16 Settembre 2019
Sviluppo sostenibile è ormai ovunque la parola d’ordine, la terapia per un pianeta malato. Ma questo concetto nasce da una concezione negativa dell’uomo e le politiche globali di sviluppo sostenibile hanno come reale obiettivo il controllo delle nascite nei paesi poveri e il freno alla crescita economica dei paesi ricchi. E anche la Chiesa, che era ostile a questo concetto, sotto le forti spinte ecologiste vede ormai integrato tale concetto nel Magistero.
di Riccardo Cascioli
La concezione dello sviluppo è un elemento chiave per comprendere come una propaganda ideologica ambientalista abbia indotto una così grave deformazione della realtà che porta oggi il cittadino comune ad avere un’idea errata dei meccanismi della natura e del rapporto degli uomini con la natura e fra loro stessi.
Abbiamo visto nelle precedenti puntate come si sia arrivati a considerare lo sviluppo (e quindi i paesi industrializzati, che usano combustibili fossili) come causa di tutti i mali attuali, ambientali in generale e per il clima in particolare. Quando è invece vero che è il sottosviluppo, con tutte le sue implicazioni, ad essere casomai un problema per l’ambiente.
Questo è però il retroterra – e la falsa credenza – da cui nasce la presunta “terapia”, lo sviluppo sostenibile. È un dato di fatto che oggi il concetto di “sviluppo sostenibile” sia diventato una parola d’ordine globale. Recentemente anche la Chiesa – come vedremo più avanti – lo ha incluso nel suo Magistero.
Comunemente si fa riferimento a sviluppo sostenibile per intendere una crescita economica che tenga conto dell’ambiente. Il che la fa suonare come cosa buona e desiderabile. Ma detta così l’affermazione è talmente generica che teoricamente potrebbe intendere scelte concrete anche molto diverse. In realtà bisogna andare all’origine del concetto per capire quale sia il fine vero.
Intanto, si deve dire che il concetto di sostenibilità è mutuato dalla biologia: lo si usa ad esempio negli anni ’50 del XX secolo nello studio dei tassi di riproduttività dei pesci per stabilire la sostenibilità della pesca. È quindi un classico esempio di traslazione di teorie scientifiche dal mondo animale al mondo umano secondo uno schema tipico della cultura riconducibile al darwinismo sociale, che tende a negare l’unicità della specie umana rispetto alle varie specie animali.
I primi tentativi di promuovere il concetto di sviluppo sostenibile applicato agli uomini sono negli anni ’70, ma la consacrazione vera e propria si ha con la Commissione Internazionale Onu su Ambiente e Sviluppo, detta anche Commissione Brundtland dal nome dell’ex premier norvegese Gro Harlem Brundtland che la presiedeva.
La Commissione, istituita nel 1983 dall’allora segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, termina i suoi lavori con la pubblicazione nel 1987 del Rapporto intitolato “Our Common Future” (Il nostro futuro comune). Qui sviluppo sostenibile viene definito come «lo sviluppo che incontri i bisogni del presente, senza compromettere le possibilità per le future generazioni di incontrare i loro bisogni».
È una formula che potrebbe apparire di buon senso, ma il vero obiettivo di quel rapporto è dimostrare che la crescita della popolazione è la vera responsabile di sottosviluppo e degrado dell’ambiente. Citiamo ad esempio dal capitolo dedicato a “Popolazione e risorse umane”: «Ogni anno il numero di esseri umani aumenta, ma l’ammontare di risorse naturali con cui sostenere questa popolazione, e migliorare la qualità di vita nonché eliminare la povertà di massa, resta definita… Gli attuali tassi di crescita della popolazione non possono continuare. Essi già compromettono la capacità di molti governi di provvedere l’istruzione, i servizi sanitari e la sicurezza alimentare per la popolazione, per non parlare della possibilità di elevare il tenore di vita. Questa divisione tra numeri e risorse è oltretutto rafforzata dal fatto che la maggior parte della crescita della popolazione è concentrata in Paesi a basso reddito e in regioni ecologicamente svantaggiate”.
Su questa linea si svolgerà anche il Vertice sull’Ambiente a Rio de Janeiro nel 1992, richiesto proprio dalla Commissione Brundtland. Lì i capi di Stato e di governo di oltre 170 paesi firmano l’Agenda 21 (il riferimento è al 21mo secolo) e il Piano di Azione che si fondano su due obiettivi chiari: controllare le nascite nei paesi poveri, frenare lo sviluppo dei paesi ricchi.
È proprio su queste due direttrici che si innestano tutte le politiche ambientali globali attuali, incluse quelle specificamente centrate sui cambiamenti climatici. Ad esempio, il numero 5.3 dell’Agenda 21 così recita: «La crescita della popolazione mondiale e la produzione combinata con livelli di consumo insostenibili mette sotto una dura e crescente pressione le capacità del nostro pianeta di sostenere la vita».
È per questa concezione negativa dell’uomo che la Chiesa ha fin dall’inizio respinto l’uso del concetto di sviluppo sostenibile. Basti pensare a un documento del 1994, pubblicato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, “Dimensioni etiche e pastorali delle tendenze demografiche”: «Secondo questa corrente di pensiero – afferma il documento al no. 24 -, il controllo delle nascite è la pre-condizione indispensabile per lo sviluppo sostenibile dei Paesi poveri.
Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo dove i diversi fattori (cibo, salute, educazione, tecnologia, popolazione, ambiente, ecc.) sono armonizzati in modo da evitare una crescita sbilanciata e uno spreco di risorse. I Paesi sviluppati definiscono per gli altri quello che deve essere, dal loro punto di vista, sviluppo sostenibile. Questo spiega perché certi Paesi ricchi e importanti organizzazioni internazionali vogliono aiutare questi Paesi, ma a una sola condizione: che accettino programmi per il sistematico controllo delle nascite».
Con l’affermarsi universale del concetto di “sviluppo sostenibile” però, anche nella Chiesa si è fatta forte la pressione per adottare questa nozione, in chiave ecologista. Forti pressioni ci furono già durante il pontificato di Benedetto XVI, soprattutto da parte di alcuni episcopati europei, tedeschi in testa. L’occasione buona sembrava l’enciclica sociale Caritas in Veritate, ma alla fine il tentativo non ebbe successo: Benedetto XVI ripropose il concetto di “sviluppo umano integrale”.
La distanza dello “sviluppo umano integrale” dallo “sviluppo sostenibile” la si apprezza già dai primi paragrafi dell’enciclica, in cui Benedetto XVI illustra come lo “sviluppo umano integrale” sia una “vocazione” (no.4) che nasce dal fatto che l’uomo è immagine e somiglianza di Dio.
Proprio per questo l’enciclica esalta la dignità e l’unicità dell’uomo, la sua centralità nel piano della Creazione, mentre – come abbiamo visto – l’idea dello “sviluppo sostenibile” veicola una concezione negativa dell’uomo stesso. E infatti Benedetto XVI denuncia chiaramente l’ideologia umanitaria – dominante ad esempio nelle agenzie dell’ONU – perché “l’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano” (no.78).
Mentre lo “sviluppo umano integrale” è “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (no.18), lo “sviluppo sostenibile” è ciò che giustifica il sacrificio di una parte dell’umanità, come dimostrano le politiche di controllo delle nascite (no.28) che si basano sulla “scorretta” considerazione che “l’aumento della popolazione” sia “la principale causa del sottosviluppo” (no.44).
Le cose sono però radicalmente cambiate con questo pontificato e il concetto di “sostenibilità” è parte integrante del magistero di papa Francesco: non solo ci si fa abbondante riferimento nell’enciclica Laudato Si’, ma convegni vaticani e discorsi sono a questo indirizzati, per non parlare di personaggi come l’economista Jeffrey Sachs, che sullo sviluppo sostenibile ci hanno costruito la carriera e che in Vaticano dettano legge.