Trivelle. Ecco perché voterei NO

piattaforme_petrolioLa Croce quotidiano 22 marzo 2016

Dalle colonne del quotidiano dei Vescovi italiani è giunto l’invito a dibattere, in seno alla comunità cristiana, la questione cui si lega il quesito del referendum del prossimo 17 aprile, ossia quello circa le trivellazioni gas-petrolifere entro 12 miglia dalla costa. Un c.d. “ecoscettico” prova a rispondere, sulla scorta degli studi di Michela Costa, geologa siciliana. E rigettando un’impostazione manichea

di Giuseppe Brienza

Confesso che il “quotidiano dei cattolici” Avvenire, per quanto riguarda l’aspetto politico-culturale (non certo gli articoli di bioetica o il Magistero, pontificio o episcopale, che opportunamente riporta), mi risulta sempre più indigesto. Nonostante questo, devo dire, credo sia necessario leggerlo e comprarlo in edicola quanto più possibile (quest’ultima cosa, almeno prima che “La Croce” non torni cartaceo!)

Come sappiamo, il 17 aprile prossimo si voterà al referendum sulle trivelle: ai cittadini verrà chiesto se vorranno che vengano fermati i 21 giacimenti in attività nelle acque italiane, entro le 12 miglia dalla costa, quando saranno scadute le concessioni. Questa domenica su Avvenire c’era una paginata dedicata all’appello che monsignor Galantino ha lanciato ai cattolici italiani perché approfondiscano il dibattito sul referendum. L’arcivescovo di Pescara Tommaso Valentinetti ha fatto eco al segretario della CEI chiedendo di «superare la logica della sola dipendenza dagli idrocarburi», mentre l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro si è schierato per un «ragionevole fondamento al “Sì” al referendum del 17 aprile», perché «le ferite della nostra terra sono già molte e non devono aumentare» (cit. in Referendum trivelle, i «sì» si fanno sentire, in “Avvenire”, 20 marzo 2016)

Mi sembrano appelli e riflessioni del tutto legittimi, perché l’ambiente fa parte della Dottrina sociale della Chiesa. Devo dire che, comunque, “bruciano” un po’ a tanti di noi che, su altre questioni aperte e ritenute più importanti, si sarebbero aspettati dai nostri Vescovi più presenza e più chiarezza. Comunque, è giusto seguire l’invito dei pastori e, quindi, grazie a queste colonne, scrivo le note che seguono non da specialista ma da persona che, da tanti anni, segue un filone culturale etichettato come “eco-scettico” (lo scienziato più famoso tra gli ecoscettici nostrani è il chimico Franco Battaglia, dell’Università di Modena)

Anche se ho dato subito questo “biglietto da visita”, credo non sia giusto semplificare il voto al referendum del 17 aprile affermando che i fautori dei “SI” sarebbero appiattiti su “Greenpeace” ed i fautori del “NO” sull’Eni. I primi ne farebbero una questione di sopravvivenza dell’ecosistema marino, i secondi assicurano che «non vi sono criticità» nel trivellare entro le 12 miglia dalle coste.

Personalmente, dopo aver letto lo studio pubblicato su facebook da una geologa siciliana, Michela Costa, subito definito da Greenpeace Italia «molto parziale, disinformato, tendenzioso» (https://www.facebook.com/GreenpeaceItalia/?fref=nf), penso di pensarla come lei. Cioè anch’io non andrò a votare e, se proprio fossi costretto, voterò NO.

Sull’associazione “non violenta” e “pacifista” mi ha colpito molto quanto scrisse qualche anno fa Patrick Moore, che è stato uno dei fondatori di Greenpeace, da cui successivamente si è dissociato. Consiglio in particolare il suo libro “L’ambientalista ragionevole. Confessioni di un fuoriuscito da Greenpeace” (Dalai editore, Milano 2011), nel quale, in oltre 500 pagine, spiega come, dalla metà degli anni Ottanta (era stata fondata a Vancouver nel 1971), la dirigenza di Greenpeace si sia totalmente intrisa di ideologia ambientalista abbandonando le originarie “battaglie verdi”. D’allora nell’associazione molte cose cambiarono e le attività assunsero un taglio ed obiettivi non del sempre “disinteressati”.

Quando la nostra geologa Costa esordisce il suo studio sui “no triv” denunciando quanto sia «abbastanza facile restare impressionati da una campagna di Greenpeace che ci fa vedere le immagini del povero gabbiano tutto sudicio di petrolio che tenta disperatamente di aprire le ali», da irriducibile anticonformista che sono subito entro in l’empatia con lei. Per il resto, comunque, Michela Costa illustra in maniera sostanziosa e sintetica gli 8 convincenti motivi per cui sarebbe meglio non andare a votare.

Eccoli:

«1) Lo stop che prevede il referendum riguarda più il gas metano che il petrolio. In Italia il petrolio, l’oggetto più demonizzato dalle campagne “No-Triv”, viene estratto per la maggior parte a terra e non in mare. Gli impianti che saranno oggetto del referendum estraggono fondamentalmente metano, che sebbene fossile, è una fonte di gran lunga meno dannosa del petrolio e ancora per molti versi insostituibile (attualmente il 54% dell’offerta energetica mondiale). […]»

«2) la vittoria del SI porterà comunque alla costruzione di altri impianti. La costruzione di piattaforme entro le 12 miglia è vietata per legge dal 2006 (comma 17 dell’art. 6 del D.Lgs 152/06) e su questo possiamo stare sereni. La vittoria del SI non potrà, però, impedire alle compagnie di spostarsi e costruire nuovi impianti poco oltre questo limite. […]»

«3) La vittoria del SI non scongiura un rischio ambientale, anzi, contribuisce ad aumentare l’export petrolifero e quindi anche l’inquinamento. Ora, immaginiamoci un disastro ambientale, un grave incidente a una piattaforma petrolifera posizionata “correttamente” e cioè oltre il limite delle 12 miglia. Pensate davvero che un miglio, 5 miglia o anche 20 miglia possano fare la differenza? Sarebbe comunque una catastrofe e nessun vascello di Greenpeace o panda del WWF potrà correre avanti e indietro e fare da barricata all’avanzare del petrolio verso le coste. […]»

«4) La vittoria del SI non si traduce in una politica immediata a favore delle energie rinnovabili che a conti fatti da sole non possono ancora bastare. Cosa vi aspettate, che all’indomani della cessazione delle attività nelle piattaforme, l’Italia magicamente si sosterrà solo con le rinnovabili? Siamo d’accordo che l’utilizzo dei combustibili fossili non sia una pratica sostenibile. Ma appunto per questo bisognerebbe puntare non alla costruzione di altri impianti, bensì allo sfruttamento residuo di quelli già esistenti che devono fare da supporto alle energie rinnovabili sempre più in crescita ma non ancora autonome. […]»

«5) Il referendum è illegittimo, fa leva sulla disinformazione dei cittadini e sulla cattiva immagine che una trivella ha nell’immaginario comune. Non è un referendum lo strumento più adatto per risolvere un tema così complesso e così tecnico. O meglio, potrebbe esserlo se fossimo tutti degli esperti di coltivazione d’idrocarburi, ma non lo siamo. Trivellare non vuol dire necessariamente essere contro le politiche green, anzi, la normativa di settore è piuttosto severa e restrittiva nei confronti delle concessioni e degli adempimenti a cui le compagnie devono prestare attenzione».

«6) Non è vero che la presenza degli impianti abbia ostacolato il turismo… Se così fosse, il litorale romagnolo (dove ci sono il maggior numero di impianti) non registrerebbe ogni stagione i flussi turistici che sono invece ben noti. Così anche la Basilicata. In poche parole il turista da peso ad altre cose, e non alla presenza delle piattaforme»

«7) …e non è vero neanche che l’estrazione di combustibili dal sottosuolo può innescare terremoti come quello avvenuto anni fa in Emilia. Questa è un’argomentazione piuttosto tecnica di cui non auguro la lettura integrale nemmeno al mio peggior nemico, ma se volete trovate le conclusioni del rapporto a pagina 56 e successive di questo documento».

«8) La vittoria del SI contribuirà allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo. Dal momento che nel giro di qualche anno verranno dismesse le nostre piattaforme e che il passaggio verso le rinnovabili è ancora qualcosa di molto lento, la vita continua e noi dovremo pur accendere i fornelli di casa e per farlo ci servirà ancora del metano. Metano che le compagnie si dovranno andare a cercare da qualche altra parte e che ci venderanno (a costi più cari, ma questa è un’altra storia che ricorda tanto quello che successe per il nucleare)» (Michela Costa, Referendum Trivelle: “ecco perché io non andrò a votare e se proprio fossi costretta, voterei NO”, in O&R. Ottimisti e Razionali, 17 marzo 2016- http://ottimistierazionali.it/).

Da quanto letto, quindi, il quesito non sembra affatto semplice come possa a prima vista sembrare. Come di consueto, l’informazione ha contribuito ad alimentare il caos innanzitutto perché parla di petrolio, mentre i giacimenti in questione sono soprattutto di gas, accampa che in gioco ci sono l’abolizione delle trivelle”, mentre il quesito riguarda quelle vecchie già funzionanti da un trentennio a questa parte.

C’è poi la questione politico-istituzionale. Il referendum, infatti, è stato promosso da alcune regioni che temono di perdere il loro potere decisionale. A settembre 2014, infatti, è stato approvato il decreto “Sblocca Italia” sulle grandi opere, alcune norme del quale hanno previsto limitazioni nel coinvolgimento delle regioni.

Come ha scritto in un molto ragionevole editoriale il direttore della testata politica on line “Formiche.net”, «mentre i No Triv cianciano di sì alle rinnovabili, di disastri ambientali imminenti e di altre amenità, bastava dire che il Sì al referendum condanna alla chiusura impianti già esistenti, da cui l’Italia ricava oggi circa l’8% del gas che consuma, e al licenziamento migliaia di dipendenti. Inoltre saremmo costretti a importare dall’estero, a costi e rischi superiori, tutto ciò che non produrremmo più dai giacimenti italiani. Conclusione: il Sì produce una sicura perdita economica senza alcun vantaggio ambientale. Buon voto (o non voto) a tutti» (Michele Arnese, Renzi, il Pd e la guerra vinta dai No Triv di tutti i partiti, in “Formiche.net”, 18 marzo 2016).

Quindi non costringetemi, altrimenti se proprio devo andare a votare il 17 scriverei NO.