La Cina ha attuato una aggressiva politica di penetrazione in Africa con finanziamenti e formazione di tecnici . La posta in gioco sono le materie prime del continente africano, anche a costo di riprodurre forme di sfruttamento selvaggio e di neocolonialismo
di Piero Sinatti
La Cooperazione Pragmatica
È una strategia che significa fare affari win-win, reciprocamente vantaggiosi, in cui Pechino applica i principi di “non ingerenza” e di “assenza di precondizioni” nella concessione di crediti, prestiti e aiuti, e nella realizzazione di progetti comuni. A differenza degli Occidentali, i cinesi non li vincolano ai parametri imperniati – secondo il FMI e la Banca Mondiale – sulla trasparenza negli affari, nei contratti, nei bilanci. E neppure al rispetto da parte africana dei diritti civili e umani o dei processi di democratizzazione.
Anzi, quando questi siano violati sistematicamente (nei casi di Zimbabwe e Sudan), Pechino si oppone in sede ONU a condanne e a sanzioni nei loro confronti. A Pechino, pragmaticamente, interessa la partecipazione allo sfruttamento delle materie prime africane, segnatamente il petrolio. Seguito dai minerali indispensabili al suo impressionante sviluppo economico (rame, ferro, platino, cobalto, uranio, diamanti) e dal legname.
Ora, su diritti umani e civili, democrazia, correttezza degli affari, la Cina – monopartitica, autoritaria, segnata da pratiche non trasparenti negli affari – si trova in sintonia con i partner africani. E questo sicuramente la avvantaggia nella competizione con gli Occidentali per il controllo delle materie prime e dei mercati del Continente Nero.La Cina, ormai terzo partner dell’Africa, si avvicina sempre più agli europei in declino e agli americani in ascesa. Mentre sullo sfondo si stanno delineando i tentativi della Russia di entrare nel Great Game africano.
Alcune cifre
L’interscambio Cina-Africa è salito dai 10 miliardi di dollari del 2000 ai 39,7 del 2005. Con previsione di 100 miliardi nel 2010. Nel 2006 Pechino ha cancellato 1,38 miliardi di dollari di debiti a favore di 31 paesi. Ulteriori tagli e/o cancellazioni sono stati decisi a favore dei alcuni paesi visitati da Hu (Liberia, Camerun, Zambia e Mozambico). Il novembre scorso la Cina ha promesso di stanziare 5 miliardi di dollari per prestiti e crediti da offrire nel 2007 ai partner africani, da raddoppiare nel 2010.
Un altro punto a favore della Cina sono gli interventi in settori che gli Occidentali hanno trascurato negli ultimi decenni. Nelle infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, dighe); nell’edilizia pubblica (scuole, stadi, teatri, edifici governativi) e abitativa; nella formazione in Cina di molte migliaia di quadri tecnici, ingegneri, medici, delle banche, insegnanti; in vasti programmi di assistenza sanitaria, con costruzioni di ospedali e ambulatori (soprattutto pediatrici); nell’invio di personale sanitario, medicinali; in campagne contro la malaria.
Dal 2000 al 2006 Pechino ha inviato in Africa 15 mila tra medici, paramedici, infermieri, biologi. Ha costruito 30 ospedali. Sono stati assistiti 120 milioni di pazienti. Ha formato 18 mila quadri specializzati e ha partecipato a 720 progetti (sanità e istruzione).
Il presente ha un cuore antico
Questo tipo di interventi risale ai secondi anni Cinquanta e ai due decenni successivi del secolo scorso, quando la Cina di Mao aspirava alla leadership dei processi di liberazione anticoloniale e antimperialista. Anche allora inviava medici, ingegneri e tecnici. Costruiva grandi ferrovie, come la Lusaka (Zambia) – Dar es Salama (Tanzania). E inviava armi a movimenti e paesi del “fronte anti-imperialista”. Pechino riscuote i dividendi di questa cooperazione politico-ideologica, anche ora che è passata alla cooperazione pragmatica, con al centro l’economia.
Tuttavia, come ha sottolineato Hu nel suo discorso all’Università di Pretoria, la Cina anche ora tiene a differenziarsi dai concorrenti occidentali, presentandosi come “il più grande paese in via di sviluppo che coopera con l’Africa, il continente con il più alto numero di paesi in via di sviluppo”. E come il paese “che non ha mai imposto la sua volontà e pratiche inique ad altri paesi e non lo farà mai”. Questo piace a quelle élite africane che cercano di sottrarsi all’influenza degli ex-colonizzatori bianchi, ma soprattutto alle “precondizioni” che gli Occidentali pretenderebbero di imporre loro.
È tutto oro quel che luccica?
Tuttavia, si fanno strada diffidenza, critiche, persino allarmi e proteste. Nello Zambia (grande produttore mondiale di rame), Hu ha dovuto cancellare alcune visite, in cui si temevano proteste o degli operai di una grande industria tessile controllata da una società cinese per cattive condizioni di lavoro, bassi salari, massicci licenziamenti; o dei minatori della grande miniera di rame di Chambisi, anch’essa controllata dai cinesi, dove due anni fa un’esplosione provocò 50 morti.
Il Sud Africa – primo partner africano della Cina – ha dovuto limitare, su pressioni di imprenditori e sindacati, l’import di beni di consumo (soprattutto del tessile, della plastica), per lo più a basso prezzo e di povera qualità di cui la Cina inonda l’Africa, rischiando di mettere in ginocchio non solo le industrie africane degli stessi settori, ma anche lo stesso piccolo commercio africano al dettaglio, in cui si moltiplica la presenza di venditori cinesi.
Infine, in alcune città (come Luanda) e nelle zone economiche la cui formazione (tre o cinque) è stata annunciata da Hu nasceranno vere e proprie china-town. Separate. I cinesi non amerebbero – sembra – mescolarsi con i locali.
Il neocolonialismo cinese
I critici parlano di “neocolonialismo” cinese. L’Africa esporta materie prime e importa beni cinesi per lo più di bassa qualità. Inoltre si riversa in Africa un’immigrazione consistente di forza di lavoro qualificata (ufficialmente si contano circa 100mila cinesi), ma anche di piccoli operatori. Senza trasferimento di know how ai locali. Né con grandi vantaggi occupazionali.
Tuttavia, la Cina gode ancora di un larghissimo credito. È vista da molti come generoso donatore, che fronteggia anch’essa non pochi problemi di sottosviluppo e povertà. Se non come modello di sviluppo. Hu nel suo viaggio ha annunciato programmi di cooperazione tesi a rafforzare l’agricoltura, l’industria leggera (specie alimentare e farmaceutica), le telecomunicazioni, il turismo (specie in Mozambico, dove provvederà anche a migliorare il governo delle acque).
Il petrolio africano
L’obiettivo primario della Cina è il petrolio africano. Il 25% del suo fabbisogno è fornito oltre che dai paesi del Golfo di Guinea (Guinea equatoriale, Congo Brazzaville, Nigeria, Gabon), dall’Angola e dal Sudan. L’Angola si è sostituito all’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio della Cina, cui vende il 25% della sua produzione (1,4 milioni di barili al giorno nel 2006, destinati a diventare quest’anno 2,2).
Qui la cinese Sinopec opera assieme all’angolana Sonangol. All’Angola Pechino ha destinato negli ultimi due anni crediti, sostenuti dal greggio, per oltre 3 miliardi di dollari. Ricostruisce la grande linea ferroviaria costiera che arriva fino al Congo. E costruisce aeroporti, ospedali, dighe, strade.
In Nigeria si è consolidata la cooperazione tra le cinesi Petrochina e CNOOC (specializzata nell’offshore) e la nigeriana NNPC. Nel 2006 la Cina ha investito 2,3 miliardi di dollari in una joint venture sino-nigeriana per lo sfruttamento di un grande giacimento offshore, e 4 miliardi per licenze di perforazione e sfruttamento di altri quattro “blocchi” offshore. E ,come anche in Angola, è divenuta compete attivamente con le major occidentali.
Il ruolo centrale del Sudan
È stata la mèta più importante sotto il profilo energetico e quello politico, del viaggio di Hu. Il Sudan, di cui la Cina è l’unico grande partner commerciale, produce 300 mila barili al giorno, con l’obiettivo di passare quanto prima a 700 mila. L’80% del suo greggio va in Cina, presente in quel paese con CNPC e SINOPEC.
Inoltre, costruisce un oleodotto di 1700 km che dovrebbe raggiungere Port Sudan, sul Mar Rosso, dove la China Petroleum Engineering sta costruendo un grande terminal. Parte del Sudan, specie la capitale Khartoum, vive un vero boom da iniezioni massicce di petrodollari. Finora Pechino non aveva dato alcun peso alle accuse rivolte al regime islamico di Omar al Bashir, considerato dagli osservatori internazionali il maggior responsabile del conflitto nella regione meridionale del Darfur.
Qui, dal 2003, infuria una guerra civile che ha causato 200 mila morti e 2,5 milioni di profughi. I cinesi si sono finora opposti all’invio di un più consistente contingente di peacekeeper dell’ONU e dell’Unione Africana (UA) in Sudan e a sanzioni nei suoi confronti. Non solo: Pechino avrebbe fornito a Khartoum rilevanti quantitativi di armi, se non cooperato alla costruzione di una fabbrica di armi.
La “non ingerenza” e l’ “incondizionata” prosecuzione degli affari in Sudan sono stati di fatto un segno di complicità. Ed ecco che Hu, in questo suo viaggio, raccolti gli appelli dell’UA, dell’ONU e della comunità internazionale, ha sollecitato il riluttante al Bashir a risolvere con mezzi politici la crisi del Darfur. Si tratta di una resipiscenza di Hu sui diritti umani ? Di un abbandono del principio del “pragmatismo” ? Non diremmo.
Pechino deve tener conto da una parte della crescente ostilità verso Khartoum dei suoi partner dell’Africa Nera: nel Darfur la popolazione nera, cristiana e animista è la vittima dell’esercito sudanese e delle milizie islamiche. Dall’altra, del fatto che il conflitto tocca importanti aree del petrolio che interessano direttamente Pechino. Per esplorarle e sfruttarle al meglio, la stabilità e la pace sono condizioni indubbiamente migliori della guerra. Da qui è venuta la svolta di Hu. Il quale ha capito che non sempre cinismo fa rima con pragmatismo.