Intervento del Sottosegretario all’Interno
on. Alfredo Mantovano
al Convegno internazionale di Magna Carta
– “Le nuove relazioni transatlantiche” –
Lucca, 3 e 4 giugno 2005
Poche settimane dopo l’11 settembre, su iniziativa del Governo, il Parlamento ha adeguato la legislazione italiana sul terrorismo: ha esteso al contrasto a quest’ultimo istituti che avevano dato buoni risultati nella lotta alla criminalità mafiosa, e ha dotato gli investigatori di strumenti più penetranti per individuare le fonti finanziarie degli agenti del terrore. La partecipazione con propri contingenti militari a Enduring freedom in Afghanistan e ad Antica Babilonia in Iraq rappresentano i passaggi più significativi di un impegno rilevante per quantità di uomini impiegati e per qualità di interventi.
Alla luce di ciò, non svolgerò approfondimenti tecnici sulle modalità di intervento negli scenari di crisi, o sugli istituti introdotti nel nostro ordinamento, o su alcune particolari forme di cooperazione. Vorrei invece concentrare l’attenzione sui profili di interesse politico, e prima ancora culturale, e sui principali luoghi comuni che vengono frapposti a una seria strategia di prevenzione e di contrasto del terrorismo di matrice islamica che si trovano ancora in Europa e in Italia nella pubblicistica che affronta la materia, e che rischiano di condizionare le scelte operative.
Luogo comune n. 1: “con questa strategia di lotta al terrorismo non si è più amici degli arabi” – Talora, da parte di chi non condivide la politica del governo italiano contro il terrorismo, si lamenta che l’Italia abbia abbandonato la tradizionale linea di amicizia e di cooperazione con gli Stati arabi, che nel passato l’avrebbe tenuta al riparo dal terrorismo. Questa tesi intanto parte da un presupposto errato: quello secondo cui l’effettiva tolleranza che negli anni 1970 e 1980 in Italia è stata assicurata a personaggi che si muovevano nell’area del terrorismo, soprattutto palestinese, avrebbe tutelato il nostro Paese.
Scorrendo l’elenco degli episodi di terrorismo accaduti in quegli anni, rimasti senza che sia mai stato accertato giudizialmente un responsabile e un movente, si può nutrire più di un dubbio sul rispetto effettivo della polizza assicurativa concordata. Ma le considerazioni più importanti sono altre: anzitutto il carattere globale che oggi ha l’aggressione terroristica, tale da esigere una solidarietà nella risposta, al di fuori di valutazioni di convenienza (che comunque si sono rivelate sbagliate: basta pensare ai rapimenti che sul suolo irakeno hanno interessato cittadini francesi).
A fianco a questo, va ricordato che nel 1970 il terrorismo aveva sì una matrice araba, ma laico-nazionalista e non ultrafondamentalista: il che poteva far ipotizzare, pur se era moralmente e politicamente censurabile, tentativi di accordo con il capo banda di turno. La configurazione attuale del terrorismo vede dominare la componente religiosa: non cogliere questo aspetto, ipotizzare soggettive deviazioni di una religiosità altrimenti moderata significa condannarsi all’incomprensione.
Porto un esempio fra i più significativi: lo shaid reclutato da Hamas; costui, dopo essere stato selezionato con criteri religiosi, si prepara all’attentato seguendo veri e propri “esercizi spirituali” fatti di digiuni, di preghiere notturne, di letture del Corano alternate all’ascolto di lunghi sermoni; nella settimana che precede il suicidio è affidato alla cura di due assistenti che lo affiancano e che gli annunciano l’imminente incontro con il profeta Muhammad. Il giorno dell’attentato, “il candidato al martirio compie le abluzioni rituali, indossa abiti puliti, visita una moschea (…). Recita l’antica preghiera delle armate musulmane prima della battaglia. Mette un Corano nella sua tasca destra, sul cuore, indossa la cintura esplosiva” (1)
Come nell’Islam manca una struttura gerarchica, non vi è un Pontefice chiamato a dire la parola risolutiva, e nessuno può arrogarsi il diritto di definire chi è dentro e chi è fuori dall’ortodossia, così le aggregazioni terroristiche che si richiamano all’Islam non appartengono sempre e necessariamente a una o più strutture centralizzate, bensì vanno a costituire un network di cellule ciascuna delle quali ha autonomia operativa.
Dunque, il tentativo di combine con chi si presenta come il capo di taluna di esse non fornisce alcuna garanzia in termini di tranquillità. Il che non vuol dire che questa o quella struttura non possano raggiungere fra di loro un raccordo operativo per realizzare azioni coordinate e contestuali. Significa che nessuno può ritenersi tutelato: cittadini francesi sono stati sequestrati con la richiesta – per ottenerne il rilascio – di revocare una legge approvata dal Parlamento di Parigi, nonostante Hamas, Moqtada al Sadr, Jihad islamico, Hezbollah e perfino Carlos, dalla sua cella, non fossero d’accordo, e anzi avessero, subito dopo il fatto, chiesto all’Esercito islamico in Iraq, autore del sequestro, di tornare sui propri passi.
La parcellizzazione è tale che atti terroristici potenzialmente idonei a provocare esiti gravi sono messi in opera anche da singoli individui, al di fuori di qualsiasi pianificazione. Il 28 marzo 2004 Mostafa Chaouki, cittadino del Marocco, ha caricato sulla sua autovettura quattro bombole da cucina piene di gas e si è diretto verso un McDonald’s alle porte di Brescia. Ha parcheggiato nelle vicinanze del cestello dei contenitori di anidride carbonica del ristorante, in quel momento molto affollato – era una domenica sera – e ha cercato di farsi esplodere.
Provvidenzialmente qualcosa non ha funzionato, la vettura si è incendiata, sono intervenuti con prontezza i vigili del fuoco che si trovavano nelle vicinanze, e hanno impedito quella che avrebbe potuto essere una strage; l’unica vittima è stato lo stesso Chaouki, che qualche ora prima aveva spedito alla Questura di Brescia una lettera con cui, “in nome di Allah, il compassionevole, il misericordioso”, aveva rivendicato l’attentato, precisando di non avere nulla a che fare con Al Qaeda e che la ragione del suo gesto era punire Berlusconi per la presenza di soldati italiani in Iraq (2).
Questo, come altri analoghi episodi, non sono “dei casi singoli”, bensì “il sintomo di una realtà diffusa (che) impone a tutti la comprensione della specificità di questo terrorismo globalizzato che è al contempo di gruppo o singolo” (3). Se questo è uno degli aspetti della realtà del terrorismo attuale, quale accordo, e con chi, può tutelare e prevenire tale tipologia di attentati?
Luogo comune n. 2: “c’è il terrorismo perché c’è la miseria” – Il terrorismo nascerebbe dalla povertà e dalla oppressione che l’Occidente, e in particolare gli USA, esercitano sui popoli del Terzo e del Quarto mondo. In quest’ottica, l’opzione militare come risposta al terrorismo è sbagliata, o nella migliore delle ipotesi è insufficiente. La realtà ci dice invece che il comune denominatore di chi ha seminato e semina morte e terrore a Bagdad, a Gerusalemme, ad Ankara, a Casablanca, a Bali, a Beslan, a New York, a Madrid… è l’appartenenza all’ultrafondamentalismo islamico; il profilo medio degli attentatori dell’11 settembre non è quello di disperati privi di tutto, bensì di persone provenienti dal ceto medio, istruite, in taluni casi benestanti. E il terrorismo di matrice islamica gode di sostegni economici consistenti, in network finanziari che affiancano e riforniscono le cellule attentatrici (4).
Gli shaid di Hamas non reagiscono a condizioni di sfruttamento o di miseria, non contrattano il loro sacrificio in cambio di denaro da corrispondere ai familiari che restano in vita: obbediscono a quello che sono convinti (o sono stati convinti) essere il percorso privilegiato per giungere alla presenza di Allah. I loro genitori – è un dato terribile, e al tempo stesso significativo – danno il consenso al suicidio: è una delle condizioni perché il candidato al “martirio” sia selezionato; quale povertà può mai spingere un padre o una madre a gioire pubblicamente perché il proprio ragazzo si è fatto esplodere? Eppure interviste contenenti queste affermazioni sono trasmesse con frequenza dalla rete televisiva dell’Autorità nazionale palestinese (5).
E, per finire, a proposito di oppressione occidentale cui reagirebbe il terrorismo, a quale ingerenza e a quale sfruttamento americani, o israeliani, o di loro alleati, risponde il terrorismo islamico che da anni opera tragicamente in Algeria? Un terrorismo che vede protagonisti musulmani contro musulmani, e che finora ha provocato sul suolo algerino un numero di vittime superiore alla somma delle vittime di attentati attribuiti a cellule islamiche nel resto del mondo.
Luogo comune n. 3: esiste il terrorismo perché è stato teorizzato e praticato lo scontro di civiltà – Quest’ultimo è un aspetto essenziale. Si dice, infatti, proseguendo nei luoghi comuni, che la guerra al terrorismo è stata impostata da chi l’ha messa in opera come una inammissibile guerra di civiltà. La realtà è che il conflitto è in atto soprattutto dentro il mondo islamico, pur se ha riflessi pesanti sugli scenari americano ed europeo.
E’ una guerra che non conosce confini, perché non esiste territorio al mondo che non ne sia stato o che non possa esserne interessato, e perché è in grado di sovrapporsi a conflitti locali, mescolando ispirazioni fondamentaliste a rivendicazioni nazionalistiche. In tal senso, è una guerra che ha dimensioni mondiali, più della Prima e della Seconda guerra mondiale: tenendo conto della Guerra fredda, anch’essa originariamente europea, merita la definizione di Quarta guerra mondiale, purché al termine “guerra” si conferisca una accezione diversa da quella tradizionale. Il suo connotato qualificante è però che, a differenza delle tre precedenti guerre mondiali, non parte dall’Europa, ma dall’interno dell’Islam, e da lì si diffonde nel mondo.
I numerosi conflitti interni all’Islam non sono soltanto, genericamente, tra estremisti e moderati; coinvolgono conservatori, moderati e fondamentalisti, ma ci sono pure fra nazionalisti, tradizionalisti e ultrafondamentalisti; le ragioni di contrasto includono il modo di intendere e di applicare la shari’a, se in un senso rigoroso e letterale, ovvero come fonte dalla quale trarre ispirazione ideale.
Ma contrasti esistono anche nell’area degli ultrafondamentalisti che ricorrono al terrorismo, fra chi privilegia la dimensione territoriale, e quindi, innestandosi nella tradizione della difesa dei confini del dar al Islam, punta a un jihad che anzitutto liberi i Paesi a maggioranza islamica dalla presenza occidentale, e quella di chi invece punta sul jihad globale e senza confini: è ciò che divide in questo momento al Zarkawi e bin Laden riecheggiando, mutatis mutandis, la dialettica interna al mondo comunista di 80 anni fa, fra i sostenitori del rafforzamento del comunismo in uno Stato guida e i sostenitori della linea internazionalista.
Se tale è il quadro, quale è la ragione degli attentati contro obiettivi presenti in Europa o negli USA? La ragione è quella di indurre i singoli Stati occidentali a indebolire il legame con quel mondo islamico conservatore con il quale si è alleati o con il quale si possono consolidare legami di amicizia: si colpisce Madrid perché attenui il suo rapporto con il Governo del Marocco, poco rigoroso nell’applicazione della shari’a e poco disponibile al progetto di ricomposizione della ‘umma; si punta all’Italia, minacciando attentati sul suo territorio e realizzandoli contro il contingente militare a Nassirija, perché si allontani dall’Iraq.
Lo ha sintetizzato bene il re Abdallah di Giordania: “Non legherei il problema (degli attentati terroristici) alla presenza o meno di soldati in Iraq. Direi che questo è solo una parte di un quadro più ampio, legato a una lotta interna all’Islam, con gli estremisti che cercano di creare conflitti fra Est e Ovest e guerre interreligiose. Il loro obiettivo non è la distruzione dell’Occidente, ma la distruzione dell’Islam moderato, per prendere il potere. L’Europa quindi è un obiettivo secondario: indebolendola, si vuole condizionare il futuro del mondo musulmano all’interno della comunità internazionale” (6)
Una volta che il sostegno occidentale venisse meno, sarebbe più agevole vincere le resistenze infraislamiche alla ricostituzione del califfato. Senza trascurare che gli attentati più devastanti riguardano contesti a maggioranza musulmana, contesti arabi o orientali, a cominciare dalla Turchia, che, nella prospettiva ultrafondamentalista, è l’esempio negativo per eccellenza: un governo islamico democraticamente eletto e alleato dell’Occidente; per arrivare, passando per Algeria, Marocco, Egitto, fino a quell’Arabia i cui governanti wahabiti sembravano vicini agli ultrafondamentalisti, e da qualche mese cominciano a patire attacchi e a organizzare una reazione.
Luogo comune n. 4: l’assenza di risultati – Il luogo comune più diffuso è quello secondo cui negli anni seguenti all’11 settembre l’opzione delle armi, la risposta militare e di polizia, non ha conseguito alcun risultato, e anzi ha provocato risentimenti e fatto crescere gli odi, giunti al culmine a seguito dell’intervento in Iraq. Anche questa affermazione non è accompagnata da elementi oggettivi a sostegno; il confronto fra la situazione esistente nel 2001 e quella attuale permette di affermare che dei passi in avanti sono stati compiuti, e di importanza non marginale.
“All’inizio del 2001 gli ultra-fondamentalisti consideravano veramente islamici solo due Stati: il Sudan e l’Afghanistan, con qualche dubbio sull’Iran (…). Controllavano di fatto zone dell’Algeria e del Pakistan. Godevano inoltre di un certo sostegno di “Stati canaglia”(…): la Libia, la Siria, l’Irak. Dopo l’11 settembre la situazione è cambiata. In Afghanistan c’è un governo islamico conservatore amico dell’Occidente. In Sudan il governo militare ha rotto con i fondamentalisti e riallacciato i rapporti con i Stati Uniti. In Irak la situazione è quella che è, ma Saddam Hussein non c’è più e i terroristi feriti altrove non possono più farsi curare (come facevano fino al 2002) negli ospedali di Bagdad. La Libia ha fiutato l’aria e cambiato bandiera in modo spettacolare. (…) In Algeria i terroristi controllano solo non più di tre o quattro oasi, e in Pakistan le remote vallate dove si nascondevano i capi di Al Qaida sono circondate (…) da ingenti forze americane. Non c’è un solo Stato dove gli ultra-fondamentalisti siano più vicini al potere di quanto lo fossero nel 2001. (…) il terrorismo sta perdendo, in tutto il mondo islamico” (7)
Alla luce dei risultati ottenuti, e avendo consapevolezza che l’aggressione del terrorismo islamico durerà, e durerà parecchio, è indispensabile affiancare alla corretta comprensione del fenomeno la coscienza che questa guerra, come e più di ogni guerra, ha dei costi ed esige compattezza. Tanto per cominciare, non può e non deve derogare dalla regola, ovvia nella enunciazione, meno ovvia nell’applicazione, che il terrorismo si combatte individuando, arrestando, processando e condannando i terroristi; andandoli a cercare, come è stato fatto e viene in Afghanistan, e quindi in Iraq, nelle loro basi di addestramento e di indottrinamento; bloccando le loro fonti di finanziamento; scoraggiando qualsiasi appoggio istituzionale, anche indiretto.
Quando – lo ha fatto di recente il presidente del Senato Marcello Pera (8)- si parla di unità della comunità internazionale, simile a quella che ha riguardato singoli Paesi interessati in passato da altri fenomeni terroristici, come avvenne in Italia all’epoca delle Brigate rosse, si dice qualcosa di profondamente giusto. Unità vuol dire che il singolo Stato si considera direttamente interessato da un attentato, o da un rapimento, che riguardi cittadini di un altro Stato, e presta ogni possibile collaborazione per prevenirlo o, una volta accaduto, per scoprire i responsabili.
Anche perché i terroristi, pur adoperando mezzi con ragione ritenuti folli dalla gente comune, non sono dei pazzi. Adeguano la loro azione, secondo il consueto confronto fra costi e benefici, al tipo di reazione che incontrano: se il rapimento di cittadini filippini fa decidere il rientro dall’Iraq del contingente militare di Manila, il risultato politico è ottenuto, e spinge a provare iniziative analoghe nei confronti di cittadini di altri Paesi.
Se un attentato devastante come quello della stazione Atocha di Madrid è in grado di condizionare l’esito del voto per il rinnovo del Parlamento spagnolo e di far vincere chi aveva assicurato il ritiro delle truppe da Bagdad, ciò costituisce, al di là delle intenzioni di Zapatero, un incentivo a riprovarci in altri scenari: e in Spagna il salto di qualità è stato considerevole, perché per la prima volta in una nazione europea il terrorismo ha preso parte, a suo modo, alla campagna elettorale, sostituendo la scheda con l’esplosivo, e ha conseguito l’obiettivo.
Ricordo in proposito lo studio pubblicato nel numero di settembre 2004 della rivista americana Commentary – tradotto in italiano e comparso a puntate su il Foglio (9) – Norman Podhoretz, esponente di punta dei neocon, dopo esserlo stato della sinistra newyorkese (10), nel quale si dimostra come , dalla fine degli anni 1970, in Iran, in Libano, in Somalia, il terrorismo islamico aveva saggiato il “nemico”; l’11 settembre 2001 lo ha colpito, convinto di poterlo fare, a coronamento di una strategia che ha una sua logica, pur se criminale.
Ritenere che la fuga o il disinteresse rispetto a un contesto geografico, sia esso distante o vicino, sia utile a predisporre un salvacondotto o a garantire l’immunità dagli attentati è stato ed è costantemente smentito dai fatti. Fermo qui la presentazione, ringraziandovi per l’attenzione, essendo pronto a riprendere e ad approfondire singoli spunti nel seguito.