Con un decreto firmato lo scorso 11 luglio dal Segretario di Stato di Sua Santità, cardinale Tarcisio Bertone, la Santa Sede ha abrogato lo status canonico di cui si fregiava l’ormai ex-Pontificia Università Cattolica del Perù (PCUP). Il decreto proibisce formalmente questo ateneo di utilizzare, d’ora in poi, i titoli di “Pontificia” e di “Cattolica”.
Questo esito, doloroso quanto inevitabile, giunge dopo ben quaranta anni di litigi, sia civili (per il possesso di beni legati a un testamento che prevede il lascito “a un’istituzione di carattere cattolico”); sia soprattutto canonici poiché, come università pontificia, la PUCP e sotto il Diritto Canonico, in particolare ai sensi della Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae, di Giovanni Paolo II.
Il decreto ha avuto ampia ripercussione sulla stampa italiana, non solo per l’importanza del fatto in sé, ma anche come possibile avvisaglia per taluni atenei “cattolici” nostrani, sui quali anche di recente è infuriata la polemica. “Una decisione storica (…) una mossa unica nel suo genere”, commentava il vaticanista di La Stampa Andrés Beltramo.
La perdita dell’identità cattolica dell’ormai ex-PUCP è in buona parte attribuibile all’influenza della Teologia della liberazione, elaborata dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez, che proprio in questi giorni è tornato alla ribalta come “amico di vecchia data” di alti prelati vaticani.
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TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE: QUALCHE SPUNTO PER CAPIRLA
Importanza strategica dell’America Latina
Le sue gigantesche dimensioni, dall’Antartico alla California; la sua centrale posizione geografica a cavallo fra due oceani; le sue sterminate risorse naturali; la sua compattezza culturale, linguistica e religiosa di matrice europea; la presenza nel suo seno di varie potenze emergenti, fanno dell’America Latina un pezzo di capitale importanza nella scacchiera internazionale.
Troppo spesso disistimato in taluni ambienti europei, questo dato è stato invece correttamente valutato dal comunismo internazionale, che proprio all’America Latina ha dedicato alcuni dei suoi principali sforzi.
Dopo aver espugnato la Russia nel 1917, e conquistato l’estremo Oriente e l’Europa centro-orientale negli anni 1940-50, il comunismo intraprese la grande battaglia per la conquista dell’America Latina.
Azione Cattolica: storia d’una deriva
In America Latina l’espansionismo comunista trovò, però, un ostacolo apparentemente invalicabile: la profonda cattolicità del popolo, sostenuta dalla ferma coesione della Chiesa nell’opposizione alle dottrine provenienti da Mosca. L’assalto frontale a questo ostacolo era risultato, per contrasto, nell’infervoramento di molti settori cattolici in senso apertamente controrivoluzionario. Esempio tipico ne fu la guerra dei Cristeros in Messico (1926-1929), sulla quale è appena uscito un film destinato al grande schermo.
Incapaci di distruggere la Chiesa dall’esterno, i comunisti cercarono di coinvolgerla. Inizialmente proposero la “politica della mano tesa”, una sorta di “compromesso storico” fra cattolici e comunisti, un mero patto strategico. Poi, però, venne l’infiltrazione vera e propria.
Questa infiltrazione trovò un ambiente fertile in alcuni settori dell’Azione Cattolica latino-americana. Istigati da pensatori come Maritain e Mounier, nonché da teologi come Chenu, Congar, Rahner e de Lubac, nuclei di attivisti si insinuarono nell’Azione Cattolica, servendosene per la diffusione dei loro errori e spingendola verso indirizzi opposti a quelli voluti dai Pontefici.
Il caso dell’Azione Cattolica brasiliana costituisce nella fattispecie un esempio paradigmatico di ciò che avveniva un po’ ovunque. La deriva sinistrorsa era soprattutto visibile all’interno della JUC (Juventude Universitária Catolica). Spinta dai nuovi venti, la JUC “prese una piega sempre più socialista”, secondo quanto rivela lo storico Luiz Alberto Gomes de Souza. Nel 1959 la JUC salutò con entusiasmo la rivoluzione comunista di Fidel Castro. Dalla JUC nacque Ação Popular, che nel 1962 si definì “socialista” e nel 1972 divenne Ação Popular Marxista Leninista, salvo poi essere incorporata nel Partito Comunista. Alcuni militanti di Azione Cattolica giunsero a partecipare alla lotta armata.
Negli anni 1960, da questo calderone in ebollizione nasce una corrente teologico-politica rivoluzionaria che poi diventerà quasi egemonica nella Chiesa latino-americana: la Teologia della liberazione. Scrive Gomes de Souza: “Fu nell’Azione Cattolica che cominciarono a prendere forma le intuizioni che in seguito avrebbero dato vita alla teologia della liberazione”.
Teologia della liberazione
Le dottrine che poi avrebbero costituito la Teologia della liberazione sono state discusse nel corso di diversi incontri internazionali negli anni 1960, dei quali conviene risaltare quello tenutosi a Cuba nell’agosto 1965 sotto l’egida di Fidel Castro.
L’espressione, già in uso dal teologo della liberazione uruguaiano Juan Luis Segundo dal 1959, è stata sdoganata dal sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, ritenuto perciò il “padre fondatore” della corrente, nel corso di un convegno dell’ONIS (Oficina Nacional de Información Social) a Chimbote, Perù, nel luglio 1968.
Era una relazione nella quale Gutiérrez presentava la tesi di laurea che, sotto l’egida di Henri de Lubac, egli stava allora sostenendo alla facoltà gesuita di Lyon-Fourvière. Ampliata e aggiornata, questa tesi diventerà poi il libro «Una Teología de la Liberación. Perspectivas», pietra miliare della corrente. “Questo libro — commenta Segundo — è stato come un battesimo. Ma il bimbo era già alquanto cresciuto”.
Siamo alla vigilia dell’Assemblea Generale del CELAM (Conferenza Episcopale Latino Americana) a Medellín, Colombia, in cui gli esponenti della corrente liberazionista ebbero un ruolo preponderante. La presenza di Papa Paolo VI conferì ulteriore autorevolezza all’incontro, che da più parti cominciò ad essere chiamato “il Vaticano II della Chiesa latino-americana”.
Questa assise è considerata uno spartiacque nella storia della Chiesa in America Latina, che avrebbe finalmente rotto col suo passato “medievale” lanciandosi nell’avventura progressista. Al di là del vero tenore dei documenti (anch’essi soggetti a “ermeneutiche” divergenti…), lo “spirito di Medellín” comincia a soffiare fortissimo nel continente, spostando vasti settori ecclesiastici sempre più a sinistra.
Questo ‘68 ecclesiastico si innestava poi in un processo politico rivoluzionario che, sotto l’influsso di Cuba, vedeva un crescente numero di Paesi latino-americani passare all’orbita sovietica. Nei Paesi con governi non comunisti la Teologia della liberazione spingeva invece i cattolici all’opposizione, perfino armata.
In Colombia, per esempio, seguendo l’esempio di P. Camilo Torres Restrepo, molti sacerdoti si unirono al gruppo guerrigliero ELN (Ejército de Liberación Nacional), definito “marxista-leninista-cristiano” (sic).
È in questo ambiente surriscaldato che viene alla luce, nel 1971, il capolavoro di Gustavo Gutiérrez «Una Teología de la Liberación. Perspectivas».
“Fare teologia”
Quali sono i cardini di questa teologia? Rovesciando il metodo teologico, che parte dalla Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione per dedurre principii poi applicati alla realtà, i teologi della liberazione partivano dall’analisi di situazioni concrete, nella fattispecie le lotte rivoluzionarie in America Latina. “La teologia della liberazione — dice Gutiérrez — è un tentativo di comprendere la fede partendo dalla prassi storica concreta, liberatrice e sovversiva, dei poveri di questo mondo”.
Il rovesciamento avveniva col seguente raziocinio:
— la Rivelazione pubblica non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, bensì continua lungo la storia e, anzi, nella storia (immanentismo storicista);
— concretamente, Dio si rivela in quei fenomeni che sono all’avanguardia del processo storico, vale a dire nei movimenti rivoluzionari (socialismo, comunismo), eufemisticamente chiamati “movimenti di liberazione”;
— per analizzare questi fenomeni serve uno strumento di analisi politico e sociologico;
— oggi, il miglior strumento di analisi è il marxismo
“Il marxismo, come cornice teorica di tutto il pensiero filosofico contemporaneo non può essere superato”, millantava P. Gustavo Gutiérrez. “Oggi, per la teologia della liberazione — spiegava a sua volta Gomes de Souza — non esiste strumento migliore che il marxismo, che è immerso nella praxis della realtà”.
I teologi della liberazione adottavano quindi l’analisi marxista, la applicavano ai fenomeni sociali e politici, salvo poi spacciare le conclusioni — ovviamente condizionate dal metodo di analisi — come “teologia”…
D’altronde, la Teologia della liberazione non si presentava come una scuola di pensiero (questo sarebbe un “intellettualismo” assolutamente da rigettare) bensì come una “praxis”, e concretamente una praxis rivoluzionaria. “La teologia della liberazione suppone una situazione rivoluzionaria”, spiegava il liberazionista Gregory Baum. “Ciò che intendiamo per teologia della liberazione è il coinvolgimento nel processo rivoluzionario”, sentenziava Gustavo Gutiérrez.
Ecco perché i teologi della liberazione parlavano di “fare teologia”, vantando il “primato della praxis sulla riflessione”, un concetto di chiara derivazione marxista (l’undecima “Tesi su Feuerbach”).
“Prima di fare teologia dobbiamo lottare per la liberazione — scrivono i fratelli Leonardo e Clodovis Boff — Il primo passo della teologia è il coinvolgimento nei processi di liberazione degli oppressi”.
La simbiosi col comunismo
Mossi dal desiderio di “fare teologia” partecipando ai “processi di liberazione”, i seguaci di questa corrente cominciarono a impegnarsi nelle lotte politiche della sinistra, a volte come protagonisti a volte come fiancheggiatori. Non pochi giunsero perfino a partecipare alla lotta armata. La manovra gli riusciva facile, visto che condividevano con Mosca lo stesso scopo: l’istaurazione del comunismo. “Comunismo e Regno di Dio sulla terra sono la stessa cosa”, ammetteva P. Ernesto Cardenal. “Troviamo i valori del Regno di Dio nel socialismo reale sovietico”, rincarava a sua volta frà Leonardo Boff.
Lo stesso Gustavo Gutiérrez era piuttosto esplicito: “Dobbiamo attuare una rivoluzione sociale che rompa lo status quo e introduca la nuova società, la società socialista”.
In questo modo il comunismo, che di per sé sarebbe rimasto un fenomeno marginale in America Latina, ha visto convergere nelle sue fila masse di cattolici, con l’esplicita o implicita connivenza di non pochi presuli. Rimarrà tristemente nella storia, per esempio, la ribellione, nel 1985, di ben diciassette vescovi brasiliani contro le misure disciplinari inflitte dal Vaticano nei confronti di Leonardo Boff.
Da parte sua, Mosca apprezzava molto questi “compagni di viaggio”. A conferma di ciò si contano a centinaia gli interventi a loro favore da parte di organi legati al Komintern. Tra questi, un saggio del 1984 di Vladimir Pacika, dell’Accademia Sovietica delle Scienze, nel quale lo studioso analizza l’evoluzione teologica dal Modernismo alla Nouvelle Théologie alla Teologia della liberazione, mostrando come questo sviluppo fosse convergente con gli interessi del socialismo sovietico.
Impossibile elencare, nell’angusto spazio di un articolo, i casi di simbiosi fra cattolici e comunisti. Basti menzionare l’appoggio, assolutamente decisivo, della corrente liberazionista alla dittatura filo-comunista del generale Juan Velasco Alvarado in Perù, al governo di Salvador Allende in Cile, al governo di Juan José Torres in Bolivia, al governo di Lula in Brasile, e via dicendo.
Non pochi giunsero a partecipare alla lotta armata. È nota, per esempio, la partecipazione di cattolici nel MIR (Movimiento de izquierda revolucionaria) in Cile, nell’ELN (Ejército de liberación nacional) in Colombia, nei Tupamaros (Movimiento de liberación nacional) in Uruguay, nell’ALN (Aliança libertadora nacional) in Brasile, e via dicendo. Ma forse il caso paradigmatico sia stato la massiccia partecipazione di cattolici provenienti dalle “comunità ecclesiali di base” nella guerriglia sandinista, in Nicaragua, che nel 1979 ha rovesciato il governo istaurando una dittatura filo-sovietica.
Il governo sandinista era sostenuto perfino da vescovi. Uno di loro, mons. Pedro Casaldáliga, vescovo di São Félix do Araguaia, in Brasile, partecipando ad una riunione con guerriglieri sandinisti non esitò di indossare la loro divisa militare, dichiarando: “Vestito da guerrigliero mi sento paramentato da sacerdote. La guerriglia e la Messa sono la stessa celebrazione”. In questo era appoggiato dal cardinale di San Paolo, Paulo Evaristo Arns, che incitava i cattolici brasiliani a fare stage con la guerriglia nicaraguense.
La Pontificia Università Cattolica del Perù
La “praxis” esigeva una concreta situazione rivoluzionaria, nella quale andavano ad inserirsi i teologi della liberazione. Gustavo Gutiérrez la trovò nella dittatura filo-comunista del generale Juan Velasco Alvarado (1968-1975), della quale fu mentore e strenuo sostenitore.
Buona parte dell’intelligentsia marxista che appoggiava la dittatura velasquista proveniva dalla Pontificia Università Cattolica del Perù (PUCP). Nata come ateneo cattolico di stampo tradizionale, sotto l’egida dell’Istituto Riva-Agüero, la PUCP iniziò a franare verso sinistra nel 1962 con la creazione del Dipartimento di Scienze Sociali, del quale fu nominato Direttore il gesuita Luis Velaochaga, un progressista radicale.
Poco prima di abbandonare il sacerdozio, egli lasciò l’incarico all’avvocato marxista Enrique Bernales Ballesteros, docente presso la PUCP, decorato dal regime comunista della Germania Orientale con la “Medaglia del Centenario di Karl Marx”. Questi due personaggi hanno introdotto nella Pontificia Università Cattolica del Perù la famigerata analisi sociale marxista.
Questa rivoluzione accademica è stata completata con la simultanea introduzione, presso il Dipartimento di Teologia, di una nuova visione di Dio, di carattere immanentista, relativista ed evoluzionista, un “Dio che si rivela nel corso della storia”. A guidare questo Dipartimento c’era nientemeno che Gustavo Gutiérrez, il padre della Teologia della liberazione, insieme ad altri preti rivoluzionari facenti capo all’ONIS.
Il risultato non si fece aspettare: la PUCP divenne la fucina della più influente intelligentsia marxista e filo-marxista in Perù, quella che si usa chiamare “sinistra-caviale” perché unisce all’adesione intellettuale al socialismo il godimento dei piaceri materiali offerti dal capitalismo. I membri di questa intelligentsia sono poi riusciti a proiettarsi, politicamente e socialmente, utilizzando sia il prestigio accademico di questo ateneo, sia il suo carattere di istituzione cattolica.
Questo ha creato nel tempo una situazione davvero surreale: un’Università cattolica trasformata nel regno della confusione ideologica e della contraddizione. Dal punto di vista ideologico, non era molto dissimile a un lupo travestito da pecora. Ufficialmente cattolica, e addirittura pontificia, la PUCP in pratica sfornava l’élite socialista del Paese.
Col decreto della Segreteria di Stato di Sua Santità, che proibisce alla PUCP di usare i titoli di “Pontificia” e di “Cattolica”, questa contraddizione sembra essere giunta al capolinea.