Centro Studi Livatino 2 Settembre 2023
di Mauro Ronco
1. Nel ventennio ‘70-‘90 del secolo scorso la diffusione dell’eroina ebbe effetti devastanti sulla salute e sull’esistenza intera di ampie fasce del mondo giovanile. La società degli adulti, soprattutto, di coloro che avevano in mano le leve del potere politico, si trovò impreparata a fronteggiare il fenomeno.
Tra i giuristi prevalse la tendenza antiproibizionista, un po’ in ragione del primato della libertà del singolo – se ti droghi non fai male ad alcuno; quindi, non offendi il principio liberale che si è puniti soltanto a condizione che tu vìoli il diritto di un altro -; un po’ in ragione delle conseguenze criminogene della punizione su larga scala del traffico minuto, che era praticato soprattutto dai consumatori tossicodipendenti.
L’intensa propaganda antiproibizionista svolta dal gruppo di pressione radicale sotto la guida di Marco Pannella affascinò anche una parte cospicua del mondo politico; in particolare – ma non soltanto – quello appartenente allo schieramento di sinistra, in una fase in cui il Partito Comunista aveva iniziato la sua trasformazione da partito di classe a partito radicale di massa.
Le forze governative, forti anche dell’obbligo di penalizzazione statuito in sede internazionale, erano arroccate su uno stretto proibizionismo, che mirava illusoriamente a stroncare il fenomeno con l’innalzamento delle pene.
Il Decreto 9 ottobre 1990, n. 309, dopo dibattiti, spesso defatiganti, improntati per lo più all’ideologia antiproibizionista, raggiunse un punto di equilibrio non spregevole, prevedendo anzitutto che l’uso personale non fosse punibile. Introdusse poi una scala di fattispecie via via più severe: l’acquisto per fare uso personale dello stupefacente era sottoposto soltanto a sanzioni amministrative; poi vi era il traffico di lieve entità; poi la produzione e il traffico comune; poi la produzione e il traffico in quantitativi ingenti o svolto con modalità insidiose o particolarmente gravi; infine, l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.
Gli articoli da 89 a 96 del Decreto prevedevano una serie di disposizioni particolari per i tossicodipendenti in ordine sia ai provvedimenti restrittivi nei confronti di chi avesse in corso un programma terapeutico, sia alla sospensione dell’esecuzione delle pene detentive nei loro confronti, sia all’estinzione del reato commesso, sia alla modalità di esecuzione della pena detentiva, sia al diritto di prestazioni socio-sanitarie per i tossicodipendenti detenuti.
Anche lo Stato si stava accorgendo della necessità di affiancare misure riabilitative alle misure punitive, aprendo la strada a uno sviluppo legislativo e giurisprudenziale che ancor oggi non si è stabilizzato: ed è questo un segno evidente della difficoltà di disegnare una regolamentazione equilibrata del fenomeno.
Il messaggio di resilienza e di speranza diretto a vietare l’uso delle droghe in vista di un bene vero, non per punire senza scopo, ma per risvegliare il desiderio di una vita vissuta nella libertà, nella solidarietà e nella gioia di donarsi gli uni gli altri, venne trascurato dalla gran parte, se non dalla totalità, della classe politica e degli esponenti della cultura sociologica, psicologica e giuridica.
Questo fu un deficit grave che caratterizzò l’affluent society dell’ultima parte del secolo scorso, credulona nelle mitologie edonistiche e disimpegnata verso i valori perenni.
2. Senza spregiare le normative giuridiche dirette alla riabilitazione, che presentano difficoltà applicative estremamente ardue, anche a cagione della scarsità delle risorse disponibili, è vero però che la preoccupazione seria e fattiva per il destino dei giovani dipendenti è stata fornita da associazioni o da fondazioni private, di conio sia religioso che laico. Tra queste si è distinta la Comunità Cenacolo, fondata nel 1983, su una collina di Saluzzo, da una umile suora – suor Elvira -, la quale, recuperando una vecchia villa diroccata concessale in uso dalla Città, si è dedicata per tutto il tratto seguente della vita, fino alla morte, avvenuta il 3 agosto 2023, a 86 anni, a riconquistare migliaia di giovani alla gioia della vita.
Rita Agnese Petrozzi, conosciuta da ultimo come Madre Elvira, nacque a Sora nel 1937 in una famiglia poverissima, che si trasferì dal frusinate in Alessandria nel periodo della guerra per seguire il lavoro del padre. Ella frequentò la scuola fino alla terza elementare. A casa doveva servire – la famiglia era numerosa –; non c’era tempo per studiare. Ma la povertà fu per la bambina una ricchezza: “[…] perché sin da bambina i sacrifici mi hanno insegnato a donarmi e a servire, a sorridere e a superare le difficoltà “senza fare il broncio”, senza poter dire “non ce la faccio” [1] . Suor Elvira soggiunge nella sua biografia: “[…] tutto quello che ho imparato nella vita l’ho imparato servendo” [2].
Alla famiglia proveniente dal sud venne assegnata una casa “che era quasi un pollaio, ed eravamo in tanti” [3]. Ma la povertà non era qualcosa di negativo per la bimba. Scoprì, ancora bambina, che Dio è Padre e di Lui imparò a fidarsi. La mamma era forte ed esigente. Il padre perdeva spesso il lavoro e non era sempre un aiuto in famiglia; spendeva il poco denaro disponibile bevendo.
Significativo è il seguente brano della sua biografia: “A mio padre Antonio piaceva il vino: ciò mi disturbava e mi faceva vergognare quando ero bambina, soprattutto quando mi veniva a prendere a scuola un po’ brillo dinanzi alle mie compagne che mi deridevano. Ricordo che veniva barcollando con la sua bicicletta e i bambini mi prendevano in giro dicendomi: “Guarda Rita, tuo padre è di nuovo ubriaco!”. Mi sentivo umiliata perché capivo che non era una cosa positiva dipendere dall’alcool, ma quelle situazioni mi hanno insegnato che cosa vuol dire il sacrificio, che cosa vuol dire l’umiltà. Adesso però rifletto e capisco che mio padre, comunque, nonostante le sue fragilità, veniva a prendermi a scuola: tanti papà invece non andavano e non vanno mai a prendere i figli” [4].
Dopo il servizio in famiglia, svolto sempre con gioia, Rita a diciannove anni si consacrò al servizio di Dio nella Congregazione delle suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, ritirandosi in un convento sito in Borgaro Torinese, prendendo il nome di religione di suor Elvira. Trascorse ventotto anni nello stesso convento, dedita alla preghiera e al servizio della comunità, svolgendo in particolare il compito di cuoca.
Ma una seconda chiamata di Dio la volle al servizio dei più poveri e abbandonati, che allora erano chiamati semplicemente ‘i drogati’. Nel luglio del 1983, quando l’eroina mieteva migliaia di vittime nel nostro Paese, ella ottenne dal Vescovo di Saluzzo le chiavi di una villa diroccata sita sulla collina sopra il paese, di fronte al Monviso. In quella casa nacque e crebbe il Cenacolo per i giovani che erano alla ricerca di un senso vero per la vita: “Li vedevo “senza pastore”, senza punti di riferimento, allo sbaraglio, con tanto benessere, i soldi in tasca, la macchina, la cultura, con tutto quello che si sarebbe potuto dare loro di materiale, eppure tristi e morti nel cuore. Nella preghiera, quando mi inginocchiavo dinanzi all’Eucaristia, mi pareva di percepire intensamente, quasi fisicamente, il loro grido di dolore, il loro bisogno di aiuto. Sentivo in me una spinta non mia che non potevo sopprimere, che cresceva sempre più. Non era un’idea, non sapevo neppure io cosa mi stava succedendo, ma sentivo di dover dare ai giovani qualcosa che Dio aveva messo in me per loro” [5].
Dalla villa diroccata in cui suor Elvira contava di ospitare al massimo cinquanta ragazzi, sono fiorite, in quarant’anni, settantadue case di fraternità della Comunità Cenacolo, in ventisei nazioni e quattro continenti, che hanno accolto migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze. Entrati i giovani nelle case del Cenacolo è avvenuto in loro un vero risveglio alla vita; non una semplice riabilitazione sociale, ma una nuova vita da spendere nell’amore e nel servizio dei più poveri tra i poveri, i drogati e coloro che sono dipendenti dall’alcool.
3. Suor Elvira è morta il 3 agosto 2023 a 86 anni. Gli ultimi anni li trascorse lottando contro una malattia degenerativa. I suoi funerali si sono tenuti giovedì 10 agosto nella Casa di Saluzzo con la partecipazione di tanti ex ragazzi e ragazze del Cenacolo che si sono messi in cammino da ogni parte del mondo per raggiungere la città piemontese e rendere omaggio alla fondatrice della comunità di cui hanno fatto parte.
Il Vescovo di Saluzzo Mons. Cristiano Bodo, ha scritto una lettera che la ricorda e di cui trascrivo un passo: “Coraggiosa e serena, prudente e intelligente, convinta che la Verità nulla deve temere, di se stessa suor Elvira aveva una percezione reale; conosceva bene la sua fragilità e questa, paradossalmente, è stata la sua forza, lo spazio della Grazia e dell’Amore che salva. E dell’Amore Madre Elvira si è fidata: ciecamente; all’Amore ha consegnato se stessa: totalmente; l’Amore, quello fatto di gesti concreti e non di belle parole, ha raggiunto il mondo contagiandolo di bene. Di Madre Elvira si può dire che è stata paziente e generosa, non ha fatto valere le sue doti, non ha mai agito per orgoglio, ha rispettato tutti; ha dimenticato i torti. Coloro che l’hanno incontrata hanno sperimentato concretamente la Carità. La Bontà di Dio era in lei; l’Amore di Dio era in lei; la Misericordia di Dio era in lei.
Plasmata dallo Spirito, si è offerta al Padre, in unione con Cristo, per condividerne l’obbedienza, l’umiltà, la fortezza. Con l’aiuto della Grazia ha intessuto un’autentica vita di fede, speranza, carità; ha irrorato le sue giornate di lavoro, di preghiera, di accoglienza, portando a compimento ciò per cui il Signore l’aveva creata. Rinnovata di giorno in giorno dalla sua stessa offerta e rivestita di bellezza, ora l’accoglie il Paradiso, dove contempla per sempre Colui che qui in terra ha amato e servito” [6].
4. Non ho conosciuto personalmente suor Elvira e ne sono assai addolorato. Verso la fine degli anni ’80 me ne avevano parlato con ammirazione varie persone. Anzitutto fu il Presidente all’epoca del Tribunale di Sorveglianza di Torino, dottor Pietro Fornace, uomo di forte fede, a dirmi un giorno che l’unica comunità, a sua conoscenza, in cui avveniva una vera trasformazione dei tossicodipendenti, era quella di suor Elvira. Egli era pertanto lieto quando poteva autorizzare l’affidamento in tale comunità dei tossicodipendenti che lo richiedevano.
Me ne avevano anche parlato, in modo entusiastico, alcuni giovani, che avevo conosciuto, in qualità di loro difensore, come drogati e modesti trafficanti di eroina. Un giorno vennero a trovarmi in studio, per chiudere le loro vertenze penali e mi attestarono che suor Elvira li aveva guariti con la ‘terapia di Gesù Cristo’. Mi invitarono a recarmi con loro a trovarla. Ma preso, purtroppo, dalle spine soffocanti della vita quotidiana, persi quell’occasione, che più non si presentò.
La ‘terapia’ di suor Elvira era basata su tre principi: i primi due erano obbligatori; il terzo era facoltativo, anche se, quasi per contagio, finiva per essere accolto da tutti o quasi i residenti. Il primo era la serietà della decisione di liberarsi dalla dipendenza. Ciò implicava, soprattutto nei primi tempi del soggiorno in comunità, notevolissime sofferenze. Esse però erano indispensabili per il distacco dalla droga e per sottrarsi alla ricaduta nel vizio.
Suor Elvira non defletteva mai con alcuno dal mantenere questa linea di rigore e severità. Piano piano ella e i suoi collaboratori più stretti – ragazzi e ragazze che già si erano risvegliati a nuova vita – decisero di rendere più rigida la regola, abolendo il consumo di sigarette e le uscite ‘fuori porta’, una volta alla settimana, per brevi soste nelle trattorie di Saluzzo. Tutta la comunità fu d’accordo e la gioia della vita in comune, nella rinuncia al vizio del fumo e agli svaghi esteriori, si accrebbe di molto.
Il secondo principio era il lavoro. Nessuno poteva restare inoperoso nella comunità, che si reggeva sull’impegno materiale intenso di tutti, senza privilegi o distinzioni. Il rispetto di questi due princìpi era obbligatorio. Il terzo, la preghiera in comune e la partecipazione alla vita eucaristica, era facoltativo, ma divenne pian piano comune pressoché alla totalità dei residenti.
Nella preghiera e nell’Eucaristia la comunità crebbe in modo prodigioso, nonostante che la vita in comune e il lavoro continuativo importasse la completa povertà. La preghiera e l’Eucaristia sostennero però la comunità al punto che la povertà divenne una ricchezza comune a tutti. In un passo del libro “L’abbraccio” suor Elvira così descrive la crescita della comunità del Cenacolo: “Con il passar degli anni la Casa Madre è stata risistemata grazie al lavoro dei ragazzi e all’aiuto di tanti amici e, oggi, risplende in tutta la sua bellezza. Sono poi nate tante altre case, ma l’avventura di ricostruzione iniziata allora non è ancora finita. La Comunità è un cantiere di vita sempre aperto. Tutti i giorni, ogni giorno, è uno stupore, una meraviglia. Adesso lo stupore e la bellezza sono nel sorriso dei giovani, nei loro occhi luminosi, nella gioia che esce dai loro visi e anche nella tenacia e nella forza che dimostrano nel voler stare in una Comunità che si definisce “esigente”. Sì, esigente! Perché noi vogliamo amare non pretendendo, ma credendo che nei giovani, anche falliti, ci sia un capitale non ancora messo a fuoco. Li accogliamo così come sono. Li accogliamo per amarli nel loro bisogno oggi, senza pensare al domani. Ma nello stesso tempo vogliamo che capiscano che possono farcela ad avere un domani, che quando le cose si fanno con amore, con passione, con volontà, la vita si può ricostruire. E allora esigiamo da loro proprio perché li amiamo. E’ un’amore che vuole restituire a loro la dignità. Non sono anziani, non sono malati o handicappati nel fisico, sono giovani che hanno perso la strada ma che hanno il diritto di ritrovarla, riscoprendo che la loro vita vale, che in loro c’è un tesoro di bene, di volontà, di forza, di amore che devono scoprire e nel quale devono credere”[7].
5. Ho ritenuto di far cosa utile a coloro che consultano il sito del Centro Studi Rosario Livatino, in grande prevalenza giuristi, riferire questa esperienza di vita, poiché suor Elvira è entrata nel vivo delle problematiche relative all’addiction da sostanze stupefacenti o alcoliche o da pratiche che comunque creano dipendenza.
La riabilitazione sociale è un grande obiettivo; ma la libertà umana, molto spesso ristretta nel suo esercizio in un angolo troppo angusto ed oscuro, non è in grado da sola di riconquistarla. Neanche le normative più accurate possono far riconquistare la libertà e restituire gli sbandati e i disperati alla vita sociale.
Occorre un supplemento di umanità, la solidarietà e il dono. Suor Elvira ha dimostrato con l’esperienza viva della sua comunità che la gioia della vita può essere riguadagnata, sia pure nel sacrificio e nell’offerta di sé nel servizio per il bene del prossimo.
[1] L’abbraccio. Storia della Comunità Cenacolo, Cinisello Balsamo, 2013, edizione Kindle, pos. 118.
[2] Ibidem, pos. 123.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem, pos. 147-153.
[5] Ibidem, pos. 201.
[6] La lettera del Vescovo è riportata sul quotidiano Avvenire, 3 agosto 2023, nell’articolo dal titolo: Il lutto. Addio suor Elvira, madre dei ragazzi “difficili”. La lettera del vescovo
.[7] Ibidem, pos. 290.