L’Arno.it 18 Febbraio 2025
Andrea Bartelloni
La Toscana è la prima regione italiana a dotarsi di una legge per regolamentare il suicidio assistito, la pratica con cui, in presenza di determinate condizioni, ci si può autosomministrare un farmaco per morire. Una sentenza della Corte costituzionale nel 2019 dichiarò illegittimo il divieto fino ad allora in vigore, ma nonostante i ripetuti inviti della Consulta il Parlamento non ha ancora approvato una legge ad hoc. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Aldo Ciappi, referente dell’Associazione Family Day–Toscana.
La legge toscana non sembra cambiare molto le cose: in Italia non c’è già il suicidio assistito?
“La Corte costituzionale, con la sentenza citata, ha individuato un’area di non punibilità nei confronti di chi aiuta una persona a suicidarsi in presenza di tutte e quattro codeste condizioni che devono essere tassativamente accertate da una struttura del S.S.N. tramite un comitato etico a ciò deputato. Pertanto, quanto mi chiede è già possibile ed il primo caso, come è noto, si è avuto nella regione Marche nel giugno 2022. Tuttavia, la Corte, con la stessa sentenza, ha anche detto che non esiste nel nostro ordinamento alcun diritto soggettivo al suicidio e, per questo, ha ritenuto pienamente legittima la norma dell’art. 580 del codice penale che punisce l’istigazione e l’aiuto suicidio a tutela delle persone più fragili fisicamente e/o psichicamente”.
Cosa cambia ora in Toscana?
“Con le legge regionale approvata l’11 febbraio scorso (Giornata Mondiale del Malato) la Toscana si è dotata di uno strumento burocratico per stabilire rigide modalità e tempi di tale procedura che dovrà esaurirsi entro 47 giorni dalla presentazione della domanda con l’iniezione letale del paziente all’interno delle strutture sanitaria della nostra regione. Lo scopo di questa legge è essenzialmente politico, ossia quello di pressare il Parlamento per far approvare – come auspicato dalla stessa Corte costituzionale – una legge nazionale in una materia sulla quale, tuttavia, per la sua particolare delicatezza, prima di un intervento legislativo, è assolutamente opportuno un ampio e meditato dibattito nelle sedi istituzionali”.
Dov’è il rischio?
“Una grandissima confusione e una disparità di trattamento tra regione e regione. Solo una legge dello Stato può regolamentare una materia come quella del fine-vita, che eccede l’ambito della “sanità” in senso stretto (in cui vi è una competenza concorrente dello Stato e delle Regioni) non potendosi ammettere una normativa differenziata e a macchia di leopardo nel nostro paese riguardo alle modalità con cui vengano (o non vengano) recepite le indicazioni della Corte costituzionale”.
Le cure palliative possono ridurre questa richiesta?
“L’accesso alle cure palliative è un diritto soggettivo stabilito dalla L. n. 38/2010 rimasta pressoché disapplicata in mancanza di risorse finanziarie ad esse devolute. Laddove esistono strutture (gli “hospice”) e servizi adeguati (si stima all’incirca un 15-20% del dell’intero fabbisogno sul territorio) la domanda di suicidio assistito è statisticamente irrilevante; le persone gravemente disabili o malate più che il suicidio chiedono, in realtà, assistenza e cura; chiedono di avere qualcuno accanto che si occupi di loro e faccia sentire loro vicinanza ed affetto. Domande a cui siamo drammaticamente impreparati”.
E l’esperienza dei paesi che hanno adottato leggi che agevolano il suicidio assistito
o l’eutanasia?
“Come dicevo, è necessaria una profonda riflessione a tutti i livelli (politico, sociale e culturale) prima di mettere mano ad una legge “purchessia”, essendovi il serissimo rischio di aprire a derive eutanasiche che vanno ben oltre il circoscritto raggio di azione individuato dalla suddetta sentenza. L’esperienza di altri paesi che da anni hanno aperto la strada in quella direzione (si veda, per esempio, Belgio, Canada, Olanda, in cui anche i bambini posso venire “suicidati”) ce lo dimostra ampiamente. Si assiste ad un progressivo fenomeno di slittamento della coscienza sociale (definito dai sociologi “slippery slope” – china scivolosa) già ampiamente sperimentato quando viene preso, come riferimento culturale e poi giuridico di discernimento, il criterio di “vita non degna” o “non più degna di essere vissuta” per decidere di conseguenza. Un criterio, questo, che – è bene ricordarlo – non è appannaggio esclusivo del nazional-socialismo…”.