Tienanmen la ferita sanguina ancora

tienanmenMondo e Missione n.6 giugno-luglio 2009

Wuer Kaixi era uno dei leader della protesta studentesca repressa nel sangue dai militari. Lo abbiamo incontrato a Taiwan, dove vive in esilio

di Ilaria Maria Sala

Wuer Kaixi oggi ha 41 anni: vent’anni fa, insieme agli studenti Wang Dan e Chai Ling. era uno dei tre leader più importanti delle proteste che coinvolsero dapprima Pechino e poi il Paese intero e vennero schiacciate nel sangue dall’esercito cinese nel giugno 1989.

Wuer è di etnia uigura (un popolo di otto milioni di persone originario del vasto Xinjiang. la parte di Asia Centrale sotto dominio cinese), considerato come una «minoranza etnica» nella propria terra. Gli uiguri seguono una forma sufi dell’islam, hanno un aspetto occidentale e parlano una lingua strettamente collegata al turco. In uiguro, Wuer Kaixi si chiama infatti Urkesh Devlet. Nelle settimane successive al massacro, scappò dapprima in Francia, dove ha cofondato la Federazione per una Cina democratica, e poi negli Stati Uniti, dove ha proseguito gli studi. Lo abbiamo intervistato a Taiwan, dove vive oggi in esilio con la moglie e i due figli, e dove lavora nei media.

Pensando oggi a quello che è successo vent’anni fa, proteste di piazza che coinvolsero milioni di persone in tutta la Cina ma che finirono in modo così tragico, che tipo di pensieri ti vengono?

Credo che sia stato un momento cruciale nella storia della Cina: un risveglio. Ha avuto un enorme impatto su quello che è successo da allora in poi in Cina. Non dobbiamo dimenticare che fra le richieste degli studenti c’erano la libertà di espressione e la libertà di assemblea, nonché il riconoscimento del diritto alla proprietà privata. Se guardiamo alla Cina oggi, possiamo dire che le nostre richieste politiche non sono state accolte, mentre quelle di natura economica sì. Un’altra richiesta importante che veniva da noi, studenti di Tiananmen, era quella che il Partito si ritirasse dalla vita privata delle persone. Oggi questo è finito: le persone possono scegliere il lavoro, dove vogliono abitare, con chi sposarsi…

Non si può, però, dire che abbiate ottenuto tutto quanto chiedevate…

No, ma i passi avanti registrati sono importanti e hanno le loro radici nel nostro movimento. Subito dopo il massacro, dal 1989 al 1992, il governo cinese aveva trasformato il Paese in uno Stato di polizia. Ha deciso di fare un pessimo accordo con la popolazione: in cambio della libertà politica, che non concediamo, siamo disposti a darvi libertà economica. Lo chiamo un pessimo accordo, perché la verità è che entrambi i tipi di libertà appartengono di diritto al popolo cinese. Ugualmente, il popolo cinese lo ha accertato; da allora non ci sono state altre proteste politiche significative.

Cosa pensi oggi di quello che avvenne quella notte e nei giorni seguenti? Che ricordi ne hai?

È stato un atto inumano, portato avanti dal governo cinese contro il popolo cinese. Non ci sono altre parole per descriverlo. È stato un massacro: come tutti i criminali nascondono il loro crimine, così il governo cinese vuole nascondere l’evidenza di quello che ha perpetrato. Come ogni governo totalitario, le autorità fanno il possibile per controllare la libertà di espressione delle persone Ogni accenno alla verità è per loro una minaccia diretta allo Stato e alla loro legittimità. Per questo la censura è così forte.

Ma oggi le cose sono meno facili per loro: c’è Internet, e i media dall’esterno sono molto più accessibili di prima. Noi dissidenti, ma anche moltissimi cinesi non particolarmente politicizzati, cerchiamo di spezzare la censura. Arriverà il momento in cui i cinesi sapranno davvero la verità su quello che è successo. Perché nessuno può bloccare la verità in eterno.

Parlando di quello che ha visto prima di scappare, però, Wuer Kaixi esita, ha la voce che trema, e ricorda con dolore percettibile, fermandosi in fretta.

I proiettili erano dappertutto… ll sangue era molto reale, anche la paura e la rabbia delle persone. I carri armati… enormi. Era terribile, atroce.

Come sei uscito dalla Cina?

Non posso rivelare tutti i dettagli, dato che potrei ancora mettere nei guai alcune delle persone che mi hanno aiutato. Sono stato uno degli studenti tirati fuori dal Paese tramite quella che è stata definita l’operazione «Uccello Giallo», che ha beneficiato di una rete fra nostri sostenitori all’interno, uomini d’affari di Hong Kong e pure alcuni contrabbandieri abituati a far entrare ed uscire dalla Cina prodotti illegali. Non saprò mai se era vero, o solo una voce, ma in tanti mi hanno detto che l’ordine era di arrestare Cha Ling e Wang Dan, ma di «uccidere lo uiguro». Arrivato a Hong Kong, sono partito per l’Europa.

Riesci dall’esterno, a mantenere il contatto con la Cina, con la tua famiglia?

Oggi è più facile: esistono mezzi quali Skype o l’e-mail; posso telefonare, cerco di fare del mio meglio per comunicare con l’interno. Ma è difficile: avevo aperto un blog, che però è stato censurato, ne ho aperto un altro, e anche quello è bloccato in Cina. Sono vent’anni che non posso vedere i miei genitori. Abitano a Urumuqi (capoluogo dell’enorme regione del Xinjiang – ndr), ma la mia famiglia è l’unica a cui non è stato dato il permesso di viaggiare fuori dalla Cina, mentre le famiglie di altri dissidenti sono riuscite ad andare a trovare i loro cari scappati. Forse per il fatto di essere uiguri.

Vorresti tornare in Cina?

Certo che sì! Con altri dissidenti in esilio del movimento del 1989, abbiamo lanciato un appello al governo, chiedendo che ci faccia tornare a casa, e contiamo di rilanciarlo di nuovo quest’anno, con forza, In passato ci sono state persone che mi hanno avvicinato proponendomi di scendere a patti per poter tornare in Cina, ma a condizioni inaccettabili: vogliono che io denunci pubblicamente il movimento del 1989, e che dia informazioni su alcune persone legate a quei tempi. Questo non posso farlo. Non posso tradire la fiducia altrui. Certo che voglio tornare in Cina. Ma posso farlo solo mantenendo intatta la mia dignità e la mia libertà.

Pensandoci oggi, rifaresti quello che hai fatto venti anni fa?

Non mi pento di quello che ho fatto. Sono fiero di essere stato parte di un evento storico così importante. Però… se avessi saputo il risultato, se avessi potuto immaginare prima della repressione che il governo avrebbe sparso così tanto sangue, allora no, avrei fatto tutto il possibile per evitarlo. E se non fossi stato sicuro di poter evitare lo spargimento di sangue, allora, no, non avrei fatto nulla di quello che ho fatto.

Cosa pensi dei giovani cinesi di Oggi, cosi nazionalisti, pronti a manifestare per attaccare l’Occidente, ma non per criticare il governo?

I leader attuali, il presidente Hu Jintao e il primo ministro Wen Jiabao, i più noiosi leader che la Cina abbia mai avuto, hanno solo ereditato il loro potere, da Jiang Zemin: non sono né combattenti rivoluzionari, né sono stati eletti. Nemmeno possono attribuirsi il successo economico nazionale. L’unica cosa che rimane loro per ammantarsi di legittimità è quella di sventolare la bandiera del nazionalismo. È davvero un peccato che questo abbia così tanto successo fra alcuni giovani, i quali sembrano credere davvero che ci sia un nemico esterno al Paese e se la prendono con negozi francesi come Carrefour o fast food americani come KFC È disdicevole, ma è incoraggiato dall’alto.

Credo che l’irrazionalità sia spesso una malattia della società, anche nelle democrazie: la differenza è che una democrazia ha in sé i meccanismi per correggersi, una volta che gli elettori subiscono le conseguenze di scelte sbagliate. Un governo totalitario non ha modo di correggersi. Ma ho l’impressione che un po’ il nazionalismo sia contrastato oggi da voci più razionali; quando leggo quello che viene messo sulle chat room cinesi, ho l’impressione che ci siano più persone che criticano questo nazionalismo virulento, e mi sembra un segnale positivo.

Molte persone, sia in Cina che fuori, oggi criticano il vostro movimento, dicendo che eravate irresponsabili e ingenui, che avete portato il caos per le strade di Pechino, e che la democrazia sarebbe un errore per la Cina.

Ascolto con umiltà chi ci dice che abbiamo fatto errori e ci incoraggia a riflettere. Ma molti critici non sono in buona fede, vogliono gettarci fango addosso, incolpano noi anziché coloro che ci hanno sparato addosso. Che alcuni in Cina siano spaventati dalla democrazia è comprensibile perché hanno conosciuto la devastazione della Rivoluzione Culturale e temono il caos. Lo sbaglio che fanno è quello di credere che la democrazia sfoci fatalmente nel caos… Le democrazie possono essere rumorose, ma non caotiche. Guardate Taiwan! L’opposizione fa il suo mestiere (criticare e proporre alternative), chi è al potere difende le sue scelte, i media criticano o approvano in modo rumoroso, a seconda del loro orientamento. Ciò dimostra che non c’è niente nella cultura cinese che rende impossibile un regime democratico cinese.

* * *

Per saperne di più

 Prisoner of the State:The secret Journal of Zhao Ziyang, Simon & Schuster (maggio 2009), p. 336.

A. J. Nathan e P. Link (a cura di), Tienanmen. Pechino 1989; i documenti segreti, Rizzoli 2001 (disponibile nella biblioteca Pime)

Cina oggi, luglio 1989, suppl. al n. 53 di Asia News, pp. 33-64

Sito dell’Associazione Madri di Tiananmen (in inglese e cinese): www.tiananrnenrnother.org

J. Hung, Cina, i dissidenti giocano la Charta, M.M. aprile 09, pp. 6-10

————————————-

UNA DATA MALEDETTA ANCORA OGGI 6.4 È TABÙ

Il nono anno di ogni decade, nella Cina contemporanea, è un momento delicato, ricco di anniversari potenzialmente pericolosi. C’è l’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1 ottobre 1949), e c’è l’anniversario della fuga del Dalai Lama in India, nel 1959. C’è quello del Movimento del 4 maggio, quando studenti ed intellettuali protestarono contro il trattato di Versailles attaccando la debolezza del governo cinese nel far fronte all’espansionismo occidentale, nel 1919 (M.M., aprile 2009, pp. 6-10).

L’anniversario delle proteste di Piazza Tiananmen del 1989 è sicuramente il più «sensibile» di tutti, in un Paese in cui gli anniversari rivestono un’importanza enorme. Dato il totale controllo sulla storia e sulla comunicazione esercitato dal governo e dal Partito Comunista, infatti, gli anniversari sono l’unica occasione in cui alcuni potrebbero cercare di proporre una memoria alternativa degli eventi, critica dell’attuale leadership.

La quale ne è più che consapevole, e agisce con forza per prevenire ogni voce dissonante: con controlli e censura, con un’educazione nazionalista con molte omissioni sulla storia recente ed antica del Paese, e con la messa agli arresti domiciliari preventivi di molte persone che potrebbero voler commemorare in modo inviso al governo.

Gli avvenimenti del 1989 – quando all’esercito cinese venne ordinato di sparare sui dimostranti, studenti, operai e cittadini che per quasi due mesi avevano occupato il centro di Pechino (ma le manifestazioni avevano avuto luogo anche in molti altri centri urbani cinesi) – continuano ad essere coperti dalla censura in modo assoluto.

Basta il numero 64 a bloccare intere pagine web: i cinesi, infatti, scrivono le date con il mese prima del giorno, e 64 sta per «4 giugno», ovvero, il giorno in cui l’esercito cominciò a sparare. Molti amano dire che oggi ai giovani cinesi, o ai cinesi in genere, non importa affatto quello che è avvenuto nella capitale vent’anni fa. Ma questo non tiene conto del fatto che ogni menzione di Tiananmen in rapporto a quei fatti significa mettersi istantaneamente nei guai, e rischiare l’arresto.

Nessun mezzo di comunicazione può fare riferimento a quanto avvenne, e per il timore che una parola avventata possa causare guai a tutta la famiglia, i genitori non parlano ai figli né del 1989, né della Rivoluzione Culturale, o di altri momenti bui della storia recente del Paese.

Ma è lo stesso nervosismo delle autorità a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, fino a che punto quella data sia importante per tanti: per la prima volta dai 1949, dalla fondazione della Repubblica Popolare, l’esercito di liberazione aveva aperto il fuoco su civili disarmati nel cuore della capitale, uccidendo un numero di persone ancora impossibile da determinare (diverse centinaia sono state accertate da Ding Zilin, coraggiosa «madre di Tiananmen» che perse il figlio diciassettenne quella notte, ma c’è chi pensa che i morti possano essere più di un migliaio). Ancora oggi, nessuno in Cina ha diritto di parlarne, riflettervi, scriverne