Alcune premesse
■ Possiamo davvero rinunciare, come fanno tanti psicoterapeuti, a prendere in considerazione la morale, soprattutto la morale sessuale?
■ Siamo infine come terapeuti consapevoli o no della nostra personale antropologia, ossia della nostra concezione dell’uomo e delle sue ripercussioni nel rapporto con coloro che richiedono cure?
Né persuasione né «conversione»
La terapia riparativa, di cui si discorre nell’articolo citato, per la gestione del disagio nei soggetti con orientamento omosessuale egodistonico effettivamente viene praticata dagli anni ‘85 circa in America, promossa dallo psichiatra Joseph Nicolosi (Reparative Therapy of Male Homosexuality. A New Clinical Approach. Jason Aronson Ed., California 1997), attuale presidente dell’Istituto Narth (National Association for Research and Therapy of Homosexuality) in California.
L’Istituto presenta interessanti risultati di oltre mille casi di riformulazione maturativa dell’orientamento sessuale (Joseph Nicolosi: conferenza del 5 giugno 2003) in un quinquennio di trattamenti. Chiamata anche terapia ricostruttiva si propone di rimettere in moto lo sviluppo istintivo affettivo dell’utente bloccato durante i primi anni di vita da mal riusciti processi di identificazione con le figure genitoriali (aver cioè maturato da loro che cosa vuoi dire essere uomo o essere donna ed essersi introiettati i rispettivi ruoli complementari).
All’analisi genetica e dinamica, compresa la verifica dei movimenti transferali, viene aggiunto un approccio di tipo cognitivo in cui il soggetto prende coscienza del significato profondo del suo bisogno di unirsi sessualmente a persone pari sesso. Contemporaneamente si tenta di esorcizzare, nei soggetti di sesso maschile, i profondi sentimenti di inferiorità tanto verso gli uomini quanto soprattutto verso le donne, accompagnati a volte da vere e proprie repulsioni (quasi a orientamento fobico con le conseguenti strategie di evitamento) sul piano fisico e intolleranza. in alcuni casi, della stessa vista dei genitali femminili.
Il soggetto di sesso maschile gradualmente recede dalle classiche disposizioni fallocentriche e fallocratiche mediante una migliore integrazione tra sessualità, affettività e progetto di vita. Abbandona così a poco a poco la famelica ricerca dei partner sovente sostituiti con vertiginosa rapidità. Il terapeuta affronta il mondo del suo paziente anche in termini comportamentistici promuovendo in primo luogo l’amicizia vera e «diserotizzata» con soggetti pari sesso e incentivando un percorso verso l’assertività. Non si praticano, che io sappia, interventi direttivi di persuasione-«conversione».
Con metodologie relativamente simili in Europa lo psichiatra olandese van den Aardweg afferma di ottenere modificazioni maturative sin dal 1985 (Gerard van den Aardweg, Omosessualità e speranza, Adizioni Ares. Milano 1999). Vien data speciale importanza a un cammino verso l’affermatività a partire dai complessi di inferiorità evidenziagli sin dall’infanzia, mentre l’identità di genere viene presa in considerazione mediante lo studio dei modelli genitoriali introiettati.
L’intervento cognitivo di van den Aardweg si allarga alla famiglia, particolarmente bisognosa di sostegno e di chiarimenti se il soggetto con tendenze omofiliche è ancora abitante nella casa di origine. Il peso emotivo dei genitori e della costellazione di altri parenti grava pesantemente sul soggetto in terapia: avviene molto spesso di riscontrare tra quelli che il linguaggio della psicoanalisti chiama «oggetti interni» una fote e presenza attiva della figura materna con cui esistono importanti fenomeni di identificazione nel sesso maschile.
Come le cure di Nicolosi, anche l’approccio di van den Aardweg appare multiforme e forse ibrido, ma tuttavia capace di offrire risultati di cambiamento: l’autore riporta su 260 casi Lina riformulazione in termini eterosessuali (egli parte dal presupposto, tutto da verificare, ma suggestivo, che l’omosessuale sia un eterosessuale latente) di 2/3 dei soggetti e una stabilizzazione istintuale meglio organizzata nel terzo restante.
Società omofoba?
In opposizione a tali interventi psicoterapeutici si .svolge in America la Gat (Gay Affirmative Therapy). Proposta dal movimento di liberazione Gay sin dal 1989 (Marshall Kirk, neuropsichiatra, e Hunter Madsen. pubblicitario: After the ball 1990) e ben analizzata da Marchesini nel saggio al quale ci .si riferisce, viene praticata da terapeuti omosessuali e intende favorire i processi di adattamento psicologico alla condizione omosessuale, se mai vi fosse ancora qualche omosessuale egodistonico in fase dubbiosa o di conflittuale ripensamento.
Tutto il disagio, essi sostengono, proviene dalla società omofoba, dalle derisioni, dalle emarginazioni e dalle colpevolizzazioni inflitte dalla famiglia o dalla società. Perché cambiare? L’omosessualità e nient’altro che una variante normale dell’essere umano, come il colore dei capelli, la statura, la costituzione. Vi sono già delle dichiarazioni in tal senso dell’Apa e dell’Oms. L’affermatività profilata consiste nel coming-out, nell’uscire gioiosamente allo scoperto dalla condizione di clandestinità in cui sovente vive un soggetto con tendenze omosessuali e di protestare il proprio diritto (outing) a essere riconosciuti da tutte le fasce sociali e dalla legge.
Dai risultati riportati dai promotori della Gat i soggetti dalla terapia acquistano sicurezza, autonomia, libertà interiore rispetto alla colpa dettata dall’omofobia interiorizzata. La terapia ottiene dunque risultati di adattamento e dì cambiamento. Dalla disamina di queste due forme opposte di approccio terapeutico alla condizione omosessuale si possono evincere le seguenti conclusioni:
■ la condizione omosessuale necessita di un incentivo psicoterapeutico, se richiesto, orientato verso l’affermatività, in quanto ci si trova di fronte a sentimenti di insicurezza, inferiorità, vergogna in un’organizzazione personologica generalmente immatura:
■ la condizione omosessuale produce nella maggioranza silenziosa degli omosessuali fenomeni di egodistonia, che mai si verificano nella situazione eterosessuale:
■ una forma di disagio psichico inerente in primo luogo all’identità è innegabile e molti soggetti richiedono legittimamente un aiuto psicoterapeutico;
■ ogni psicoterapia mira al cambiamento, ossia a una riorganizzazione consapevole e autonoma dell’assetto istintivo affettivo solitamente perturbato e difficilmente gestibile. Non si vede alcuna ragione di rinunciare a un percorso maturativo di adattamento e, perché no?, di orientamento verso quell’eterosessualità nascosta, forse rimossa, che conflittualmente e problematicamente sembra albergare in fondo all’animo delle persone con tendenze omofiliche.
Diritto / dovere della psichiatria
In seguito a tali considerazioni è lecito affermare il diritto/dovere della psichiatria (psicoterapia, psicologia, psicoanalisi) a occuparsi del fenomeno dell’omosessualità. Bisogna ribadire il diritto-dovere a curare chi chiede aiuto e manifesta una sofferenza. Infine, di quale sofferenza si tratta? Che cosa bisogna curare se, secondo alcuni, nessuno soffre? Che cosa bisogna riparare se nulla si è rotto?
Il disagio del soggetto portatore di un’inclinazione omosessuale non sembra, come detto, esclusivamente generato dal clima omofobo che lo circonda. Né l’egodistonia riguarda soltanto l’orientamento omosessuale. Il più delle volte la tendenza omosessuale è una dolorosa scoperta, non un’opzione o scelta di genere che dir si voglia (A. Persico, Omosessualità: tra scelta e sofferenza, Ed. Alpes, Roma 2007).
Tale scoperta viene vissuta inizialmente nella sorpresa, nel nascondimento, nel dubbio sul futuro, nell’introversione con connotati depressivo-rinunciatari. Si accompagna all’inevitabile incertezza sulla propria identità con i correlati sentimenti di inferiorità, di inadeguatezza fisica, dì incapacità a reggere il confronto con i coetanei pari sesso. Ne deriva la ricerca di una persona simile a sé per rinforzare la propria identità di genere.
Contemporaneamente risulta problematico o intriso di emozioni negative il relazionarsi con l’Altro in modo realistico prendendolo per ciò che l’Altro in effetti e non per ciò che il soggetto immagina o fantastica che sia rendendolo narcisisticamente parte di sé, a seconda dei casi, simbionte, alter-ego, complice, partner collusivo, confusivo e illusorio (come spesso avviene di riscontrare nei partner omosessuali, se si ha la pazienza di esaminare in profondità la coppia) dal quale discostarsi poi con repentini processi di disinvestimento affettivo.
Wister e Matteson dopo aver esaminato 160 coppie di omosessuali non ne hanno trovata una della durata superiore ai 5 anni. Per Pollak (1985) le unioni omosessuali non durano oltre due anni. I meccanismi di scissione tra aflettività e sessualità facilmente evidenziabili conducono a un eccessivo fallocentrismo con la tendenza a erotizzare le situazioni (va annotato che uno degli obiettivi di ogni buona psicoterapia è consentire all’utente di istituire relazioni interpersonali sessuate, ma deistintualizzate, ossia sottratte all’arco riflesso stimolo-risposta, e inserite invece in un progetto consapevole di vita).
La frequenza del collasso depressivo con un’alta percentuale di tentativi di suicidio (si veda l’articolo di Marchesini nel n. 581/82 di Studi cattolici, p. 509), spesso per abbandono del partner, l’ambivalenza maschile verso il sesso femminile, alternante tra atteggiamenti effeminati, travestimenti vistosi e viceversa ostentato virilismo paramilitare, la persistenza di una problematica sessuale post-adolescenziale bisognosa di conferme, di esibizioni e di rassicuranti confronti, i comportamenti di eccitamento euforoide collettivamente incentivati nei quali, accanto alle intenzioni provocatorie, non si capisce se prevalgano meccanismi di negazione piuttosto che di formazioni nel contrario, infine la strutturazione profondamente diversa dell’orientamento omosessuale negli uomini e nelle donne nelle quali sembra prevalere una genesi traumatica del fenomeno richiederebbero approfonditi studi oltre che di necessaria presa in carico terapeutico.
Il problema morale
È inevitabile infine che non solo il soggetto utente, ma anche il terapeuta si incontrino con il problema morale.
L’alto sessuale, qualsiasi allo sessuale, avviene in una relazione interpersonale con imprevedibili ricadute emotive su entrambi i protagonisti e iscrizione di ciascuno nella storia dell’altro. In quanto relazione tra due persone, vissuta con un atto libero e cosciente, lo sì voglia o no, diviene ipso facto oggetto di valutazione morale.
Nonostante pareri alquanto difformi in tema di morale sessuale, sovente il terapeuta, per seguire il rigoroso criterio di astenersi dal trasmettere all’utente qualsiasi forma di giudizio morale, potrebbe essere indotto egli stesso a confondere la spiegazione con la giustificazione. La profondità con cui il terapeuta può interpretare la genesi dinamica di un alto non esaurisce la portata e le conseguenze dell’atto stesso sul soggetto, sul partner e sul contesto in cui egli vive. Si vorrebbe cioè suggerire che ogni buon terapeuta dovrebbe conoscere i principi della sua stessa morale personale, della morale comune ed eventualmente anche del sistema morale dei suoi pazienti.
In breve, prudentemente non dovrebbe ammettere che in virtù del suo lavoro terapeutico un ossessivo inibito diventi un criminale felice, un’agorafobica si trasformi in un’allegra adulterina, insomma che un soggetto abbandoni una morale con la convinzione che è nient’altro che un tabù e diventi un amorale o un immorale soddisfatto. Il terapeuta insomma dovrebbe conoscere i principi della morale senza ovviamente imporli.
A volte la mancanza di qualsiasi commento, riflessione o analisi del problema morale, soprattutto se il terapeuta non governa ancora bene i moti transferali e controtransferali, viene scambiala dall’utente come «autorizzazione» ad agire come meglio crede per il suo piacere secondo una visione della cura ispirata a un particolare individualismo emancipativo proposta oggi da molti terapeuti, al di fuori dell’uso responsabile e consapevole della libertà che e un segno di maturità. La morale non è un tabù, ma la garanzia di buone relazioni.
In Italia e in molti Paesi ci si riferisce soprattutto alla morale cristiana. Va chiarito una volta per tutte che la Chiesa cattolica non condanna l’orientamento omosessuale e le sue pulsioni, se non come propensione a comportamenti contrari alla legge divina. Semplicemente considera offesa a Dio la consumazione di un rapporto omosessuale, cosi come l’adulterio, la violenza sessuale, la pedofilia, la poligamia. In particolare, il rapporto omosessuale e ritenuto anche contrario alla legge di natura.
Quali presupposti antropologici?
Ecco allora la connessione con il tema dei valori. Una terapia ben fatta dovrebbe consentire all’utente di relazionarsi in modo autentico e consapevole, liberamente voluto, a quei valori che in fine aiutano l’uomo a vivere da uomo, eliminando, si capisce, i falsi valori inseriti in una struttura nevrotica. Indipendentemente dal suo personale credo, lo psicoterapeuta di ironie al suo paziente si trova a dover verificare continuamente la propria personale visione dell’uomo. Quale antropologia vive nella sua mente? In che modo egli pensa all’essere umano?
La carenza di punii di riferimento antropologici balza evidente precisamente in relazione alla sessualità. Una semplice riflessione in termini di fenomenologia antropologica sulla sessualità umana ci palesa subito con chiarezza cristallina che il sesso non può essere consegnato al transitorio, all’effìmero, al contingente, al banale, all’intercambiabile, al virtuale, alla mera comunicazione extraverbale, al «poco importa chi tu sia e quale sia il tuo sesso, importa che tu adesso mi faccia piacere», sganciato dagli affetti, dal progetto di vita, dalla morale.
L’istinto sessuale da un punto di vista antropologico possiede invece innegabili caratteristiche di unitività (e non singolarità individuali in un rapporto fruitivo), di donatività (e non di possesso), di reciprocità (e non di accaparramento), di pariteticità (e non di sopraffazione), di complementarità (e non di similarità), di creatività oltre che di procreazione generativa (e non di consumazione sterile), di totalità (e non di parzialità), di conoscenza personificante (e non di confusione nell’ intercambiabilità), di intimità (e non di dissipazione), di trasmissione affettiva che parte dal linguaggio del corpo. L’istinto sessuale costituisce il substrato fisiologico dell’identità di genere e dei rapporti interpersonali mentre modella lo stile affettivo e relazionale della personalità.
Se poi per completezza del discorso si volesse fare una digressione sulla fenomenologia antropologica teocentrica, allora si troverebbe che precisamente l’istinto sessuale rende la persona disponibile alla relazione ossia rispecchia nella trascendenza dell’Io nell’Altro, l’immagine e l’amore divino. Cosi almeno nella fede cristiana.
Aver presenti certi presupposti antropologici non può che giovare al paziente che viene trattato con il massimo rispetto e, perché no?, con affetto, come persona umana unica e irripetibile così che la relazione terapeutica guadagna uno spessore esistenziale pieno di responsabilità. Gli stessi valori traspaiono nella moralità e nelle modalità con cui il terapeuta si mette in rapporto con il paziente.
La riflessione antropologica in tema di sessualità umana indica la necessità di un percorso di bonifica preventiva della psicosessualità e soprattutto delle prime relazioni familiari in cui la prole ha bisogno di identificarsi nella diversità sessuale della coppia genitoriale e nel reciproco amore nella diversità per maturare la propria identità di genere coerente con l’identità del sesso.
L’autocommiserazione inconscia
«Alcuni atteggiamenti più o meno specifici dei genitori e in generale i rapporti genitori-fìgli possono predisporre un individuo allo sviluppo di un complesso d’inferiorità sessuale. Tuttavia il fattore che influisce più pesantemente sul comportamento di una persona è la mancanza di adattamento all ‘interno di un gruppo di individui dello stesso sesso. La psicanalisi tradizionale riconduce tulle le nevrosi e le malformazioni emozionali a rapporti disturbati tra genitori e figli; malgrado ciò, senza voler negare la grande importanza che ricopre l’interazione genitori-figli, il fattore determinante è generalmente l’immagine che l’adolescente ha dì sé in termini di identità sessuale, il confronto con i simili dello stesso sesso.
«La paura del sesso opposto è un atteggiamento frequente ma non è la causa principale delle inclinazioni omosessuali. Tale paura è piuttosto un sintomo della presenza di sentimenti di inferiorità sessuale: questi infatti possono essere generati da soggetti del sesso opposto, di fronte ai quali l’omosessuale sente di non poter sostenere quei ruoli sessuali che ci si aspetta»
Gerard van de Aardweg. Una strada per il domani – Guida all’ (auto) terapia dell’omosessualità. Città Nuova. Roma 2004. pp. 17-18.
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