REVISIONI Lo storico Federigo Argentieri accusa gli studiosi vicini ai Ds di aver ignorato importanti documenti. Togliatti «Invocò la repressione in Ungheria e favorì la caduta di Kruscev»
di Antonio Carioti
Segue una articolo di Massimo Caprara, testimone del sostegno dato dal PCI all’invasione ungherese
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E gli autori di matrice postcomunista, continua, hanno agito così «di proposito, semplicemente allo scopo di evitare di mettere in discussione le proprie posizioni, consistenti soprattutto nel reiterato tentativo di accreditare Togliatti come il vero capofila del riformismo italiano».
Una denuncia che l’autore ha inserito nella nuova e più polemica edizione del suo libro Ungheria ’56. La rivoluzione calunniata (pagine 192, e10), appena uscita da Marsilio nella collana «I libri di Reset», con prefazione di Giancarlo Bosetti. Togliatti, afferma Argentieri, non solo approvò in pieno l’intervento sovietico a Budapest, ma lo invocò in sede riservata presso il Cremlino e agì sistematicamente per frenare le conseguenze della destalinizzazione: lungi dal mettersi alla testa del rinnovamento nel mondo comunista, fu il più astuto e autorevole tessitore della restaurazione, infine sfociata nella caduta di Nikita Kruscev, l’uomo che aveva denunciato i crimini di Stalin, e nell’ascesa di Leonid Breznev.
Molti gli episodi citati a suffragio di questa tesi. La lettera spedita ai vertici del Cremino il 30 ottobre 1956, in cui Togliatti auspicava l’invasione dell’Ungheria («Razza di incapaci, vi volete decidere o no?» è la frase con cui Argentieri ne riassume il contenuto). L’assenso del «Migliore» alla condanna a morte di Imre Nagy, il primo ministro comunista riformista che era stato riportato al potere dall’insurrezione di Budapest. La sua denuncia circa la presunta «attività sobillatrice» svolta dal filosofo ungherese György Lukács. L’invito alla prudenza da lui rivolto ai compagni cecoslovacchi nel 1963, quando a Praga si parlava di riabilitare le vittime dei processi staliniani.
Infine l’accusa più grave di Argentieri: nel 1964 Togliatti era in sintonia con coloro che tramavano contro Kruscev e per questo si recò in Unione Sovietica, dove morì improvvisamente nell’agosto di quell’anno. Il famoso Memoriale di Yalta, destinato a rimanere riservato ma reso pubblico dopo la scomparsa dell’autore, non era affatto (come in seguito venne affermato) un documento volto a rimarcare l’autonomia del Pci da Mosca.
In realtà le critiche mosse da Togliatti all’Urss in quel testo, con le relative «preoccupazioni per l’unità del movimento comunista internazionale», facevano parte di un gioco di sponda per mettere in difficoltà Kruscev e favorirne il siluramento. A tal proposito Argentieri richiama e ripubblica in appendice al suo libro un intervento dello studioso russo Enrico Smirnov, testimone diretto dei fatti, secondo il quale Breznev si rallegrò per la pubblicazione del Memoriale in Italia, in quanto «poteva essere utilizzato contro Kruscev».
Non a caso poi l’ultimo scritto di Togliatti uscì anche sulla Pravda, organo del Pcus, alla vigilia del ribaltone al Cremino che, nel successivo autunno, avrebbe portato all’ascesa di Breznev.
Insomma, Argentieri sostiene che Togliatti non fu il padre di una genuina via italiana al socialismo, perché non poteva in alcun modo rinnegare il suo passato stalinista. A suo avviso nel Pci un autentico revisionismo «sarebbe nato veramente solo nel 1964 con Luigi Longo», che per primo avrebbe preso apertamente le distanze dall’Urss, deplorando l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e aprendo la strada alle successive mosse di distacco da Mosca attuate da Enrico Berlinguer.
Di qui il giudizio fortemente critico espresso da Argentieri sugli autori ancora propensi a difendere la figura di Togliatti. È tutta una corrente storiografica, legata soprattutto alla Fondazione Istituto Gramsci, che viene direttamente chiamata in causa: dai più accesi sostenitori del «Migliore», Aldo Agosti e Giuseppe Vacca, ai più tiepidi Adriano Guerra e Silvio Pons.
C’è poi un bersaglio ancora più autorevole, arcinoto a livello internazionale. Si tratta dello storico marxista inglese Eric Hobsbawm, del cui itinerario intellettuale Argentieri rivela un particolare piuttosto imbarazzante. Nella sua autobiografia Anni interessanti (Rizzoli), il celebre studioso ricorda di aver sottoscritto all’epoca della rivolta di Budapest, con altri intellettuali di sinistra, una lettera molto critica verso l’invasione sovietica.
Non fa cenno però a un suo precedente intervento, che uscì il 9 novembre 1956 sul Daily Worker, quotidiano del Partito comunista britannico. In quel testo Hobsbawm paventava il pericolo di un’Ungheria dominata da forze conservatrici di destra, che sarebbe diventata un focolaio della controrivoluzione nell’Est europeo. E, pur auspicando un ritiro dell’Armata rossa che avvenisse al più presto possibile, affermava: «Se fossimo stati nella posizione del governo sovietico, saremmo intervenuti ; se fossimo stati nella posizione del governo ungherese, avremmo approvato l’intervento».
Argentieri riprende la citazione da un libro di Peter Fryer, all’epoca corrispondente del Daily Worker da Budapest, che ruppe con il partito dopo la rivoluzione ungherese. Un uomo che del suo comportamento in quei giorni tragici, a differenza di Hobsbawm, oggi non ha nulla da nascondere né da rimuovere.
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Il Timone, anno 8 (2006) gennaio, n. 49
La «rivolta» vista dal Pci (Ungheria, 1956)
Cinquant’anni fa l’URSS reprimeva la rivolta anticomunista in Ungheria. Un bagno di sangue costato la vita a decine di migliaia di lavoratori, operai e studenti. Il Pci si schiera con i sovietici. Il racconto di un testimone
di Massimo Caprara
«Svelto. E’ urgente. Ti vuole Togliatti». Il deputato comunista che era sceso di corsa dagli uffici del Gruppo parlamentare comunista alla Camera, a Montecitorio, mi raggiunse nel Transatlantico ormai deserto, la sera del 2 novembre 1956, quando sull’Italia passava il rumoroso ponte aereo di sostegno allo sbarco inglese all’istmo di Suez.
«Convoca il direttivo del Gruppo. Giuliano Pajetta (1915-1988) – piú giovane del fratello Giancarlo (1911-1990) – è incaricato di parlare domani in Aula per noi» mi avvertì Togliatti al telefono. Poi, dopo una pausa, senza attendere risposta, precisò: «Sono entrati a Budapest».
«Accidenti», mi scappò detto.
«Ma sono i nostri» replicò il capo del Partito. «Li comanda il generale d’armata Lascenko», tagliò corto Togliatti e troncò bruscamente la telefonata. La sua precisazione corresse la mia errata sensazione che a invadere l’Ungheria fossero le truppe della Nato, irrompendo da quei confini austriaci che l’«Unità» in quei giorni assicurava ultrapieni d’armi a disposizione del Cardinale Josef Mindszenty, Primate d’Ungheria, arrestato dal regime comunista e poi rifugiatosi nell’Ambasciata degli Stati Uniti.
Era l’inizio dell’indimenticabile 1956. «Viva l’Armata Rossa», concluse nel suo intervento Giuliano Pajetta urlando contro il liberale Gaetano Martino, il ministro degli Esteri del governo di Antonio Segni. «Noi non possiamo ignorare la funzione dell’esercito sovietico liberatore» disse Pajetta in modo provocatorio, accendendo le proteste di democristiani, liberali e della destra della Camera italiana. Scoppiò un tumulto.
Dei fatti, Togliatti già sapeva. Un messaggio personale gli era stato già fatto recapitare dall’Ambasciata sovietica di via Gaeta, a Roma, con la firma del membro del Politburo Dimitri Trofimovic Svepilov e, inoltre, tra il 22 e il 24 ottobre egli aveva effettuato un viaggio lampo in macchina sino a Pola per incontrarvi i dirigenti del partito jugoslavo, Tito e Miciunovich, latori di una comunicazione riservata dell’Armata Rossa e del Comando delle truppe del Patto di Varsavia.
A Budapest, il popolo organizza violente manifestazioni contro il comunismo e il governo autoritario. Imre Nagy, capo legittimo del governo ungherese, viene accusato dai russi d’aver perduto il controllo della situazione e legalizzato l’insurrezione dando pubblica fiducia ai suoi capi e in particolare al cosiddetto «teppista», Pal Maleter, il capo della rivolta.
La sera del 6 novembre, avvicinai Togliatti alla Camera. Di malavoglia egli mi disse, irritato: «E’ tutta colpa di quegli agitatori qualunquisti del Circolo Petöfi di Pest e dell’influenza esercitata dal filosofo Georgy Lukacs, comunista per modo di dire», sibilò con astio. «Lo rimanderemo a scrivere i suoi libri a Vienna, come ha fatto per tanto tempo» aggiunse. Ci incamminiamo lentamente verso la buvette di Montecitorio. «Per Nagy tira ormai un’aria funesta». Togliatti parlò con sicurezza distaccata.
Da Budapest, il corrispondente dell’«Unità», Orfeo Vangelisti, trasmetteva in quei giorni che «gruppi di facinorosi, seguendo evidentemente un piano accuratamente studiato, hanno attaccato la sede della radio e del Parlamento. Gruppi di provocatori in camion hanno lanciato slogan antisovietici apertamente incitando a un’azione controrivoluzionaria. In piazza Stalin, i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua di Stalin».
Il grande moto ungherese veniva così ridotto e manipolato dall’organo di stampa del Pci. Dopo un grande comizio di Imre Nagy, questi veniva arrestato dalle truppe russe e rumene a Budapest e sostituito da Janos Kadar a capo del Governo. In una affollatissima conferenza stampa, nel pianterreno dell’edificio extraterritoriale dell’Ambasciata americana, il Card. Mindszenty aveva detto a proposito dell’intervento delle truppe del Patto di Varsavia: «Lo condanno in maniera incondizionata» e aggiunto: «Anche se Kadar faceva parte del governo Nagy, io considero governo legale solo il governo Nagy. Kadar è stato insediato dagli stranieri».
A Roma usciva sull’«Unità» un articolo di fondo intitolato «Da una parte della barricata a difesa del socialismo» sul quale si scriveva: «I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi se stessa, com’è suo diritto sacrosanto. Guai se così non fosse». Da Mosca arriva una dichiarazione attribuita a Krusciov che inveisce contro i disordini: «A komunistse tam rezhut» («In Ungheria scannano i comunisti»).
Il partito comunista italiano è in subbuglio. Nella Direzione, Amendola definisce l’intervento «un dovere di classe». Un’assemblea di studenti iscritti alla Federazione giovanile comunista di Roma vota all’unanimità un documento di sostegno «al processo di democratizzazione e a quei movimenti che si stanno manifestando in questo senso in Ungheria e che dovranno portare a un socialismo costruito nella democrazia e nella libertà». L’«Unità» lo respinge, «l’Avanti!» lo pubblica.
A Milano, un folto e combattivo gruppo di intellettuali, comunisti e non, approva un documento critico analogo. Rossana Rossanda e Giangiacomo Feltrinelli hanno l’incarico di andare all’«Unità» e di chiederne la pubblicazione. Davide Laiolo, il direttore dell’edizione di Milano, li affronta aspramente e li aggredisce urlando. Rifiuta la mozione e dichiara che finché rimarrà lui, «una spazzatura simile non comparirà mai sulle colonne del giornale».
Ma la novità più esplosiva verrà dalla sede della Cgil, la Confederazione del lavoro con milioni di iscritti, con sede in Corso d’Italia a Roma. «L’intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell’autonomia degli Stati socialisti», si legge nel testo votato all’unanimità. Prima firma: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale.
E’ un comunista di antica data. Io arrivo proprio mentre Di Vittorio scende dalla macchina sotto il portone delle Botteghe Oscure. Fa appena in tempo a dirmi che è stato convocato d’urgenza dalla Direzione. Entro con lui nel locale della segreteria, l’ufficio di Togliatti, che subito gli dice: «Il documento della Cgil va ritirato. Devi essere tu a correggere la posizione. Lo farai nel prossimo comizio».
Poi aggiunge seccamente: «A Livorno, domenica ventura». «Ma è un comizio sindacale unitario non del partito» dice Di Vittorio. «Meglio», replica il segretario comunista. Uscendo, Di Vittorio è fiaccato, stravolto. Ha gli occhi rossi. «Che avrei potuto fare? Mi hanno, tutta la direzione, messo clamorosamente di fronte all’alternativa: o il comizio o fuori dal partito. Che farei io, Di Vittorio, senza il partito? Forse non sono già più Peppino Di Vittorio».
La domenica successiva andò a Livorno, parlò e rinnegò se stesso. Imre Nagy, attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958. Nonostante simili gravissimi eventi, io allora non uscii dal partito. Uscii invece nel 1968, dopo l’invasione russa di Praga, quando fui radiato dal Pci. Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia.