La Conferenza episcopale turca si dice favorevole ad un ingresso nella UE a patto che la minoranza cristiana sia riconosciuta e tutelata. «Quel che dobbiamo chiedere non è una generica tolleranza, ma vero rispetto» Dice a Tempi monsignor Fisichella, in pellegrinaggio con quaranta parlamentari italiani nella penisola anatomica
di Nicola Imberbi
E la Turchia è, a ragione, un luogo simbolo. Le sue città raccontano della predicazione di Paolo, di Pietro, della presenza di Maria. Eppure, in questa nazione così originariamente cristiana, il cristianesimo non ha cittadinanza. Le chiese, le poche che ancora possono essere chiamate tali, sono nascoste tra schiere di case e, si dice, è un bene che sia così, altrimenti non ci sarebbero. Il resto è ridotto a un museo.
La prima percezione che assale chi visita la Turchia di oggi, la Turchia democratica e laica che chiede a gran voce di entrare in Europa, è l’idea di un cristianesimo come fatto del passato, qualcosa di buono per un museo, non certo per la vita. I numeri parlano chiaro. Nel 1927 i cristiani in Turchia erano 900 mila su una popolazione totale di 13 milioni di abitanti.
Nel 2001 erano 150 mila e oggi nessuno sa quanti siano o, meglio, quanti ne siano rimasti. Molti sono fuggiti in Europa per poter vivere liberamente la propria fede. Quelli che sono rimasti sono stati costretti ad assumere un nome e un cognome turco per poter lavorare. Qualcuno, addirittura, si riunisce segretamente per celebrare le funzioni religiose. I pochi che ancora ci sono aspettano con ansia una visita di Benedetto XVI.
Nel frattempo la Conferenza episcopale turca ha stilato un documento nel quale, dichiarandosi favorevole all’ingresso della Turchia in Europa, pone alcune condizioni imprescindibili per la sopravvivenza dei cristiani nel Paese: innanzitutto una parola chiara sulla proprietà delle chiese (oggi per celebrare la Messa in alcune chiese cristiane occorre chiedere il permesso al Comune che è proprietario della struttura), poi la possibilità di aprire dei seminari, un po’ di elasticità nella concessione dei visti per i missionari (che il governo accusa di proselitismo) e il riconoscimento della Chiesa come ente morale (la parrocchia tedesca di Istambul, ad esempio, si è dovuta trasformare in una Spa per gestire i propri beni).
Ma la cosa fondamentale è sicuramente il riconoscimento giuridico della minoranza religiosa cristiana. Oggi il governo riconosce solo quattro minoranze: gli ortodossi bulgari, gli armeni, gli ebrei e i greco-cattolici. Senza riconoscimento giuridico in Turchia i cristiani non esistono. Come comportarsi? «E’ necessario – dice monsignor Fisichella a Tempi – avere una conoscenza sempre più profonda della Turchia, un paese che manifesta diverse sfaccettature.
Dopo Ataturk, infatti, la Turchia ha saputo recuperare rispetto alle conquiste che l’Occidente ha fatto nei diversi secoli di storia. Inoltre la Turchia è un’autentica Terra Santa, un luogo privilegiato dove si può esprimere una nuova sintesi, un incontro tra fede e diverse espressioni culturali». Un dialogo che, però, tarda a venire bloccato da una laicità che privilegia la libertà religiosa formale a quella sostanziale.
«La Turchia – continua Fisichella – è un paese laico. Ma la laicità dello Stato per essere tale dovrebbe promuovere forme di autentica e genuina presenza nel rispetto delle diverse religioni anche se una di queste è minoritaria». “Rispetto” è questa la parola chiave che secondo il rettore dell’Università Lateranense va approfondita. Non tolleranza, ma rispetto.
Mamma li turchi
«Più la Turchia guarda alle forme di sana laicità presenti in Europa – riprende Fisichella – più può aspirare a far parte di questa Comunità». Ma come può una nazione in cui i cristiani sono tornati a vivere nelle catacombe ambire ad entrare nell’Unione Europea? Cosa possiamo fare noi per aiutare coloro che, tra mille difficoltà, continuano a testimoniare la loro fede? «Le situazioni difficili non devono spaventare i cristiani – risponde -. Certo, noi diciamo questo vivendo una situazione diversa. Ma bisogna sempre ricordare che uno Stato che vieta l’espressione di una fede, non umilia i credenti ma se stesso.
Uno Stato che impedisce la libertà religiosa umilia se stesso perché esprime attraverso una forma totalitaria ciò che dovrebbe essere patrimonio della democrazia. Lo Stato non può intervenire nel giudicare esperienze di vita cristiana o diverse esperienze di fede. Se fa questo viene meno la laicità e umilia se stesso» In questo scenario è impossibile non guardare con preoccupazione all’apertura dei negoziati (3 ottobre) che potrebbero portare la Turchia nell’Unione Europea.
L’Europa appare ancora troppo fragile e priva di un’identità chiara per aprirsi a un mondo così culturalmente diverso. «L’Unione Europea – commenta Fisichella – deve mantenere ferma la propria vocazione verso l’unità. Certo, si dovranno fare delle scelte per non dare l’impressione che questa unità pone al primo posto l’economia.
A differenza degli Usa, l’UE manca di una lingua comune, manca di una cultura comune ed è stato emarginato ciò che avrebbe permesso il recupero di un fondamento unitario come la tradizione cristiana». «Non facendo emergere questi elementi – continua – è ingenuo pensare di proporre un allargamento con Paesi cha hanno un’altra esperienza culturale, linguistica e religiosa distante dai Paesi dell’Europa classica.
Anche l’unità territoriale, che abbraccia naturalmente la Turchia, non è sufficiente per estendere un progetto unitario. Oggi l’unico elemento chiaro di unità è quello economico con l’introduzione della moneta unica. Sembra abbastanza evidente che la proposta più immediata da avanzare alla Turchia sia quella dell’unità monetaria e economica. Ma, poiché i Paesi della UE sono ancora lontani da un progetto genuinamente unitario mi sembra pericolosa un’ulteriore frammentazione di questo progetto che richiede ancora molto impegno per il futuro»