L’Occidentale 15 Febbraio 2017
L’unica sintesi possibile, realistica ed auspicabile tra globalizzazione e neo-nazionalizzazione è quella della ricostruzione di uno spazio sovranazionale fondato non sul relativismo, ma sulla comunanza tra tradizioni, princìpi, culture, concezione dell’uomo e della comunità tra loro compatibili.
di Eugenio Capozzi
Per anni i molti movimenti di ribellione sorti contro le élites politiche occidentali sono stati genericamente catalogati come “antipolitici” o “populisti“. Una serie di avvenimenti tra il 2016 e queste ultime settimane – su tutti, la Brexit e l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca – ha però contribuito in misura decisiva a fare chiarezza sull’effettiva natura del conflitto in corso e delle forze coinvolte.
I fenomeni politici contrapposti alle classi politiche e alle istituzioni inserite nel “sistema” del mondo transnazionale/globalizzato condividono, infatti, un comune fondamento comunitarista e lato sensu “protezionista“, declinato volta a volta in due modi diversi: o come difesa della società di un paese dalle incertezze del mercato globale e dalle regole di finanza pubblica imposte da istanze sovranazionali; ovvero, più ampiamente, come rivendicazione della sovranità nazionale contro ogni tipo di “invasione” dall’esterno, cioè in senso propriamente nazionalista – o, come oggi usa dire, “sovranista”.
È proprio il sovranismo, che sempre più si presenta come cultura politica emergente tra le destre occidentali, a prevalere di gran lunga tra i “populismi” contemporanei. Tanto da far pensare (come ha sostenuto recentemente in un commento sul “Messagero” lo storico Alessandro Campi) che il termine “populismo” sia sostanzialmente inutile, e che la vera sfida davanti alla quale si trova la nostra epoca sia quella tra “mondialismo” e nuovi nazionalismi.
D’altra parte, la tendenza a limitare o addirittura abolire i vincoli sovranazionali (sia economici che istituzionali) per salvaguardare il tenore di vita di una popolazione all’interno dei propri confini finisce per confluire inevitabilmente, in qualsiasi senso la si declini, nel sovranismo. Se movimenti populisti “di sinistra” (per quanto tale categoria si possa applicare ad essi solo con molti distinguo) come Podemos, Syriza o i 5 Stelle invocano per i loro paesi l’uscita da Euro, Ue, Nato e la totale autonomia della politica economica, non fanno altro che proporre una soluzione nazionalista.
Essi si differenziano dalle forze nazionaliste di destra semplicemente perché non applicano lo stesso principio alla questione dell’ordine pubblico, della difesa militare, della lotta al terrorismo e soprattutto dell’immigrazione.
In realtà l’avvento al potere di movimenti nazionalisti nel nucleo centrale dell’Occidente – di cui l’elezione di Trump è stato il segnale più macroscopico – segna inequivocabilmente (come ha scritto Antonio Pilati nell’articolo “Una globalizzazione è finita” sul “Foglio” dell’8 febbraio) la conclusione di una prima fase dell'”era globale“. Si è esaurito, cioè, lo slancio rivoluzionario dell’economia e della politica mondiale che ha prodotto una straordinaria crescita in aree del mondo precedentemente povere ed arretrate, ma ha anche prodotto enormi squilibri nel campo euro-occidentale.
Quella rivoluzione ha infatti disgregato l’apparato produttivo di molti tra i paesi più industrializzati; ha drammaticamente impoverito la loro classe media, e gran parte di quella operaia; ha generato l’integralismo islamico antioccidentale; ha provocato enormi ondate migratorie che hanno a loro volta alterato gli equilibri culturali e identitari in Europa, America, Australia. Il tutto nel quadro di un Occidente ridotto sempre più ad una grande massa di consumatori a debito privato e pubblico, devoti a un edonismo sempre più iper-individualista e privo di ideali condivisi, sempre più vuoto di famiglie e di giovani, sempre più anziano ed impaurito dal futuro.
Nonostante tali gravi scompensi, l’establishment politico, economico, intellettuale, mediatico occidentale ha continuato imperterrito a predicare un universalismo astratto, slegato dalla realtà, fondato sull’idea di infinite opportunità di realizzazione individuale, di infiniti ampliamenti dei desideri di ciascuno, di un’automatico progresso verso la convivenza pacifica e l’integrazione tra le culture, e anzi addirittura di un ineluttabile e benvenuto dissolvimento delle culture e delle tradizioni in un unico, indistinto milieu assolutamente relativista (del quale un segno macroscopico è proprio il rifiuto ostinato di riconoscere nella sua effettiva realtà la guerra senza quartiere dichiarata all’Occidente dall’integralismo islamico).
È in questo contesto che va collocato il brusco risveglio sovranista degli ultimi anni: si tratta della rivolta sempre più generalizzata contro una ormai soffocante ortodossia che le popolazioni occidentali colgono come un inganno manifesto, in palese contrasto con le loro crescenti paure di impoverimento, di invasione, di declino. Da qui, da un lato all’altro dell’Atlantico, la riscoperta dei confini come elementi di sicurezza, identità e libertà, e come difesa dei livelli di vita percepiti come irrimediabilmente corrosi dalla tempesta mondialista.
In qualsiasi modo si giudichino le issues sovraniste, è comunque ormai certo che un colossale processo di riassestamento del moto espansivo della globalizzazione si è messo in moto, e non sarà con anatemi moralisteggianti o demonizzazioni contro le forze neo-nazionaliste che le residue élites transnazionaliste riusciranno a governarlo.
La nuova fase storica che stiamo attraversando pone in realtà tutti gli occidentali di fronte ad un’alternativa secca e drammatica: salvare gli essenziali progressi compiuti grazie alla globalizzazione, assicurandone il consolidamento nel tempo, o lasciare che il riflusso anti-globalista e comunitarista oggi in corso si traduca in una involuzione complessiva dei rapporti planetari, produttrice di impoverimento generalizzato e di aumento incontrollabile dei conflitti.
Il mondialismo “ingenuo” non ha futuro. L’unica sintesi possibile, realistica ed auspicabile tra globalizzazione e neo-nazionalizzazione è quella della ricostruzione di uno spazio sovranazionale fondato non sul relativismo, ma su una aggregazione di tipo “civilizzazionista“, cioè sulla comunanza tra tradizioni, princìpi, culture, concezione dell’uomo e della comunità tra loro compatibili.
La storia mondiale degli ultimi 20 anni ha confermato sostanzialmente gli scenari che erano stati tratteggiati, poco dopo la fine della guerra fredda, da Samuel Huntington nel suo “Scontro tra le civiltà”. Le grandi linee di frattura che si sono aperte nel mondo globalizzato non sono tanto economiche e sociali, quanto culturali e spirituali. Alla luce di questa consapevolezza, occorre ripensare al rapporto tra nazioni e dimensione sovranazionale: superando il pessimismo totale di Huntington, che riteneva impossibile per ciascuna “faglia” di civiltà integrarsi realmente con le altre.
Questo significa essenzialmente pensare ad una grande area politica ed economica comune incentrata sul nucleo della civiltà di origine europea, tra America del Nord, America Latina, Commonwealth britannico, Europa continentale, Russia. Un’area culturalmente coesa che permetta la effettiva convergenza tra politiche economiche, stili di vita, difesa della dignità e della qualità della vita, strutturazione pluralista della società e delle istituzioni.
Una confederazione euro-cristiana che riparta dalle nazioni e dai popoli, con la minor quantità di confini possibili al proprio interno, e la possibilità di aprirsi all’integrazione con altre aree se e quando le condizioni della politica mondiale lo permetteranno. L’alternativa ad un simile progetto non è una governance transnazionale o un tessuto universalistico che non esistono più (se mai sono esistiti), ma il ritorno all’anarchia del bellum omnium contra omnes tra Stati e imperi.