28 maggio 2019
di Giuliano Guzzo
La definitiva consacrazione della Lega di Matteo Salvini a queste elezioni europee ha loro malgrado costretto i commentatori ed osservatori politici a tornare a commentare un tema per loro ostico: quello del populismo e del sovranismo.
Diciamo ostico perché, benché dall’esplosione di questo fenomeno politico – risalente al 2016 con la Brexit e la vittoria elettorale di Donald Trump -, siano ormai passati anni, non pochi seguitano a relazionarsi ad esso con chiavi di lettura del tutto inadeguate, che vanno dalla presunta pericolosità delle fake news all’ignoranza, fino razzismo e addirittura al neofascismo che serpeggerebbero minacciosi tra l’elettorato anti-sistema.
Bufale che è arrivato il momento di smascherare una volta per tutte. Perché, anche se non sarà forse esaustivo per comprenderne che cosa sia, capire una volta per tutte che cosa il populismo non è costituirebbe comunque, a ben vedere, un passo avanti. Passiamo dunque ora ad esaminare, in una breve rassegna critica, i maggiori miti antipopulisti.
Fake news
Il primo mito antipopulista è quello delle fake news senza le quali, assicurano in molti, la nuova bizzarra stagione politica – a partire dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – non avrebbe mai avuto luogo. D’accordo, ma quali sono le prove che le bufale internettiane siano in grado di orientare il voto? Semplice: non ce ne sono.
Anzi, è probabile che quella sulle pericolose fake news sia essa stessa una fake news. Questo almeno viene da pensare alla luce di un studio pubblicato sul Journal of Economic Perspective da due economisti – Matthew Gentzkow, dell’Università di Stanford, e Hunt Allcott, della New York University – che ha messo in evidenza come, alle presidenziali Usa del 2016, le bufale sui social media abbiano avuto un impatto molto più piccolo di quanto si possa immaginare, comunque non del tutto quantificabile esattamente e, in ogni caso, ridotto se raffrontato alla capacità persuasiva di uno spot elettorale televisivo.
Sulla stessa lunghezza d’onda si pone una ricerca commissionata dall’agenzia Reuters all’università di Oxford, che ha messo in luce come in Italia, in un dato arco di tempo, non più del 3,5% degli internauti avesse consultato siti di fake news, mentre quelli di Repubblica e Corriere raggiungevano rispettivamente il 50,9 % e il 47,7 % degli utenti.
Attenzione, non si vuole qui sminuire l’importanza della Rete né, tanto meno, quella dei social. Le fake news però sono altra cosa e ritenerle una minaccia per la democrazia è posizione legittima ma non suffragata da riscontri oggettivi, anzi da essi smentita.
Ignoranza
Immancabile tormentone, quando si parla di populismo, è poi quello secondo cui i partiti anti-sistema godrebbero dell’appoggio di un elettorato profondamente analfabeta, non formato e poco istruito. Sfortunatamente per quanti la sposano, anche quest’idea non solo non è accompagnata da riscontri, ma risulta clamorosamente sconfessata.
Lo prova un’accurata analisi a cura di Ipsos Public Affairs che dopo, le elezioni italiane del 4 marzo 2018, ha elaborato dati propri e del Ministero dell’Interno, «spacchettando»il voto. Ebbene, esaminando il voto dei laureati italiani si è scoperto come «il 29,3% di laureati» avesse «messo una croce sul movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, distanziando di ben otto punti il Pd (21,8%), nell’immaginario collettivo il partito dei ceti più colti».
Anche la Lega ha una quota di laureati nel proprio elettorato ma ciò che colpisce, in questa analisi di appena un anno fa, è soprattutto il M5S, partito che a detta di taluni dovrebbe essere supportato in prevalenza da creduloni, scemi del villaggio e terrapiattisti. Ma la realtà dice altro.
Curioso peraltro che a muovere l’accusa di ignoranza alle forze populiste sia spesso il Pd, che aveva per Ministro dell’Istruzione una certa Valeria Fedeli e il cui leader, Nicola Zingaretti, laureato non è. Per non parlare dell’inglese di renziana memoria. Viceversa, tra i parlamentari della vituperata Lega, oggi, capita di imbattersi in figure come Giuseppe Basini, fisico nucleare che ha lavorato al Cern e alla Nasa…
Razzismo
Oltre che creduloni e semianalfabeti, a detta di alcuni gli elettori populisti e sovranisti sarebbero pure razzisti. Manco a farlo apposta, anche questa affermazione risulta smentita dalla realtà. Da anni, se consideriamo il fenomeno politico leghista. Come dimenticare, infatti, gli esiti del IX Rapporto degli Indici di integrazione degli immigrati in Italia curato qualche anno fa dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e dal Ministero del Lavoro.
Esiti che incoronarono come regione avente, con un punteggio di 62.8/100, il più alto indice di potenziale di integrazione degli stranieri il Piemonte. Piccolo particolare: allora, si era nel 2013, quella regione era governata da Roberto Cota, un leghista. Esattamente come leghista è stata la prima sindaca di colore d’Italia, Sandy Cane, e leghista è il primo senatore di colore della storia repubblicana, Toni Iwobi.
Il bello è che se l’associazione tra sovranismo e razzismo è assai dubbia in Italia, appare invece completamente smentita negli Usa, dove Daniel J. Hopkins e Samantha Washington, due studiosi sociologi dell’Università della Pennsylvania, hanno deciso di «misurare» con un’indagine accurata gli effetti dell’elezione di Trump sui pregiudizi contro neri e ispanici, selezionando in maniera del tutto casuale un campione di 2.500 americani le cui opinioni sono state studiate e monitorate sin dal 2008. Risultato: dall’elezione trumpiana, il razzismo yankee è risultato in calo.
Neofascismo
Il quarto ed ultimo mito antipopulista concerne la presunta natura neofascista dell’elettorato sovranista che, come tale, sarebbe intrinsecamente antidemocratico. Un’affermazione, anche questa, che per quanto riguarda l’Italia risulta categoricamente smentita. Infatti forze di estrema destra e inquadrabili – con qualche semplificazione – come neofasciste nel nostro Paese esistono, e sono CasaPound e Forza Nuova. Peccato che alle elezioni europee non abbiano raggiunto, sommate, neppure lo 0,5% dei consensi.
Se pur avendo la possibilità di farlo gli Italiani non votano le forze politiche neofasciste o come tali considerabili, come si spiega allora l’allarmismo, sollevato dalla stampa progressista, sull’«onda nera» che starebbe travolgendo il nostro Paese? Mistero. Tra l’altro, che il populismo non sia affatto antidemocratico è suffragato dalle risultanze di un sondaggio internazionale del Pew Research Center che volto a sondare il tasso di sostegno alla democrazia rappresentativa confrontandolo in persone inclini al populismo nazionale e nei loro oppositori.
Risultato? «I populisti nazionali», hanno scritto gli studiosi del think tank statunitense con sede a Washington commentando quanto rilevato, «sono in effetti a favore della democrazia rappresentativa […] in Gran Bretagna, Polonia, Italia, Olanda, Ungheria, Germania. L’80-90% di questi elettori pensa che la democrazia sia un ottimo modo di governare i rispettivi Paesi».
Gli antidemocratici, verrebbe da commentare, sono semmai coloro i quali vorrebbero limitare il diritto di voto ai laureati, a coloro che vivono in grandi metropoli o, più semplicemente, a quelli che la pensano come loro.
D’accordo, ma se non è figlio delle fake news, dell’analfabetismo, del razzismo e neppure del neofascismo, il populismo che cos’è? Da dove viene, soprattutto?
Per rispondere a questa domanda, occorrerebbe molto spazio. Ci limitiamo perciò, in questa sede, a lanciare uno spunto riprendendo quanto scritto al riguardo Luca Ricolfi, sociologo tutto fuorché di destra: «Per chi vota il popolo? Primo. In molti paesi avanzati i ceti popolari, spesso confinati nelle periferie delle città e delle campagne, non votano più i partiti di sinistra riformista. Secondo. La sinistra riformista raccoglie soprattutto il voto dei ceti medi urbani, dei dipendenti pubblici, dei professionisti del mondo della cultura e dello spettacolo. Terzo. Il popolo vero e proprio preferisce i partiti populisti [….] dietro l’ascesa dei partiti populisti c’è una crescita importante della domanda di protezione, che a sua volta deriva dalla sempre più vasta diffusione di sentimenti di insicurezza, preoccupazione, paura. Ansie che i partiti populisti prendono estremamente sul serio» mentre la «sinistra impegna le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente normale percepisce come tali» (Sinistra e popolo, Longanesi 2017, pp-164-165).
Volendo sintetizzare, potremmo quindi concludere che la difficoltà di tanti giornalisti e osservatori progressisti e liberal nel comprendere il populismo sta nel fatto che essi, per capirlo, studiano i leader populisti e i loro elettorati, mentre basterebbe che facessero un esercizio molto più semplice e difficile al contempo. Guardarsi allo specchio.