande filosofo Francisco de Vitoria, professore di Teologia presso l’importante Università di Salamanca. Se gli scritti esplosivi e la dialettica scoppiettante di Las Casas diffusero in tutta Europa l’impressione che nell’Impero spagnolo si commettessero crimini inauditi, le riflessioni più posate ma anche più sistematiche di Vitoria coincisero con la fondazione del diritto internazionale, una legge universale delle nazioni, incluse quelle non cristiane.
Dunque, come recentemente sottolineato dallo studioso gesuita Robert John Arauco, le lezioni universitarie tenute da Vitoria a Salamanca rappresentano il momento storico in cui, due secoli prima dell’Illuminismo, carità cristiana e filosofia scolastica medievale portarono ad un’auto-critica pubblica ed infine alla dichiarazione di diritti umani. Cioè di diritti che si riconoscono a tutti gli uomini (popolazioni amerindie sconfitte incluse) in quanto tali.
È proprio agli scritti e alle idee proposte da Las Casas e Vitoria che si devono interventi sia della Corona spagnola che del Papa. Già il re Ferdinando di Aragona, nel 1512, approvava le Leggi di Burgos, che regolavano il trattamento degli “indiani” d’America cercando di limitarne le morti e le sofferenze. Il suo successore, Carlo V, nel 1542 si spingeva oltre, quando con le Leggi Nuove elencava una serie di diritti dei suoi sudditi nativi delle Americhe e addirittura metteva fuori legge l’encomienda, l’odiata istituzione attraverso cui interi gruppi di nativi americani (seppur formalmente liberi) venivano distribuiti ai coloni più potenti per essere usati come manodopera nei campi e nelle miniere.
La presa di posizione di Carlo V era dovuta sia alla campagna politica martellante di padre Las Casas (nel frattempo divenuto vescovo di Chiapas) sia alle pressioni della Santa Sede, che con la bolla Sublimis Deus firmata da papa Paolo III nel 1537 ribadiva che le popolazioni indigene delle Americhe erano dotate di ragione, e dunque esseri umani creati da Dio e portatori di diritti alla libertà e alla proprietà. Il Papa scomunicava i coloni che si macchiavano di crimini contro gli “indiani”, definendoli agenti del demonio, e pretendeva che gli spagnoli restituissero le proprietà prese con la forza agli “indiani” e cessassero ogni forma di violenza contro di loro.
Se da un lato è vero che la campagna politica della Chiesa, nelle colonie e a corte, non fermò completamente le ingiustizie e lo sfruttamento delle popolazioni indigene, d’altra parte bisognerebbe riconoscere la portata storica di questo movimento: un impero che per la prima volta critica se stesso non in modo estemporaneo, ma in dibattiti pubblici, lezioni universitarie, e protratti litigi a mezzo stampa.
Un linguaggio dei diritti si sviluppò lentamente, a partire da istituzioni medievali come le università, dove si armonizzavano fonti di giurisprudenza locali o in contraddizione fra loro. E tale linguaggio divenne poi universale, fino a far emergere l’idea di diritti umani, in un contesto profondamente cristiano.
Se proprio si vuole insistere con un modello di storia fatto di momenti rivoluzionari e di personaggi simbolo, allora a Paolo III e al manipolo di frati cattolici spagnoli che durante il Cinquecento attaccarono il loro stesso impero e proposero una concezione cosmopolita del diritto internazionale andrebbe riconosciuto un ruolo quantomeno pari a quello comunemente assegnato ai philosophes settecenteschi.
_____________
Matteo Salonia è uno storico e docente universitario presso la University of Nottingham Ningbo