“cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi”
[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].
di Rino Cammilleri
In verità non si chiamava Tarcisio, ma Tarsicio. L’inversione consonantica è una delle tante che dobbiamo ai copisti medievali. Prima di dar loro la croce addosso, però, pensiamo ai refusi dei giornali odierni, i «diavoletti in redazione» che non di rado fanno rischiare la querela. Lo stilo, la penna o il computer, è sempre la mano quella che scrive.
Sì, si chiamava Tarsicio perché era di Tarso, la città della Cilicia che aveva dato i natali a s. Paolo. Tarcisio-Tarsicio è venerato come patrono dei chierichetti (sempre che ne sia rimasto qualcuno: ormai, alla comunione ti ritrovi davanti una suora o un maresciallo della Benemerita in pensione). Di questo santo parla un’iscrizione catacombale, dovuta a papa Damaso, che dice: «Tarsicio portava i misteri di Cristo quando una mano criminale tentò di profanarli. Egli preferì lasciarsi massacrare piuttosto che consegnare ai cani arrabbiati il corpo del Signore».
Il santo papa lo paragona al protomartire Stefano, lapidato dai «fratelli maggiori» di Gerusalemme mentre Saulo-Paolo reggeva loro i mantelli. Il culto di s. Tarsicio rifiorì dopo il Medioevo, in concomitanza con il risveglio di quello per i sacramenti. Alla storia della letteratura il suo nome è stato consegnato dal fortunato romanzo Fabiola, opera del cardinale Wisemann (il regista Blasetti ne trasse un popolare film bianco-e-nero).
Si trattava effettivamente di un fanciullo incaricato di portare l’ostia consacrata da una catacomba all’altra? Non lo sappiamo. Comunque, dopo la lapidazione non fu trovato nulla sul suo corpo. Solo l’immagine della particola impressa sulla sua carne
il Giornale 15 agosto 2000