L’evasione dal lager sovietico e poi seimila chilometri a piedi attraverso il deserto e le nevi dell’Himalaya. Sette uomini in marcia verso casa. Il luogo dove ognuno sarà perdonato
di Ubaldo Casotto
L’evasione dal lager sovietico e poi seimila chilometri a piedi attraverso il deserto e le nevi dell’Himalaya. Sette uomini in marcia verso casa. Il luogo dove ognuno sarà perdonato. The Way Back, la via del ritorno, è un bel film. Quindi, quando il 7 luglio prossimo uscirà nelle sale italiane, andatelo a vedere. Merita per il regista, l’australiano Peter Weir che ha interrotto un silenzio lungo sette anni per girare questa storia (il suo ultimo film è stato Master and Commander del 2003).
Merita per il cast: il britannico Jim Sturgess, protagonista di Across the Universe (il musical del 2007 ispirato alle canzoni dei Beatles); Colin Farrell, Ed Harris e Saoirse Ronan, la giovane attrice prodigio di Hanna e Amabili resti.
Merita per la storia che racconta: la fuga di sette persone da un gulag siberiano nel 1941 e la lunga marcia (6.500 chilometri) sino in India, superando la taiga russa, il deserto del Gobi in Mongolia e l’Himalaya. Ai sette durante la fuga si unisce una donna.
Questa fuga per la libertà è tratta da un romanzo, The Long Walk (pubblicato in Italia da Corbaccio col titolo Tra noi e la libertà), scritto dal polacco Slawomir Rawicz. La storia è presentata come autobiografica, un giornalista inglese vi ha però visto delle incongruenze, ha iniziato a indagare e ritiene di aver scoperto il vero protagonista: Witold Glinski, un altro reduce della Seconda guerra mondiale che gli ha ripetuto esattamente gli stessi fatti descritti da Rawicz nel libro e ha accusato l’autore, a cui dice di aver raccontato le proprie peripezie, di essersi appropriato indebitamente della sua vita.
Slawomir Rawicz non ha potuto rispondere, era morto due anni prima, nel 2004. La storia, dunque, è vera, cambierebbe, forse, il nome del protagonista; il che, ai fini della bellezza del film, interessa meno di zero.
Perché The Way Back non è solo un altro film sulla libertà, sugli orrori (mai abbastanza denunciati) dei gulag sovietici, The Way Back è un film sul perdono.
Un imprevisto di nome Irena
Per capire che cosa sia l’uomo, bisogna perdonarlo. Per capire se stessi, bisogna perdonarsi. Per perdonarsi e perdonarci ci vuole qualcuno che entri non previsto, all’inizio addirittura rifiutato, nella nostra vita e rompa l’estraneità degli uni verso gli altri e di ognuno verso se stesso.
L’imprevisto, in questa storia, è una giovane polacca di nome Irena. Vi dico subito che muore, d’altronde una scritta iniziale avverte che solo tre uomini arrivarono in India nel 1941, e che più volte le immagini che la riguardano sono citazioni evangeliche. Ma procediamo con ordine.
1940, Polonia, un giovane tenente dell’esercito polacco (Janusz/Jim Sturgess) viene accusato di spionaggio e sabotaggio dai “liberatori” sovietici, si rifiuta di firmare l’atto di autodenuncia ma viene condannato a vent’anni di lavori forzati grazie alla deposizione estorta alla moglie sotto tortura. Finisce in un campo siberiano a cinquecento chilometri a nord del lago Baikal, “tradito” dalla donna della sua vita.
L’accoglienza nel campo per i “nemici del popolo” (a distanza di anni è, forse, finalmente evidente l’assurdità di questa accusa che a molti invece allora sembrava normale nella sua atrocità) è disperante: «La vostra prigione – dice il comandante del gulag – è la Siberia stessa con i suoi tredici milioni di chilometri quadrati, i vostri guardiani non sono i nostri fucili ma la natura. Se sopravviverete alla Siberia non sopravviverete ai suoi abitanti che paghiamo profumatamente perché ci riconsegnino i fuggiaschi».
La speranza va uccisa a colpi di malvagità. Il messaggio è chiaro: tutto è contro di voi, la natura cattiva e la cupidigia degli uomini. La brutalità della vita del campo, dove spesso i prigionieri sono più violenti degli aguzzini, fa il resto.
«Aspettavo uno come te»
Ma il cuore si ribella, non solo di fronte ai soprusi, soprattutto non accetta di cedere alla disperazione. E a dispetto alle guardie che non considerano più quegli uomini come esseri viventi – «Alzatevi, morti! Alzatevi!» – un prigioniero coglie la diversità di Janusz: «Ho aspettato a lungo uno come te, uno con la capacità di vedere oltre», dice l’americano (Ed Harris) – «Smith, il mio cognome è Smith». «E il nome?». «Mister». «Mister Smith?». «Sì, Mister Smith» – al giovane tenente polacco. Insieme progettano la fuga.
A loro si uniscono un assassino russo (Valka/Colin Farrell), un polacco che soffre di cecità notturna (Kazik), un sacerdote lettone (Voss), un ragioniere jugoslavo (Zoran) e un ragazzo (Tomasz) che arrotonda in cibo e vestiti disegnando immagini erotiche per i detenuti del gulag.
Conniventi ma non amici, dei sette nessuno si confida con l’altro. E in fondo nemmeno se ne fida. Il criminale russo viene tenuto d’occhio perché tutti sospettano di lui anche se si è offerto come guardia del corpo di Janusz per quel tipo di lealtà e riconoscenza che fa da codice d’onore dei malavitosi. Il prete lettone nasconde un segreto e anche di lui si diffida: «Tu dici troppe preghiere per essere un uomo innocente».
L’americano nasconde la sua identità e si unisce a Janusz con un argomento molto utilitaristico e nello stesso tempo di grande acume umano: «Hai una debolezza che potrà tornarmi utile, la tua bontà. So che se sarò in difficoltà mi aiuterai».
Irena, la giovane polacca orfana di entrambi i genitori, supera le resistenze di quegli uomini duri che la considerano un problema in più, nel migliore dei casi un peso che li rallenta e un’altra bocca da sfamare, e riesce farsi accettare raccontando una storia falsa; Mister Smith non la beve e la minaccia: «Tutti noi abbiamo fatto cose terribili per sopravvivere, ma non mentirmi mai più. Siamo stanchi di bugie».
Dopo l’iniziale rifiuto, sarà lei l’elemento coagulante del gruppo; gli uomini non parlano di sé tra loro, ma si confidano con lei, che li fa diventare amici informando delle rispettive vite tutti gli altri.
Diventa il centro affettivo di quel manipolo di fuggiaschi e muore nel deserto del Gobi, con il volto sfatto dalle piaghe del sole eppure mai così bello, circondata dallo sguardo dei suoi compagni di cammino (superata la frontiera con la Mongolia la loro marcia non è più solo una fuga).
La sua agonia è scandita da quattro citazioni che l’assimilano senza forzature al Gesù della passione: una singolare lavanda dei piedi feriti di Mister Smith, due cadute nel deserto con in testa un cappello/parasole fatto di rametti che sembra una corona di spine e sulle spalle un ramo/ombrello che ricorda una croce, e infine un’immagine della pietà a parti rovesciate con lei tenuta in grembo da Voss.
Non può finire con un tradimento
Dopo la sua morte Janusz affronterà Mister Smith, ormai allo stremo delle forze e deciso a mollare, a lasciarsi morire. Ricostruisco a memoria il dialogo tra i due.
– Te l’ha detto Irena.
– Sì.
– E ora vuoi incitarmi a desiderare la vita, ma io non mi perdonerò mai di aver portato mio figlio in Russia, dove me l’hanno ucciso.
– Perché?
– Aveva fatto nei miei confronti la stessa cosa che tua moglie ha fatto a te. L’hanno torturato, mi ha accusato e poi gli hanno sparato. Ora non ho più voglia di vivere.
– Potevi ammazzarti nel gulag.
– Sopravvivere era il mio modo di punirmi. Ora basta.
– Io invece devo tornare da mia moglie.
La vita non può finire con un tradimento. È questo, più che il pensiero, il desiderio, l’esigenza che lo fa andare avanti indomito attraverso l’arsura del deserto mongolo e poi sulle nevi del tetto del mondo. «Tu cosa farai?», chiedono al prete lettone. «Io combatterò prima contro i tedeschi e poi contro i russi… e morirò combattendo». «E tu Janusz?». «Io andrò avanti e basta, continuerò a camminare».
The Way Back, la vita – come ha detto Benedetto XVI a un bambino che gli chiedeva come si immaginava il Paradiso – è un ritorno a casa.