International Family News 15 Agosto, 2020
Clamoroso: un importante periodico di psichiatria fa marcia indietro e smentisce se stesso
Joseph Grabowski
Nell’autunno 2019 l’American Journal of Psychiatry ha pubblicato un documento dal titolo complesso: Reduction in Mental Health Treatment Utilization Among Transgender Individuals After Gender-Affirming Surgeries: A Total Population Study, «Riduzione dell’utilizzo di trattamenti per la salute mentale fra le persone trans gender a seguito di interventi chirurgici per l’affermazione di genere: uno studio demografico totale».
Nel comunicato stampa, rilasciato a suo tempo dall’American Psychiatric Association, la prima frase chiarisce il punto principale dell’intero studio: «Nelle persone transgender, gli interventi chirurgici per l’affermazione di genere possono condurre a benefici a lungo termine per la salute mentale».
Nel riepilogo generale gli autori stessi spiegano in termini simili la conclusione principale della ricerca, sottolineando che si tratta del primo studio di questo tipo, cioè uno «studio sulla totalità della popolazione delle persone transgender».
Gli autori scrivono che «la corrispondenza fra chirurgia per l’affermazione di genere e ridotta probabilità di trattamenti per la salute mentale supporta la decisione di intervenire chirurgicamente in vista dell’affermazione di genere delle persone trans gender che lo richiedano».
Detto con parole semplici, gli autori affermano che è meno probabile che le persone che abbiano subito interventi chirurgici per cambiare sesso ricorrano a trattamenti di salute mentale per curare ansia o sbalzi di umore e usano questa “prova” per invocare una liberalizzazione della chirurgia per la riattribuzione del sesso. Media e lobby varie hanno ovviamente celebrato questi risultati con enfasi.
Ma, dietro le quinte, il documento è stato pure parecchio criticato da altri accademici, che hanno espresso preoccupazione. E alla fine si è scoperto che le critiche sono corrette, dal momento che sia gli estensori del documento sia il periodico che lo ha pubblicato hanno diffuso, questa volta senza clamori, una “correzione” per annunciare che la conclusione del primo era semplicemente falsa.
La notizia del dietrofront è stata rilanciata da Ryan Anderson della Heritage Foundation e da un servizio della CBN News, ma su tutti gli altri media nulla. Ora, non è affatto un’esagerazione affermare che la “correzione” è il ribaltamento totale del documento originale, sia per quanto riguarda i risultati dichiarati sia per le conclusioni prescrittive.
Il punto centrale della correzione dice infatti: «Gli autori, come richiesto, hanno analizzato nuovamente i dati, confrontando gli esiti fra persone [trangender] […] che abbiano subito trattamenti chirurgici per l’affermazione di genere e chi […] non ne ha ricevuti. […] Nella comparazione i risultati hanno dimostrato che non vi è alcun beneficio nel ricorso alla chirurgia, in relazione a successive visite o a prescrizioni sanitarie legate a disturbi dell’umore o dell’ansia o a ricoveri ospedalieri a seguito di tentativo di suicidio».
La natura assertiva della conclusione originale rende semplicemente farsesco che questo ribaltamento completo non sia stato notato come merita. Non si tratta infatti di futili questioni accademiche o di un dibattito su qualità eteree svolto in qualche torre d’avorio nebbiosa e remota: la questione incide concretamente e praticamente sulla vita delle persone e sulla loro salute. I
l documento si rivolgeva espressamente agli operatori sanitari e sottolineava raccomandazioni già espresse da gruppi come l’Associazione professionale internazionale per la salute delle persone transgender, in base alle quali i trattamenti ormonali e gli interventi chirurgici debbono essere forniti a chi ne facesse richiesta per «alleviare lo stress generato dalla discordanza persistente fra genere percepito e sesso assegnato».
Casualmente, però, come nota Anderson, «i risultati originari avevano già dimostrato che non vi sono benefici nella transizione ormonale». Insomma, la correzione chiarisce che i pericolosi interventi chirurgici di mutilazione comuni durante la “transizione” (mastectomie, isterectomie e castrazioni sono fra i principali) non danno benefici chiari per la salute mentale.
Sorge dunque una domanda: quanti pazienti e quanti medici sono stati spinti a intraprendere azioni irreversibili sulla base del documento originario e della sua accettazione? Forse non si saprà mai, ma tutti i media che hanno rilanciato la pubblicazione dello studio originario hanno il dovere di fare almeno ammenda, pubblicando la “correzione” con pari enfasi e pari importanza.
Stiamo già trattenendo il respiro nell’attesa che lo facciano.