Corriere della Sera – 4 dicembre 2015
di Alfredo Mantovano
(Giudice Corte d’Appello di Roma)
Merita riflessione la questione posta da Angelo Panebianco circa il tratto «timido» dei magistrati nella repressione del terrorismo di matrice islamica. La risposta giudiziaria non è risolutiva, è il tassello di un mosaico, a fianco al lavoro dei servizi, delle forze di polizia, del coordinamento fra Stati: come si è visto a Parigi, agli attentatori basta una smagliatura in uno di questi segmenti per seminare morte.
Leggendo i provvedimenti giudiziari che in Italia si susseguono da oltre un decennio, quanto è adeguata la consapevolezza culturale in senso lato dei giudicanti? Dei giudicanti più che dei requirenti, per i quali la conoscenza del fenomeno si è quasi sempre mostrata puntuale.
Non sono in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura: guai a invocare la preminenza della so stanza su una forma che è garanzia di correttezza. Ma ricordare solo qualche pronuncia fa cogliere il senso del discorso: 8 gennaio 2004, il gip di Napoli rigetta una richiesta di custodia in carcere di indagati accusati di costituzione di una rete a sostegno del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, e più in generale del Gruppo islamico armato, non perché manchino gli indizi, ma perché Gspc e Gia non sarebbero organizzazioni terroristiche; 24 gennaio 2005, il gip di Milano esclude la qualifica terroristica per Ansar al Islam, che sarebbe «solo» una «organizzazione combattente islamica», e quindi respinge la richiesta di arresto di appartenenti a cellule italiane.
Salto ai nostri giorni: lo scorso febbraio il gip di Lecce scarcera perché «profughi» (ma non avevano presentato domanda di asilo) cinque arrestati in possesso di documenti contraffatti e filmati di bombardamenti e di attentati nei cellulari.
Il limite non è l’ignoranza delle norme, ma la non corretta conoscenza della realtà del terrorismo islamico. È come se all’epoca delle Br fossero sorti dubbi sulla loro natura terroristica (qualche iniziale incertezza purtroppo c’è stata); è come se oggi un magistrato che si occupa di mafie ignori la differenza fra camorra e ‘ndrangheta. È un limite che si supera se si prende atto che esiste ed investendo in formazione: lo si fece 30 anni fa, con risultati importanti, per le mafie.
Sorprende che la programmazione per il 2016 della Scuola superiore della magistratura di decine e decine di corsi di formazione ne dedichi uno soltanto al terrorismo; in compenso, i giudici possono accedere a corsi come l’immagine della giustizia nell’arte, nel cinema e nella letteratura o, in sede decentrata, la tutela giuridica del sentimento per l’animale da compagnia e gli altri animali. Ecco, se, come qualcuno ha ricordato, alla prevenzione del terrorismo serve pure la cultura, qualche adeguamento su questo fronte è indispensabile.