Sulla liturgia confrontarsi senza alcun pregiudizio

liturgiaL’Osservatore Romano, 18 novembre 2007

A sessant’anni dall’enciclica di Pio XII “Mediator Dei”

di Nicola Bux

È in atto una battaglia sulla liturgia:  diversamente da quella che agli inizi del secolo scorso diede origine al movimento liturgico, la materia del contendere non è appena il rito romano antico.

Tuttavia il Santo Padre ci rassicura:  la lotta per la corretta interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia è necessaria in ogni generazione. È grande la posta in gioco:  “giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa” (Lettera apostolica circa il Motu proprio Summorum Pontificum, 7 luglio 2007), anche per portare a compimento la riforma liturgica. Lasceremo cadere l’invito, se amiamo veramente la Chiesa e la sacra liturgia?

Ora, se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi “del valore e della santità del nuovo rito”, tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che “nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura.

Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

Le parole di Benedetto XVI richiamano queste altre:  “Se da una parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza e lo studio della liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall’altra notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all’intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso principi che, in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica”.

Chi le ha scritte è Pio XII, nell’Introduzione dell’enciclica Mediator Dei. La logica è la medesima:  la tradizione è necessaria e l’innovazione ineluttabile, ed entrambe sono nella natura del corpo ecclesiale come del corpo umano.

Non si oppongono ma sono complementari e interdipendenti. Pertanto non ha senso essere ad oltranza innovatori o tradizionalisti. Semmai bisogna incontrarsi e confrontarsi senza pregiudizio e con grande carità, ancora sotto la guida della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e con l’aiuto dell’ordine di san Benedetto, entrambi menzionati nell’enciclica.

Cominciamo proprio dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal servo di Dio Pio XII:  il documento dottrinale più importante sulla liturgia prima del concilio Vaticano II, senza del quale la costituzione sulla sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre 1963, non si comprende appieno.

Ne è la fonte principale quanto ad impostazione classica e a contenuti dottrinali e un termine di paragone con le istanze antiche e nuove della liturgia. Leggendo l’enciclica a sessant’anni dalla sua promulgazione, si viene aiutati a superare il pregiudizio verso la Chiesa preconciliare ed anche verso un Papa, definito dal suo successore Giovanni XXIII:  Doctor optimus, Ecclesiae sanctae lumen, divinae legis ad monitor nella prima enciclica Ad Petri Cathedram. Sono i tre titoli che un’antifona liturgica del Messale romano conferisce ai dottori della Chiesa.

Pio XII non si limitò ad enunciare la dottrina mediante l’enciclica, ma fece seguire le riforme:  il permesso di usare le lingue locali accanto al latino per alcune parti dei riti liturgici in quei paesi europei e latino-americani dove l’unità cattolica non era a rischio; il permesso a determinate condizioni di celebrare la messa vespertina (1957), riscoprendo il giorno liturgico; la revisione delle norme sul digiuno eucaristico (1953) e le indicazioni per il rinnovamento della musica sacra sulle orme di san Pio X.

È noto che già nel 1946 “Pio XII aveva istituito una commissione per la riforma generale della liturgia, che avrebbe iniziato i propri lavori nel 1948 e che, nel 1959, sarebbe confluita nella commissione preparatoria del concilio per la liturgia.

Non è dunque fuori luogo affermare che la costituzione sulla liturgia del Vaticano II aveva cominciato ad essere predisposta fin dal 1948, prendendo spunto dall’enciclica” (Andrea Tornelli, Pio XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro, Milano, 2007, pagina 510). L’approfondito lavoro preparatorio eviterà al progetto di costituzione conciliare, a differenza di tutti gli altri, la bocciatura. Tutto questo prende avvio dall’enciclica Mediator Dei, e farebbero attribuire al grande pontefice anche il titolo di divini cultus instaurator.

Culmine e fonte

Il culto o la liturgia avviene soltanto per, con e in Gesù Cristo:  diversamente non arriva a Dio Padre per adorarlo e nemmeno a noi per santificarci.

Quindi non la facciamo noi e ciò spiega l’esordio dell’enciclica:  “”Il Mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Timoteo, 2, 5), il grande pontefice che penetrò i cieli, Gesù Figlio di Dio (cfr Ebrei, 4, 14) assumendosi l’opera di misericordia con la quale arricchì il genere umano di doni soprannaturali (…) attese a procurare la salute delle anime con il continuo esercizio della preghiera e del sacrificio, finché, sulla Croce, si offrì vittima immacolata a Dio per mondare la nostra coscienza dalle opere morte onde servire al Dio vivo (cfr ivi, 9, 14) (…). Il Divin Redentore volle, poi, che la vita sacerdotale da Lui iniziata nel suo Corpo mortale (…) non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo Mistico che è la Chiesa; e perciò offrì un sacerdozio visibile per offrire dovunque la oblazione monda (cfr Malachia, 1, 11), affinché tutti gli uomini, dall’Oriente e dall’Occidente, liberati dal peccato, per dovere di coscienza servissero spontaneamente e volentieri a Dio. La Chiesa dunque, fedele al mandato ricevuto dal suo Fondatore, continua l’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia”.

Una simile introduzione fa capire che nessuno possa parlare di liturgia senza partire da Cristo in quanto Mediator Dei e senza intenderla come manifestazione somma e continua di tale mediazione. Egli è il “luogo” dell’incontro tra Dio e l’uomo e fa della liturgia il culmine della vita della Chiesa e la fonte di ogni grazia. La liturgia culmen et fons, l’endiadi ormai celebre della Sacrosanctum Concilium che ne sintetizza il concetto, è già nella introduzione della Mediator Dei.

La prima parte dell’enciclica s’intitola “Natura, origine e progresso della liturgia”. L’uomo deve convertirsi a Dio, orientarsi a lui:  questo si manifesta rendendo “il debito culto all’unico e vero Dio” (I, 1):  nell’Antico Testamento è Dio stesso a stabilire le norme del culto; nel Nuovo Testamento è la rivelazione che Gesù stesso compie con i fatti della sua vita, morte e risurrezione a diventar offerta o culto gradito a Dio, finché “entrando, poi, nella beatitudine celeste vuole che il culto da lui istituito e prestato durante la sua vita terrena continui ininterrottamente” (I, 1). L’opera della redenzione di Cristo viene in modo analogo riproposta nella costituzione Sacrosanctum Concilium (cfr 5-6).

Alla volontà del Signore l’enciclica fa risalire le norme e istituzioni liturgiche:  esse hanno in lui l’autore e perciò vanno trattate con obbedienza gioiosa. L’altare sul quale si presenta il sacrificio eucaristico è elevato verso l’alto, è un’ara alta e non una tavola, a significare che la liturgia la riceviamo dall’alto e non la confezioniamo dal basso.

C’è un secondo elemento essenziale della liturgia cattolica:  “In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la Chiesa è presente il suo Divin Fondatore:  Cristo è presente nell’augusto Sacrificio dell’altare sia nella persona del suo ministro, sia massimamente sotto le specie eucaristiche; è presente nei sacramenti con la virtù che in essi trasfonde perché siano strumenti efficaci di santità; è presente infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta scritto:  “Dove sono due o tre adunati in nome mio, ivi sono in mezzo ad essi” (Matteo, 18, 20)” (I, 1).

Il versetto viene ripreso nel noto paragrafo della costituzione liturgica sulla presenza di Cristo (n 7) con la sola aggiunta “È presente nella sua parola, giacché e Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”; in precedenza indica Cristo quale “Mediatore tra Dio e gli uomini” e “pienezza del culto divino” (n 5).

L’enciclica ha potuto così definire la liturgia “il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra”. La liturgia serve ad elevare sempre più l’anima verso Dio, a con-sacrarla:  “così il sacerdozio di Gesù Cristo è sempre in atto nella successione dei tempi, non essendo altro la liturgia che l’esercizio di questo sacerdozio” (I, 1).

Il sacerdote, vescovo e presbitero, sa che vi partecipa intimamente lui stesso e che – sacerdozio indica il sacro – deve aiutare l’uomo a salire sempre di più verso Dio Padre, fonte della santità; ne sono strumento efficace i riti del culto sacramentale, azioni liturgiche reiterate secondo un ordine, come un esercizio ginnico per lo spirito.

È la ragione per cui “tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. È esterno perché lo richiede la natura dell’uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che “conoscendolo per mezzo delle cose visibili, siamo attratti all’amore delle cose invisibili” (Messale romano, prefazio del Natale)” (I, 2).

Il culto non riguarda solo il singolo ma anche l’umanità; in esso si manifesta in special modo l’unità del Corpo mistico che è la Chiesa. “Ma l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno; è necessario difatti vivere sempre nel Cristo, tutto a Lui dedicarsi affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La sacra liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti (…) Diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto (…) il Divino Maestro stima indegni del sacro tempio ed espelle coloro i quali credono di onorare Dio soltanto col suono di ben costrutte parole e con pose teatrali, e son persuasi di poter benissimo provvedere alla loro salvezza eterna senza sradicare dall’anima i vizi inveterati (cfr Marco, 7, 6; Isaia, 29, 13)” (I, 2).

L’enciclica, secondo la dottrina classica dell’ex opere operato e dell’ex opere operantis Ecclesiae, ricorda “che il culto reso a Dio dalla Chiesa in unione col suo Capo divino ha la massima efficacia di santificazione” nella messa e nei sacramenti. Mette in guardia così dalle teorie sulla “pietà oggettiva” che portano a trascurare la “pietà soggettiva” o personale.

Tali teorie rivivono oggi nell’idea che la “partecipazione comunitaria” alla liturgia sia esclusiva. Invece, l’efficacia oggettiva della liturgia esige le buone disposizioni nell’anima del fedele come del prete, non solo durante ma anche in preparazione ad essa.

L’enciclica perciò richiama, in specie dinanzi all’eucaristia, il paolino “Ciascuno esamini se stesso”. Così, viene ricordato l’atteggiamento giusto per partecipare alla liturgia:  “La genuina pietà, che l’Angelico chiama “‘devozione” e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto” (cfr san Tommaso, Summa Theol. II.a IIae, q. 82 a. 1).

Per questo bisogna “sottomettere i nostri sensi e le loro facoltà alla ragione illuminata dalla fede”; per farlo “è necessario tener presente l’insegnamento:  “Voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (cfr 1 Corinzi, 3, 23)”. La vera pietà o devozione, necessaria alla liturgia, discende dall’appartenenza a Cristo e mediante lui a Dio. La coscienza di appartenere al Signore fa sì che il culto operi incessantemente “finché il Cristo non sia formato in noi (cfr Galati, 4, 19)” (I, 2).

Sulla corrispondenza tra la lex orandi e quella della fede deve vigilare la gerarchia ecclesiastica, perché il culto che la Chiesa rende a Dio è “una continua professione di fede cattolica e un esercizio della speranza e della carità” (I, 2).

Manifestazione della Chiesa

Pio XII, riallacciandosi alla costituzione Divini cultus del suo predecessore Pio XI, osserva che la gerarchia ecclesiastica “non dubitò, salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti, di mutare ciò che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della augusta Trinità, all’istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano” (I, 4).

La liturgia infatti è composta di elementi divini e umani:  “Di qui viene che talvolta sono richiamate nell’uso e rinnovate pie istituzioni obliterate nel tempo” (I, 4). È il criterio che guiderà il Papa nel restauro dell’Ordo della Settimana Santa, rimettendo in uso le tradizioni antiche e che sarà recepito dalla costituzione conciliare (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 50). Papa Paolo VI riusciva ad applicarlo ancora nell’edizione del messale romano del 1965, quando preservava la messa antica, alleggerendola da duplicati tardivi. Esso ritorna in auge col Motu proprio di Benedetto XVI.

Quel criterio, secondo la Mediator Dei, presiede all’evoluzione dei riti, ma senza cadere nell’archeologismo:  “La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore (…) Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo” (I, 5).

La riforma liturgica – secondo Pio XII – risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che “per tutelare la santità del culto contro gli abusi” esiste la Congregazione dei Riti. La liturgia è manifestazione della Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla costituzione liturgica (cfr n. 21).

Ma Pio XII ricorda anche che allo sviluppo della liturgia ha contribuito notevolmente la pietà del popolo, cioè la partecipazione “agli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù”. Quanti hanno scritto che prima del concilio la liturgia non favoriva la partecipazione e che col concilio si è restituita la liturgia al popolo!

Invece, nella seconda parte l’enciclica tocca il culto eucaristico e al suo interno quello della partecipazione dei fedeli “non con una assistenza passiva, negligente e distratta ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo sacerdote, come dice l’Apostolo:  “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (Filippesi, 2, 5), offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui” (II, 2).

Si può pensare che la partecipazione alla liturgia auspicata dal concilio dovrebbe prescindere da ciò? Cosa sarebbe se non esigesse “di riprodurre in sé, per quanto è in potere dell’uomo, lo stesso stato d’animo che aveva il Divin redentore quando faceva il sacrificio di sé:  l’umile sottomissione dello spirito, cioè l’adorazione, l’onore, la lode, il ringraziamento alla somma Maestà di Dio (…) Esige in una parola, la nostra mistica morte in Croce col Cristo” (II, 2)? Il concilio ha mutato qualcosa in proposito?

Il culmine della partecipazione dei fedeli – secondo Pio XII – è offrire il sacrificio eucaristico insieme al sacerdote, in quanto devono offrire se stessi come vittime, e cita in tal senso la lettera ai Romani:  “Vi scongiuro, dunque, o fratelli…di offrire i vostri corpi come vittima viva, santa, a Dio gradevole, come vostro culto razionale” (12, 1).

A questo punto, ricorda l’enciclica, si può dire dei fedeli quanto dice il Canone romano:  “ti è conosciuta la fede e nota la devozione” (II, 2). Anche san Leone Magno nel V secolo, si domandava:  “Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull’altare del cuore i sacrifici immacolati del nostro culto?” (Discorsi, 4, 2).

Così la liturgia aiuta il fedele ad attuare quanto dice l’Apostolo:  “Sono confitto con Cristo in croce, e vivo non già più io, ma è Cristo che vive in me” (Galati, 2, 19-20). Poteva il concilio sul tema della partecipazione intendere altro? L’enciclica tratta pure dei mezzi per promuoverla:  dalle risposte al sacerdote ai canti.

Tuttavia il prendere parte esteriore non vale quanto la coscienza di essere parte del Corpo di Cristo, che è il senso vero della partecipazione alla liturgia. La partecipazione dei fedeli mira “a che la loro vita si arricchisca e cresca ogni giorno più la gloria del Padre celeste” (II, 2). Allora essa non vuol dire innanzitutto che tutti possano “fare qualcosa” ma che vi sono prima altre modalità più profonde, quali il silenzio, la riverenza al mistero, l’attenzione ai segni.

La partecipazione è inscindibile dalla pietà perché il culto cristiano deve contribuire alla santificazione dei fedeli; i riti della liturgia hanno la funzione mistagogica di realizzare l’unione dei fedeli con Dio, la loro “divinizzazione”. Per questo, con grande intuito pastorale, il Papa mira a renderli più intelligibili:  in che senso? Assicurando la partecipazione “agevole e fruttuosa”, che culmini nella comunione sacramentale e mistica col Signore.

Pio XII interverrà ancora (1957) per precisare il dovere di una partecipazione attiva e cosciente dei fedeli. La natura della liturgia richiede la partecipazione dei fedeli. Su tale tema della Mediator Dei farà quasi da contrappunto la Sacrosanctum Concilium (in specie n. 14; cfr anche n. 11.19.21.26-31.48.50.114.124), declinandolo nel primato della parola di Dio nella liturgia, nell’uso della lingua locale nei riti affiancando il latino, nell’adattamento legittimo per favorire i fedeli provenienti da culture diverse, salva la sostanziale unità del rito romano.

Non tratteremo di quanto dice l’enciclica della comunione eucaristica, se non per sottolineare l’importanza della preparazione ad essa e del ringraziamento, in quanto “per mezzo del sacramento dell’Eucaristia, Cristo dimora in noi, e noi dimoriamo in Cristo; e come Cristo rimanendo in noi vive ed opera, così è necessario che noi rimanendo in Cristo, per Lui viviamo e operiamo” (II, 3).

Così comincia l’adorazione di Cristo nei nostri cuori:  in essa la partecipazione dei fedeli raggiunge il suo culmine mentre la stessa liturgia manifesta il suo fine (cfr II, 4).

La propositio numero 6 del Sinodo sull’Eucaristia del 2005, riconosce che l’adorazione “scaturisce dall’azione eucaristica – che in se stessa è il più grande atto d’adorazione della Chiesa, che abilita i fedeli a partecipare pienamente, consapevolmente, attivamente e fruttuosamente al sacrificio di Cristo secondo il desiderio del Concilio Vaticano II – e ad essa riconduce”.

Il collegamento tra celebrazione ed adorazione è stato rilanciato da Papa Benedetto XVI nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005:  “Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e l’adorazione del SS.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro:  il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per esser contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa.

Nell’esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto:  “nemo autem illum carnem manducat, nisi prius adoraverit…peccemus non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarrationes in Psalmos, 98, 9 CCL XXXIX 1385).

Di fatto, non è che nell’Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l’incontro e l’unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell’adorazione. Ricevere l’Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una sola cosa con Lui (…) E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura anche la missione sociale che nell’Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri”.

Questa lunga citazione non è una digressione, in quanto contiene la frase di sant’Agostino che si trova pure nella Mediator Dei all’interno del paragrafo sull’adorazione eucaristica (II, 4), segno che non c’è discontinuità tra il magistero di Pio XII e quello della Chiesa odierna.

L’adorazione richiama la necessità delle disposizioni per ricevere Cristo con la dovuta riverenza, e in particolare che l’Eucaristia è ad un tempo sacrificio e sacramento. Anche per questo la Chiesa sin dall’antichità non ha mai considerato conflittuale la presenza della custodia eucaristica sull’altare della celebrazione.

La centralità di Cristo

L’enciclica tratta nella terza parte dell’ufficio divino e dell’anno liturgico, movendo dal principio che l’ideale della vita cristiana è nell’unione intima con Dio la quale può avvenire solo “”per il Signore nostro Gesù Cristo”, che, mediatore tra noi e Dio, mostra al Padre celeste le sue stimmate gloriose, “sempre vivente per intercedere per noi” (Ebrei, 7, 25)” (III, 1).

Si raccomanda ai fedeli la recita dei salmi e la partecipazione attiva alla recita del vespro domenicale e festivo. Quanto all’anno liturgico si ricorda che ha al centro la “persona di Gesù Cristo (…) il nostro salvatore nei misteri di umiliazione, di redenzione e di trionfo. Rievocando questi misteri di Gesù Cristo la sacra liturgia mira a farvi partecipare tutti i credenti in modo che il Divin capo del Corpo mistico viva nella pienezza della sua santità nelle singole membra” (III, 2).

In tale contesto il Papa non manca di stigmatizzare “quanto siano lontani dal vero e genuino concetto di liturgia quegli scrittori moderni i quali, ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo “pneumatico e glorificato”; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi detronizzato, con l’occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena.

Alcuni, perciò, arrivano a rimuovere dalle chiese le immagini del Divin redentore che soffre in Croce. Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale. “Credi nel Cristo nato nella carne – così sant’Agostino – e arriverai al Cristo nato da Dio, presso Dio” (Enarrationes in Psalmos, 123, n. 2). La sacra Liturgia, poi, si propone tutto il Cristo, nei vari aspetti della sua vita” (III, 2), come ancora fa la liturgia orientale. È il perdurare dei misteri di Cristo nel mistero della Chiesa, con la Vergine e i santi (cfr III, 3).

La quarta parte dell’enciclica è dedicata alle direttive pastorali:  dalla raccomandazione delle forme di pietà quali l’esame di coscienza, alle quali “non può essere estranea l’ispirazione e l’azione dello Spirito Santo” (IV, 1), a quella di evitare “che le preghiere liturgiche si riducano a un vano ritualismo”. Se ne parla ancora, ma siamo fuori tempo massimo, perché è il secolarismo ad insidiare oggi il culto cristiano. Il vero fine da raggiungere resta quello di “essere santi e immacolati al suo cospetto” (Efesini, 1, 4).

Così si promuoverà lo spirito e l’apostolato liturgico affinché, come aveva detto Pio X nel Motu proprio Tra le sollecitudini, nella liturgia risplendano “tre ornamenti”:  “la santità, cioè, che aborre ogni influenza profana; la nobiltà delle immagini e delle forme alla quale serve ogni arte genuina e migliore; l’universalità, infine, la quale, conservando i legittimi costumi e le legittime consuetudini regionali, esprime la cattolica unità della Chiesa” (IV, 2). E non manca di deplorare quanti moltiplicano senza giusto motivo le immagini, espongono reliquie non autentiche e altri abusi.

Sulle orme dei suoi predecessori Pio X e Pio XI, Pio XII esorta a promuovere la musica sacra e il canto gregoriano anche nell’uso del popolo, le scholae cantorum, le risposte alle preghiere in latino e in volgare, senza escludere la musica e il canto moderno, purché conveniente alla santità del luogo e all’azione sacra e senza ricercare effetti straordinari e insoliti, infine il canto religioso popolare.

In merito all’arte sacra raccomanda di evitare “con saggio equilibrio l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra, e tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana, piuttosto che del giudizio e del gusto personale degli artisti” e come “assolutamente necessario dar libero campo anche all’arte moderna, se serve, con la dovuta riverenza e il dovuto onore, ai sacri edifici e ai riti sacri; in modo che anch’essa possa unire la sua voce al mirabile cantico di gloria che i geni hanno cantato nei secoli passati alla fede cattolica” (IV, 2).

Questa raccomandazione, particolarmente urgente nel momento in cui ci si accingeva a restaurare o riedificare gli edifici di culto distrutti dalla guerra, fu raccolta poi da Paolo VI e resta attuale.

A essa Pio XII univa la preoccupazione per la formazione del clero e dei laici che servivano all’altare, perciò rinviava al tesoro contenuto nella sacra liturgia atta a formare il pensiero e l’azione dei cristiani nel mondo, senza separarla dalla spiritualità. Da ultimo egli ricorda che la liturgia sulla terra è preparazione e auspicio di quella celeste, dove “in compagnia con la eccelsa Madre di Dio e dolcissima Madre nostra, canteremo:  “A Colui che siede sul trono e all’Agnello, benedizione e onore e potenza nei secoli dei secoli” (Apocalisse, 5, 13)” (IV, 2).

Nella sacra liturgia non si misura né il tempo, né lo splendore, né la cera, né l’incenso, perché nulla è più importante dell’opus Dei che essa stessa è, e che ne fa l’anticipo del paradiso. Itinerario dal sensibile allo spirituale, orienta alla Gerusalemme di lassù, dove Cristo è il Signore e attende noi pellegrinanti verso il cielo. La liturgia terrena si svolge in un tempio manufatto e avrà fine; mentre nell’eterna Gerusalemme “il suo tempio è il Signore Dio onnipotente e l’Agnello” (Apocalisse, 21, 22).

La liturgia costituisce un appello permanente a entrare nella città celeste. Per i padri della Chiesa la liturgia è il mistero divino affidato agli uomini, perciò va trattata con le mani velate, come quelle degli angeli bizantini. “E chi non farà questo – ammonisce san Francesco – sappia che deve rendere ragione al Signore nostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio” (Epistola al clero, 14).

Nulla veramente cambia della dottrina tradizionale

Annotavamo all’inizio, che la causa remota dell’opposizione al rito romano antico è altra. In non pochi interventi contrari al Motu proprio si avanza la tesi di non potersi riconoscere nella Chiesa espressa dal messale di san Pio V, malgrado abbia conosciuto ancora una riedizione col beato Giovanni XXIII e con esso si sia celebrato durante il concilio ecumenico Vaticano II; ora, come combinarla con l’affermazione fatta da Paolo VI durante l’assise:  “nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti”?

Poiché nella sacra liturgia si manifesta la Chiesa una e cattolica, santa ed apostolica che è la medesima in tutti i tempi, sembra che i suddetti interventi tradiscano un’idea di Chiesa differente da quella che il concilio ha definito nella costituzione dogmatica Lumen gentium e che sottostà alla Sacrosantum Concilium. Quest’ultima, come abbiamo mostrato, si deve alla preparazione condotta dall’opera riformatrice di Pio XII e ancor prima alla sua riflessione sulla Chiesa come corpo mistico di Cristo nell’enciclica Mystici corporis a sua volta recepita nella Lumen gentium.

La dottrina della Chiesa quale corpo unito a Cristo e quella del culto integrale, cioè dell’intero corpo di Cristo, capo e membra, sono inscindibili:  merito dell’enciclica Mediator Dei che su tale solida base ha avviato un equilibrata riforma della liturgia.

(A.C. Valdera)