Toniolo e l’etica della piccola impresa

TonioloVita e Pensiero n.4 luglio-agosto 2013

Superata l’antinomia solidarietà/mercato, l’economista catto­lico insiste nel riferimento costante alla persona per il primato del lavoro sul capitale, il recupero della dimensione etica nei processi economici, l’apertura verso uno Stato sussidiario.

Paolo Pecorari

Per comprendere che cosa sia l’etica della piccola impresa per Giuseppe Toniolo bisogna muovere dal suo quadro teorico di riferimento e precisare anzitutto che in esso è presente una stretta correlazione tra cultura antropologica e cultura aziendale.

 La cultura antropologica, caratterizzata da un interesse di fondo per la realtà propriamente umana, e dunque per i problemi concernenti il dispiegarsi dell’attività della persona in tutti i campi (società, economia, politica, religione, scienza…), lascia trasparire alcuni ancoraggi intellettuali allo storicismo roscheriano e alla neoscolastica: inizialmente, quella derivante dal magistero del Sanseverino, del Taparelli d’Azeglio e del Liberatore; più tardi, quella che si rifà al dettato del Talamo e del Mercier.

La cultura aziendale va considerata sotto tre aspetti: I) come combinazione di fattori produttivi, secondo la teoria classica; II) come rappresentazione di un sistema operativo in cui i soggetti economici compiono scelte proiettate (e proiettabili) sul mercato, alimentando domanda e offerta di beni e servizi, e cercando di diventare reciprocamente compatibili; III) come ottimizzazione di mezzi in funzione di un fine, precisando che l’ideale razionalistico di calcolabilità è chiamato a misurarsi con la complessità fenomenica, la quale va interpretata e resa, per quanto possibile, governabile, sia sul piano sincronico (varietà) sia su quello diacronico (variabilità)

A far da cerniera fra le due culture v’è il finalismo d’impresa, che si sostanzia di diversi elementi: anzitutto la dimensione etica, quindi la produzione del reddito (obiettivi economico-finanziari), la soddisfazione del cliente (obiettivi competitivi), il riscontro con altri interlocutori (obiettivi di consenso/coesione).

Un tale finalismo è tanto più positivo quanto più i beni e servizi prodotti (secondo una logica unitaria e insieme sistemica) rispondono a effettive (e lecite) esigenze dei singoli e dei gruppi, escludendo il canone crematistico del profitto assolutizzato, ossia da perseguire a ogni costo. Concetto che il Toniolo prende a chiarire storicamente e teoreticamente nei primi anni Settanta dell’Ottocento, e che approfondirà per il resto della sua vita scientifica, postulando l’esigenza non astratta, ma neppure meramente empirica, di armonizzare scienza economica, diritto e morale.

L’importanza di questa armonizzazione è accresciuta dal convincimento che l’impresa non è solo un istituto giuridico, un sistema di operazioni economiche strumentali al raggiungimento di un obiettivo: è piuttosto un operatore che elabora la complessità, una società umana che svolge prevalentemente, non esclusivamente, un’attività economica di produzione, così come la svolgono, con specificità proprie, la famiglia, gli enti intermedi, lo Stato.

Talché, secondo il Toniolo, può dirsi “buona” l’impresa in cui si coniugano sinergicamente la soddisfazione del cliente attraverso la produzione del reddito, l’incremento del reddito stesso che genera investimenti mirati alla competitivita, la riduzione degli sprechi, l’aumento dell’efficienza, la collaborazione tra governance e lavoratori.

Tutto ciò presuppone una speciale concezione del lavoro, che, schematizzando, si può così delineare. Nella vita umana esiste un duplice ordine di valori, un duplice piano di riferimento: quello materiale e quello spirituale. L’uomo è un ente composto di materia (il corpo) e forma (l’anima), e l’anima è la forma del corpo, l’atto primo del corpo fisico organico che ha la vita in potenza. Il soggetto dei processi produttivi è l’uomo che si realizza attraverso il lavoro, l’uomo tutto intero, nella sua complessità e globalità, non solo l’homo oeconomicus.

Di conseguenza, il lavoro è actus personae, attività umana, momento di vita umana. La qual cosa comporta che chi lavora deve poter «esercitare la sua libertà e impegnare la [propria] responsabilità».

Rispetto all’oggetto, il lavoro è «causa efficiente primaria di ogni prodotto», a differenza del capitale che è causa efficiente secondaria. Il capitale è da porre in funzione del lavoro; a sua volta, il lavoro è da porre in funzione dell’uomo. L’utile è una categoria strumentale in relazione ai fini umani; essendo questi fini essenzialmente di natura etica e non potendosi trattare dei mezzi prescindendo dai fini, ne risulta la subordinazione dell’economia all’etica. Esito cui il Toniolo perviene non sottoscrivendo un a priori, bensì affrontando un problema, facendo un’indagine sul valore che investe il volere, sul principio che regge l’azione, perché l’agire (unito al pensare), mentre modifica la realtà, consente di apprendere

Sulla scuola storica dell’economia

Tenendo presenti queste coordinate culturali e dopo aver osservato che studiare le forme di organizzazione della produzione significa per Toniolo affrontare il problema del rapporto tra piccola e grande impresa, si porrà mente al fatto che egli ne tratta in più occasioni, sempre restando fedele, nella sostanza, all’iniziale impostazione teorica e metodologica, che gli viene in gran parte dai due maggiori esponenti della prima e della seconda scuola storica dell’economia: Roscher e Schmoller, con riferimento, per l’uno, a un saggio sulla piccola e grande industria, che il Toniolo legge e cita non nel testo originale del 1861, bensì nella traduzione francese del 1872, e per l’altro a un lavoro del 1870, in cui «la più fine critica, apportata sopra un copioso e raro corredo di fatti storici e statistici, si accompagna ad ampie vedute di scienza economica e a un profondo senso dei tempi».

Se per quanto riguarda Roscher la citazione è quasi canonica, almeno per un giovane studioso allievo del Messedaglia e gravitante nell’orbita luzzattiana, non altrettanto può dirsi dello Schmoller, per il quale Toniolo dichiara un apprezzamento che, mutatis mutandis, lascia trasparire qualche analogia con quello manifestato da Spiethoff, assistente di Schmoller, nei confronti dei principi fondamentali professati dal maestro: l’uso di un apparato concettuale «costruito con cura ma tenendo d’occhio più la rispondenza alla particolare indagine che non la raffinatezza come tale»; l’impiego di questo apparato e di un’ipotesi provvisoria per attaccare «nei particolari serie di fatti selezionati», perché ritenuti importanti; la descrizione delle caratteristiche generali «dell’ordinamento […] opportunamente adattate alle domande […] cui bisogna rispondere».

Analogia beninteso estrinseca, non intrinseca, differenziandosi, com’è noto, Spiethoff da Schmoller per «scopi, metodi di ricerca e opere», e approdando a esiti che, rispetto alle posizioni di Schmoller, segnano uno sviluppo in una particolare direzione.

Rispetto a Schmoller, la valutazione del Toniolo è influenzata soprattutto dalla robustezza scientifica dei suoi lavori su singole industrie e dall’opus magnum delle fonti relative alla storia della pubblica amministrazione in Prussia. Più indirettamente, lo è pure dalle critiche al liberalismo economico e ai classici, dall’aderenza al fatto, al dato documentario, che deve parlare da sé, senza dar luogo a derive positivistiche di tipo comtiano. Influiscono inoltre: a) il clinamen intellettuale verso la tipologia schmolleriana dell’economista, la quale coincide con quella di un «sociologo dalla mentalità storicistica nel più ampio significato del termine»; b) l’esigenza di analizzare tutti i moventi dell’agire economico; e) il richiamo all’etica, per respingere ogni logica esclusivamente utilitaristica.

Rifacendosi allo Schmoller, il Toniolo prospetta una comparazione tra lo studioso tedesco e Victor Brants, l’economista e storico lovaniense autore del volume La piccola industria contemporanea (Siena 1904; edizione francese, 1902).

Entrambi, egli scrive, possiedono in grado eminente il senso storico, ma mentre il primo documenta il processo per così dire «dissolvente» della piccola impresa, il secondo ne delinea quello «ricostituente», entrambi circoscrivendo l’indagine all’ambito nazionale, ossia rispettivamente alla Germania e al Belgio, ed entrambi avvertendo che i «minuti organismi» di cui si occupano «suggono di preferenza elementi e condizioni di vita dalle cellule locali», anche se poi, di fatto, non solo tengono conto del più generale contesto economico, ma evidenziano pure l’evoluzione delle classi sociali, con particolare riguardo alla piccola borghesia, da cui dovrebbe nascere una classe media «fondata principalmente sul lavoro» e sui meriti personali in ordine ai superiori fini morali: di una moralità, che, nel caso di Brants, è oggettiva e rinvia alla scolastica, anzi alla neoscolastica, mentre in quello di Schmoller è relativistica.

Ond’è che, se Schmoller può vedere nell’elemento etico «un necessario completamento dell’impulso utilitario», Brants vi scorge «non tanto uno strumento conoscitivo, quanto piuttosto, e in maniera prevalente, una condizione essenziale di efficienza del sistema produttivo», per cui la legge morale è da lui invocata non tanto «per capire una realtà complessa», quanto piuttosto «per correggere l’andamento dell’economia».

Come dire che Brants si muove secondo una logica volontaristica, non naturalistica: logica che il Toniolo condivide. Ed è anche per questo che egli fa tradurre in italiano non solo il lavoro del Brants sul quale poggia l’accennata comparazione con lo Schmoller, ma anche Lois et méthode de l’economie politique, che costituisce la prima parte del Compendio di economia sociale, sempre del Brants, edito a Siena nel 1896: traduzione affidata a Luigi Masson e dal Toniolo personalmente rivista e annotata.

La costituzione della piccola impresa

Da che cosa dipende allora, secondo Toniolo, la costituzione della piccola impresa? Senza dubbio, «dalle proprietà fisiche della materia da elaborarsi, a seconda che richiedano un diverso processo tecnico, nonché dalla qualità ed estensione del consumo cui il prodotto è destinato», e ancora dal grado di avanzamento delle arti produttive nella nazione», il quale, ricevendo oggi «la più grandiosa sua manifestazione nella fabbrica, che divide il campo della produzione colla piccola impresa, per mezzo di essa, sopra di questa massimamente influisce».

Il prodotto, «quantunque rivolto al consumo ordinario, deve accomodarsi alle varietà accidentali delle cose e delle persone; o soddisfare a bisogni imprevisti, immediati, oppure assolutamente locali, né consente una preparazione anticipata, uniforme, in grandi masse».

Ovviamente l’oggetto materiale della produzione può essere comune alla grande come alla piccola e media impresa; non così «il grado di elaborazione del prodotto, ossia il fine immediato che ciascuna [impresa] si propone; l’una, la prima e generale trasformazione della materia; l’altra, l’ultimazione o adattamento finale».

Ciò comporta che la piccola impresa non può dirsi per ogni riguardo indipendente dalla fabbrica, ma piuttosto a essa «coordinata per un intimo legame naturale di solidarietà tecnica ed economica», fatta eccezione per le industrie (o imprese) «artistiche», che sono indipendenti e che, in forza della loro indipendenza, possono travalicare (e in effetti più volte travalicano) l’ambito locale per aprirsi a quello nazionale, transnazionale o multinazionale. Fenomeno, quest’ultimo, che il Toniolo intuisce ma non fecalizza, a differenza di quanto farà nella seconda metà del Novecento la teoria d’impresa con Kindleberger e Hirsch, pervenendo a risultati non convergenti né omogenei, soprattutto in relazione al ciclo di vita internazionale del prodotto e alla localizzazione di prodotti nuovi.

Un ulteriore aspetto da segnalare è che il Toniolo tralascia di prendere in esame l’elemento della quantità, e neppure avverte che la quantità determina trasformazioni anche nel campo della qualità intrinseca dei prodotti. Inoltre, relativamente all’industria, egli inclina a parlarne nel senso univoco (e generalissimo) del rapporto uomo/macchina, laddove l’accezione del termine non è univoca, come è evidente a chiunque ne consideri i significati che esso assume nel mondo greco antico, nell’Europa del Quattro e Cinquecento, nell’Inghilterra del secondo Settecento. Anche rispetto al rapporto uomo/macchina, non è chiaro se il Toniolo acceda al concetto di macchina quale semplice materializzazione del capitale, come sostengono i classici, o se tale concetto implichi qualcosa di più e di diverso.

Ciò nondimeno, una risposta indiziaria può trarsi per via deduttiva, pensando che se negli scritti giovanili la dipendenza del Toniolo dai classici è marcata, non altrettanto lo è in quelli dell’età matura. Ne consegue che solo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando prende a studiare ex professo la storia del capitalismo (e del socialismo), il Toniolo corregge, o piuttosto integra, l’iniziale concetto di macchina, facendo della forza lavoro il fattore soggettivo primo del processo produttivo.

Restando collés aux textes, merita precisare che se al concetto di macchina si sostituisce il riferimento a una particolare, specifica macchina o a una nuova struttura meccanica, menzionata per lumeggiarne il contenuto innovativo sotto l’aspetto tecnologico, l’attenzione del Toniolo risulta più vigile e, se possibile, più scrupoloso il vaglio della letteratura specialistica, come nel caso delle esperienze telo-dinamiche funzionali all’utilizzo della caduta delle acque del Reno a Sciaffusa, in merito alle quali cita una relazione di Antonio Favaro (il futuro storico di Galilei), mentre per le seghe meccaniche e i piccoli motori a vapore, a gas, ad aria calda o compressa e ad ammoniaca, si avvale del compie rendu sulle «novità» dell’esposizione universale di Vienna edito da Michele Treves nel 1874.

Contestualmente mostra di conoscere, tra gli autori italiani, i lavori di Cossa e Morpurgo, Errerà e Montanari, Torrigiani e Finocchietti, Rossi e Luzzatti, mentre, tra gli stranieri, quelli di Reybaud e Verdeil, Le Play e Levasseur.

L’innovazione tecnologica è per Toniolo importante sia perché a la strada a radicali trasformazioni nel sistema produttivo, sia per rende possibile l’esistenza di una piccola impresa capace, «sotto certe condizioni», di essere «concorrente colla fabbrica, o almeno non indegna della sua alleanza». Essa assicura il miglioramento continuo della qualità e non può essere confusa né con la creatività né con l’invenzione. Presuppone altresì una spiccata disponibilità al cambiamento inoltre la capacità di seguire il mercato.

Le sono propedeutiche la preparazione tecnico-ingegneristica e il sapere scientifico, ma non vani tralasciate le altre conoscenze teoriche e applicative, organizzative gestionali, in quanto potenzialmente creatrici di valore. Altrettali rilevanti sono i fattori «economici, politici e sociali», i quali apportano alla piccola industria «il sostrato e l’ambiente, e ne formano le condizioni di mantenimento e sviluppo».

Così è dello «stato territoriale del Paese», della «distribuzione del capitale» (se in poche o molte mani, della ripartizione della popolazione, della preponderanza o meno d certe abitudini, dello spirito d’intraprendenza delle classi medie, della loro preparazione, delle tradizioni, le quali, «lente a insinuarsi nelle abitudini popolari», sono assai tenaci nello scomparire.

Oltre il “capitalismo personale”

Tutto ciò, sostiene il Toniolo, è importante, ma a nulla valgono «i presidi dell’arte professionale, né la più opportuna struttura economica della nazione, né le naturali attitudini d’ingegno, né i suffragi di tradizione», senza il valore morale della «classe produttiva». Ne sono convinti l’Audiganne e il Reybaud, quando prendono in esame le ragioni della decadenza della tessitura serica a Lione, e con essi concorda lo Schmoller, quando studia la crisi della Slesia, cui in vero, oltre al deficit di etica, concorrono altri fattori, quali lo «sfruttamento del lavoratore domestico da parte del committente imprenditore, le frodi di quello verso di questo, e quindi lo scadere della qualità della mercé e il discredito sul pubblico mercato».

Dove è da notare che, nella gerarchia delle priorità, è «lo stato morale» a divenire «più che mai […] misura […] dello stato economico», non viceversa. E lo «stato morale» non può in alcun modo prescindere dalle «qualità personali», che contano almeno quanto il possesso del capitale. Ma chiamare in causa le qualità personali dilata gli orizzonti dell’analisi, nel senso che, mentre nelle forme produttive del capitalismo ottocentesco il capitale è la misura prima del valore (relegandosi la dimensione della persona nella sfera del privato familiare), nella prospettiva del Toniolo i termini del discorso mutano: la dicotomia capitale/persona viene superata; la persona diventa parte essenziale dell’azienda; lavorando, impegna se stessa e, impegnando se stessa, cerca la propria realizzazione.

Non siamo a quello che oggi si chiama “capitalismo personale”, ma se ne scorgono i lineamenti, se ne intravedono i tratti logici. E tuttavia, mentre nel “capitalismo personale” odierno l’individualismo è parte costitutiva, in quello tonioliano esso viene depotenziato, anzi rigettato, onde far spazio appunto al concetto di “persona”, in cui si esprime la sintesi tra il polo della materialità e quello della spiritualità. Sintesi che corrisponde all’esigenza di salvaguardare l’unità ontologica del composto umano. Ma sintesi pure in cui si risolvono libertà e responsabilità, unità e identità, inseità e sostanzialità.

In altri termini, il capitalismo personale del Toniolo non è quello espresso da un singolo individuo che investe risorse finanziarie, assume rischi, decide autonomamente, e così via: è invece il capitalismo al servizio dell’uomo considerato come fine, mai come mezzo.

Essendo questa la prospettiva, non sorprende che il Toniolo critichi, oltre all’individualismo, anche la pretesa neutralità della scienza economica, che postula l’identità (o coincidenza) degli obiettivi individuali e sociali e che, affrancandosi dall’etica, vede nel mercato concorrenziale il luogo deputato per la socializzazione delle passioni umane. Alla critica egli fa seguire un corpus dottrinale socioeconomico permeabile, come già si è detto, agli schemi logici della neoscolastica, nonché all’antisensismo del Périn e agli apporti di Le Play, Hettinger e Weiss.

Quanto all’individualismo, egli ne considera non gli aspetti metafisici, logici e religiosi, bensì quelli etici, politici ed economici: l’aspetto etico, perché sostanzialmente riconducibile a dottrine empiriste; quello politico, perché riduce lo Stato a strumento del singolo (si pensi alle teorie contrattualistiche per le quali la mano pubblica ha lo scopo esclusivo di garantire il benessere dell’individuo); quello economico, perché, legando lo sviluppo del corpo sociale alla libera iniziativa degli individui, assegna allo Stato un ruolo di semplice tutela, impegnandolo a non porre vincoli al laisserfaire.

Lo Stato che vagheggia invece il Toniolo è quello sussidiario. Che cosa vuoi dire? Anzitutto che risponde al duplice ufficio di conseguire la sicurezza dei diritti e di supportare la piena effettuazione dei mededesimi; in secondo luogo, che è destinato a integrare «la insufficienza del cittadino singolo o liberamente associato in ciò che interessa il fine sociale». L’estensione e i limiti dell’intervento variano in base alle congiunture, oltre che alle «condizioni di fatto e [ai] bisogni delle diverse classi sociali, in ordine ai loro uffici nel comune consorzio».

Nei stesso tempo l’intervento dello Stato può essere reclamato «per addestrare gli individui all’azione, [e] per impedire che questa soverchi o tragga in rovina la pubblica cosa»; non «nell’intento di introdurre qualunque ordinamento artificiale nella società, ma perché ciascun classe di questa adempia, nei modi e limiti dovuti, a quella missione che a ciascheduna le leggi naturali assegnano pel raggiungimenti del fine comune». Certo, le leggi naturali vanno prima riconosciute «almeno nelle loro linee fondamentali», ma, una volta individuate, lo Stato, «proporzionando il suo concorso all’indole e agli uffici naturali delle singole classi della società, si fa cooperatore illuminato ed efficace della pubblica economia, anzi degli umani destini».

Superamento dell’antinomia tra solidarietà e mercato, riferimento costante alla persona, primato del lavoro sul capitale, recupero della dimensione etica nei processi economici, finalismo ed efficienza, capitalismo correttamente inteso, ruolo sussidiario dello Stato: sono questi i capisaldi della teoria d’impresa del Toniolo, soprattutto della piccola impresa, della quale egli avvia una rivalutazione che lo porta a sostenere che per certe produzioni la ridotta dimensione, specie se orientata all’export, è da preferire alla grande, perché economicamente più conveniente: assunto sul quale sembrano oggi concordare quanti vedono in tale morfologia dell’apparato manifatturiero un modello di sviluppo poggiante sull’interazione, a livello locale, tra sistema produttivo, territorio e società.

Si può concludere che, relativamente agli aspetti accennati, quello del Toniolo è un lascito intellettuale ancora meritevole di studio e di riflessione.

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Paolo Pecorari insegna Storia della finanza presso l’Università degli Studi di Udine. Al pensiero e all’opera di Giuseppe Toniolo ha dedicato numerosi volumi, fra cui: Economia e riformismo nell’Italia liberale. Studi su Giuseppe Toniolo e Luigi Luzzatti (1986); Toniolo: un economista per la democrazia (1991); Alle origini dell’anticapitalismo cattolico. Due saggi e un bilancio storiografico su Giuseppe Toniolo (2010). Una versione più ampia di questo intervento sarà pubblicata in una miscellanea di studi in memoria di Tommaso Fanfani