di Alfonso Indelicato
Quest’anno nella mia scuola l’autogestione pare che inizierà il 13 dicembre. Di solito funziona così. Nei giorni immediatamente precedenti i ragazzi del collettivo si mettono d’accordo con quelli eletti nel ConsDist per decidere di che parlare. Poi stabiliscono in quali aule si tratterà di questa cosa, in quale di quella.
Preparano le etichette, le appiccicano sulle porte: “aula musica”, “aula tossicodipendenze”, “aula occulto”, “aula sesso”. Scelgono i membri del servizio d’ordine (di solito gli elementi più maneschi e meno affidabili, stagionati primini di diciott’anni incazzosi e dallo sguardo torvo) e gli mettono al braccio un pezzo di stoffa che fa la divisa. Poi tutto incomincia.
Il primo giorno vi è effettivamente una certa organizzazione: gli improvvisati vigilantes girano per i corridoi e ricacciano a spintoni nelle aule tutti quelli che incontrano in giro, di fumo ne circola poco, non si registrano casi di coma etilico. Nelle aule improvvisati oratori tengono banco, nel gruppo musicale si suona e si balla, nel gruppo dell’occulto chissà che caspita fanno, in quello del sesso lasciamo perdere.
Il secondo giorno c’è già qualche sbavatura: nelle aule i lavori languono (tranne, presumo, nell'”aula sesso”) e il numero dei deambulanti nei corridoi è aumentato. Ragazzi e ragazze si slinguano per le scale, intrecciati come anaconda gli uni alle altre. Scoppiano le prime risse fra servizio d’ordine e anarchici individualisti che si fanno in giro i *** loro: prime ecchimosi e prime (leggere) tumefazioni. Il terzo giorno si tenta ancora di tenere la disciplina, ma il caos tracima ormai da tutte le parti…
Dal quarto giorno in poi, è il pandemonio più totale. Oltre agli spacciatori interni – quelli che si sono iscritti a scuola per portare avanti il loro commercio sotto la protezione della legge (parlo dello “Statuto delle studentesse e degli studenti”) – arrivano quelli da fuori, perché nel raggio di dieci chilometri si è saputo che l’Istituto professionale *** è in autogestione.
Ci sono un mucchio di clienti abituali da raggiungere, ma c’è anche un nuovo mercato da creare… decine e decine di primini, che non si sono mai nemmeno fatti una canna, innocenti, vergini, ***, con un bel mucchietto di soldi in tasca, che aspettano solo di essere svezzati…
Ne becchi qualcuno nei cessi, dico dei pusher, e gli fai: «E tu chi sei? Non sei di questa scuola». Quello ti risponde: «E tu che *** vuoi?», e ti guarda fermo e provocatorio ancora con le pasticche in mano. Ora tu potresti, con la forza dei tuoi cinquant’anni ancora intatti, spaccargli gli incisivi con un diretto ben assestato. Ma ci pensi, poi, il casino?
Ci pensi ai magistrati democratici, ai sociologi umanisti, agli psicologi basagliani? Ai colleghi della Commissione Salute? Ci pensi ai preti buonisti? Perdono! Perdono! Ma ha fatto scoppiare il cervello a quante persone! Embè? Chi sei tu per giudicare? Lo hai perdonato? Di’, lo hai perdonato? Noo? Ma che *** di cristiano sei? E le mamme, le mamme! «Figlio, figlio mio, così buono, generoso, mai dato grattacapi, anzi, portava i soldi a casa, me l’ha rovinato, chillo fetente…». Per carità ragazzi! Fate, fate pure, accomodatevi…
I giorni passano. Le aule diventano stalle, i corridoi sterquilini, le rampe delle scale lupanari… Intanto la maggior parte degli insegnanti se ne sta rintanata in aula professori a leggere Repubblica o imboscata da qualche altra parte. Capita che un gruppo di ragazzi stufi dell’andazzo rintraccia uno dei suoi prof e gli chiede di fare lezione («Abbiamo trovato un’aula libera!», gli bisbigliano all’orecchio con fare da cospiratori).
Allora il prof solleva stancamente gli occhi da Repubblica, li spalanca, fa sussiegoso la boccuccia a cul di gallina e dice: «Ma perché? State vivendo un’esperienza formativa, no?».