Il Sabato n.28 – 15 Luglio 1989
Solzenicyn analizza le due rivoluzioni. E mette a fuoco un’impressionante somiglianza. Anticipazioni da un saggio inedito
di Irina Alberti
LA rivista Messaggero del movimento cristiano russo, pubblicata a Parigi in lingua russa, nel suo numero 153 presenta un saggio di Aleksandr Solzenicyn intitolato Tratti delle due rivoluzioni. L’autore esamina la Rivoluzione francese, di cui ricorre quest’anno il bicentenario, e la Rivoluzione russa del novembre (o ottobre) 1917.
In realtà, sono appunti di lavoro presi da Solzenicyn nel corso della ricerca svolta mentre procedeva alla stesura dei molti volumi dell’epopea storica La ruota rossa: infatti lo scritto non ha nulla dello slancio appassionato e dell’intricata struttura proprie della saggistica di Solzenicyn.
Ma le osservazioni pacatamente obiettive e distaccate si alternano a squarci di visione intuitiva dai quali traspare l’atteggiamento dello scrittore di fronte all’argomento studiato. «Forse quel che c’è di più importante (nell’esaminare e paragonare le due Rivoluzioni, ndr) è la sensazione che ci troviamo davanti ad una forza incontrollabile e travolgente.
L’uragano che è stato scatenato porta alla distruzione, gradualmente ma ineluttabilmente, tutti coloro che hanno creato le condizioni per il prorompere degli elementi e ne hanno agevolato l’esplosione. E una sensazione ben nota a molti. Fin dall’inizio del lavoro io l’avevo chiaramente percepita e le avevo dato un nome: “La ruota rossa”».
Era probabilmente inevitabile che lo scrittore immerso nello studio della Rivoluzione bolscevica, piuttosto che della sua genesi nella storia russa (questo è, infatti, il vero contenuto dell’epopea La ruota rossa) si rivolgesse alla Rivoluzione francese del 1789 per cercare analogie e differenze. Infatti tale avvenimento era stato sempre preso e citato come modello dai protagonisti del movimento rivoluzionario russo.
Nei suoi appunti di lavoro Solzenicyn nota, infatti, che non bisogna tenere troppo conto delle analogie retoriche, poiché erano quasi sempre volute. Il fatto merita di essere notato semplicemente perché denota un certo orientamento della sinistra rivoluzionaria russa; d’altronde Solzenicyn considera tale orientamento inevitabile per chi a quell’epoca e in quella situazione era fanaticamente posseduto dall’ideale rivoluzionario.
La prima somiglianza fondamentale fra le due Rivoluzioni, infatti, è la loro intrinseca ed assoluta ideologicità. «Ogni rivoluzione trascende inevitabilmente e di molto le frontiere immaginate dagli iniziatori. E’ mossa da un’inerzia di slavina in moto e non può limitarsi ai compiti proclamati in origine».
Ma alla base c’è l’ideologia. Anche se lo scoppio reale del processo rivoluzionario è per lo meno facilitato, se non indotto da circostanze altrettanto reali, comprensibili e giustificabili, esso è sempre preceduto (e così è stato nel caso della Rivoluzione francese come di quella russa) da una lunga maturazione psicologica e filosofica in una determinata direzione. La direzione presa era, scrive Solzenicyn, l’affermazione dell’intrinseca virtù propria dell’uomo, che da questa virtù viene sviato unicamente a causa e ad opera di un ordine sociale sbagliato.
«Senza avere alcuna esperienza pratica e non capendo nulla della gestione di uno Stato, i pensatori di questo tipo di movimento tranciano giudizi sullo Stato, sul diritto e sull’ordine sociale: sono giudizi arbitrari ed astratti, ma pieni di passione. Si respingono e si gettano via tradizioni ed usi considerati un ostacolo per i mutamenti sognati, e ciò facendo non si pensa al pericolo di un terremoto sociale. In Francia (come più tardi in Russia) sono le classi colte ed agiate a farsi portatrici di queste teorie».
Solzenicyn si sofferma a lungo sull’importanza delle tendenze antireligiose nella gestazione della Rivoluzione, tanto in Francia quanto poi in Russia.
In Francia «si parla di anticlericalismo, ma ben presto questo movimento degenera in vero e proprio anticristianesimo e raggiunge una violenza rabbiosa, sempre fra gli intellettuali». Le classi privilegiate, la nobiltà diventano la parte più essenzialmente areligiosa e antireligiosa della società, ed è da questi strati sociali che emana e si propaga la moda dell’anticristianesimo e della miscredenza: una moda alla quale non si può non aderire.
L’ideologia rivoluzionaria è antireligiosa nella sua sostanza, alla radice, dice Solzenicyn, ed infatti offre se stessa al posto della religione.
Proprio a questo è dovuta la crudeltà e l’estrema distruttività della rivoluzione: la guerra è stata dichiarata non all’ordinamento statale, ma insieme ad esso ad ogni principio e legge di natura morale e religiosa. «Non resta più nessuna certezza, nulla su cui poggiare». Le idee immesse nel circuito sono esplosive e gli scopi prefissi sbalordiscono per la loro ampiezza: si tratta di «liberare l’umanità», di trasformare non un Paese, ma il mondo intero.
Il clero francese, ricorda Solzenicyn, entra nella Rivoluzione come una forza all’inizio attiva; non è affatto disposto a frapporsi tra i contadini e la terra che questi vogliono conquistare.
I colpi piovono però sulla Chiesa fin dal primo anno della Rivoluzione; la nazionalizzazione dei beni della Chiesa, la legge sullo Stato civile del clero, l’obbligo del giuramento di fedeltà al nuovo ordine. Su quest’ultima imposizione avviene la scissione del clero e nasce la «chiesa costituzionale», che precorre nel tempo le varie «chiese patriottiche» e «chiese popolari» odierne.
Fra le umiliazioni inflitte a Luigi XVI, Solzenicyn cita l’imposizione di ricevere la comunione dalle mani di un sacerdote che aveva giurato fedeltà allo Stato giacobino.
Intanto lo Stato introduce il nuovo calendario rivoluzionario dal quale sono scomparse le feste religiose e persino la domenica, in quanto ricordo della Resurrezione; è proibito il suono delle campane, che vengono smontate dai campanili e portate via. Le chiese sono derubate, scompaiono crocifissi e calici, si brucia pubblicamente una statua della Madonna venerata dalla popolazione come miracolosa, si abbeverano gli asini dai calici rubati alle chiese…
Ritroveremo questo in misura centuplicata dopo la Rivoluzione d’ottobre in Russia, ricorda Solzenicyn.
In Francia però osserviamo il tentativo di sostituire il cristianesimo con un altro culto; quello dell’Essere Supremo, quello della «dea Ragione», successivamente la «teofilantropia» del Direttorio. Gli edifici delle chiese cattoliche (compresa Notre Dame) vengono ristrutturati e adibiti per tali culti e ai funzionari del nuovo Stato si impone di frequentarli e condurre le famiglie alle cerimonie.
In Unione Sovietica stiamo forse andando oggi in quella direzione. Nei primi decenni della Rivoluzione la lotta contro ogni forma di religiosità era globale, le chiese nella loro totalità votate alla distruzione.
C’è un campo, ricorda Solzenicyn, nel quale i rivoluzionari russi del 1917 hanno copiato apertamente e consapevolmente i giacobini, servendosi della loro fama come di un alibi: è quello del Terrore. È sorprendente osservare la contemporaneità dello scatenarsi del terrore più spietato con i momenti del più grande «fervore rivoluzionario», dell’entusiasmo ed anche della maggiore combattività di forze armate altrimenti in pieno disfacimento.
Si sarebbe creduto, dice Solzenicyn, che i soldati della Rivoluzione dovevano combattere con particolare entusiasmo in un’era di maggiore libertà, ma si verifica il contrario, il che fa pensare che non è tanto un idealismo rivoluzionario che fa muovere gli uomini sotto le armi, quanto la disciplina e la paura.
Solzenicyn nota i princìpi di base del Terrore applicato in Francia, che tornano alla superficie, ampliati: nella Russia dopo l’ottobre del 1917 «le prove (della colpa di un imputato, ndr) non occorrono», basta una denuncia anche anonima per arrestare, processare, condannare.
«L’essenza della Repubblica è nell’annientamento di tutto ciò che le si contrappone», scrive Robespierre a Saint-Just. «Sono colpevoli coloro che non accettano la virtù. Sono colpevoli coloro che non accettano il terrore». Solzenicyn cita altre massime formulate in quell’epoca: «Ogni formalità costituisce un pericolo pubblico. Il tempo usato per punire i nemici della patria non deve superare quello che occorre per scoprirli».
Il principio, osserva Solzenicyn, è stato applicato dai bolscevichi che lo hanno portato alle sue estreme conseguenze. Gli accusati durante la Rivoluzione francese prima perdono il diritto di avere un difensore, poi addirittura quello di sollevare obiezioni contro l’accusa, perché «questo ostacola il corso regolare della seduta».
Solzenicyn sottolinea: è dai giacobini che i bolscevichi hanno preso a prestito il metodo di accusa contro interi strati sociali, contro intere classi. Gli aristocratici e i preti fin dall’inizio sono dichiarati in blocco rei di cospirazione contro il nuovo ordine; le loro famiglie diventano ostaggi. Fioriscono le denunce, richieste ed incoraggiate dal nuovo ordine, che non ha altri mezzi per «scoprire i nemici della patria».
E’ la Rivoluzione francese che per prima ricorre al ricatto della responsabilità collettiva per ogni delitto commesso; Solzenicyn ne vede un esempio clamoroso nel processo inscenato contro Luigi XVI, che tutti furono costretti a sancire affinché nessuno poi si potesse dire innocente.
Una «grande rivoluzione», come quella francese e quella russa, è un processo che dura secoli anche in quei casi in cui il suo sviluppo è ininterrotto, conclude Solzenicyn. E un processo patologico, che scopre abissi neri negli uomini apparentemente più benpensanti. Scopre anche una dimensione della nostra esistenza che non è a livello fisico, materiale o psicologico. Sono ancora pochi a saper discernere questa dimensione anche ai giorni nostri. Soprattutto pochi osano parlarne.