La via pericolosa dell’Islam e i nostri silenzi
Ernesto Galli Della Loggia
Sono almeno due le ragioni che inducono a dubitare fortemente della spontaneità dei moti di piazza nelle capitali islamiche. Innanzi tutto le notizie che si hanno del complesso lavorio (durato almeno tre mesi dalla pubblicazione delle vignette alle prime manifestazioni) messo in opera dai capi della comunità islamica danese al fine di attivare i canali di mobilitazione che poi sono entrati in azione; e in secondo luogo l’ovvia complicità dei governi nei disordini, disordini avvenuti perlopiù in Paesi dove neppure un capannello di poche persone può riunirsi senza che la polizia lo sappia in anticipo, potendo così intervenire (o non intervenire) a suo piacere.
Dunque disordini preparati e voluti, ma non perciò meno gravemente rivelatori. L’estrema violenza e la rabbia cieca delle manifestazioni, la loro estensione e il loro ripetersi continuo, la partecipazione ad esse di una moltitudine di giovani, sono la spia che oggi nel mondo islamico si sta diffondendo, si è già diffuso, un virus cultural-religioso e politico dagli effetti incontrollabili, di cui la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi e i proclami atomico-antisemiti di Ahmadinejad sono un’ulteriore e preoccupantissima prova.
Che cosa sta succedendo tra quelle centinaia di milioni di uomini governati da regimi deboli e dispotici? Molta parte della scena ci rimane oscura, dominata dalla mancanza di libertà e quindi dal segreto, ma ne vediamo gli effetti: una sfera politica caratterizzata dalla demagogia e dall’incapacità di avviare qualunque vera riforma, una sfera sociale priva di qualsivoglia guida alla discussione razionale (giornali e tv indipendenti, intellettuali di orientamento liberale, scienziati), con un’altissima propensione al fanatismo religioso, indisponibile a riconoscere alcun diritto a chi pensa o vive diversamente, con una paurosa accettazione della violenza, e alla quale, infine, è possibile far credere che l’Occidente sia responsabile di ogni cosa.
Noi europei ci stiamo rapidamente abituando a tutto ciò, non ne scorgiamo più l’assoluta anomalia. Timoroso dell’accusa di leso multiculturalismo, il nostro discorso pubblico non osa più esprimere giudizi che non siano di comprensione, di più o meno tacita «tolleranza», verso qualunque intollerabile violenza o malefatta commessa nelle contrade dell’ Islam.
Ad una folla polacca o irlandese non perdoneremmo neppure un centesimo di quello che siamo pronti a perdonare ad una folla libica o afghana: ma ci va bene così. Dando un esempio stupefacente di viltà l’Unione Europea non ha espresso una protesta vigorosa neppure quando è stata devastata la sua sede a Gaza da una folla di quegli stessi palestinesi che vivono solo grazie agli aiuti di Bruxelles. Nulla sembra scuoterci, insomma: non solo non vogliamo accorgerci della via pericolosa che l’Islam ha imboccato, ma, quel che è peggio, sembriamo aver perfino paura di parlarne.