dal sito Il Cammino dei Tre Sentieri
4 Settembre 2019
Il beato Contardo Ferrini (1859-1902), già da giovane, si recava a Messa ogni mattina. Lo accompagnava un suo fratellino. Un giorno, dopo la Messa celebrata da un sacerdote ottantenne, il piccolo chiese a Contardo: “Come mai un sacerdote così vecchio dice: ‘ad Deum qui laetificat juventutem meam?”. Il beato Contardo, battendo la mano sulla spalla del fratellino, rispose: “Devi sapere, caro Giovannino, che chi è in grazia di Dio è sempre giovane!”
Pochi ci fanno caso, ma la frase che nel Rito Romano Antico si ripete più volte prima della salita all’altare da parte del sacerdote, collocata in quello spazio e in quei momenti, è un inno di tale speranza che segna una vera e propria “sconfitta del tempo”.
Prima di tutto diciamo che cosa deve intendersi per “sconfitta del tempo”. Non certo la sua dissoluzione. Il tempo non può sparire; né tantomeno può essere cancellato. Nemmeno Dio può farlo; tant’è che ciò che accaduto è accaduto e Dio può riaggiustare, ma non cancellare l’accaduto. Piuttosto “sconfiggere il tempo” vuol dire “risolverlo”. Dove? Nell’eterno.
Il tempo si risolve nell’eterno allorquando si vive di Dio, si è nelle sue braccia, ci si orienta a Lui. Nel Paradiso il tempo c’è e non c’è. C’è in quanto ciò che si vive è l’esito di quello che si è compiuto nel tempo, delle scelte fatte; ma non c’è in quanto tutto è definito, concluso nella gioia eterna che mai terminerà.
Salire all’altare della Messa, la quale è il centro di tutto, il centro dell’universo intero e della storia, vuol dire salire verso l’Eterno dove non c’è più il disagio della condizione temporale. Dove non c’è la vecchiaia. Ecco perché l’anziano sacerdote del beato Ferrini, malgrado i suoi ottant’anni (forse –chissà- anche portati male) può dire: “…a Dio che letifica la mia gioventù!”
Strano. Il Rito tradizionale della Messa ha una sua austerità, non sono ammesse musichette ritmate ed effimere. Nel Nuovo Rito è invece entrato di tutto: canti e stornelli. Si sarebbe portati a pensare che allora da una parte ci sia la triste austerità, dall’altra la letizia. E invece è proprio il contrario. Da una parte c’è la serietà del sacro; dall’altra la possibile banalizzazione del sacro.
La serietà del sacro risolve il profano: non lo annulla, ma lo sublima. La banalizzazione del sacro, invece, si fa sopraffare dal profano, fino a farlo divenire il vero “protagonista”. Da qui la vittoria del tempo sull’eterno, e quindi la tristezza che tutto questo comporta. E’ il mondo che trionfa con i suoi fallimenti.
Ed ecco perché il Rito Tradizionale è intriso della gioia cristiana: la drammaticità della Croce risolve tutto. Invece il Nuovo Rito è profondamente triste e, con chitarre e tamburi, sembra dire all’uomo di affidarsi al mondo con i suoi maldestri rumori e sciocche musichette, piuttosto che a Colui che ha vinto il mondo e ai suoi melodiosi silenzi.