Il Populista 6 Settembre 2019
Bisogna pur riconoscere una certa dose di verità all’idea – sostenuta da una parte rilevante dei nostri opinion makers – di una vera e propria allergia a questi strumenti – cosiddetti – di democrazia diretta da parte delle Istituzioni europee. Perché?
di Mauro Rotellini
Vita dura per i referendum popolari nel vecchio continente… In effetti l’Unione europea ha sempre guardato con estremo sospetto a questi strumenti – cosiddetti – di democrazia diretta. Vediamo perché.
L’idea di una maggiore integrazione con la UE venne rifiutata dai danesi. Il Trattato di Maastricht fu approvato dai francesi con un margine dell’1%, ma fu rifiutata seccamente la c.d. “Costituzione europea”. La cura da cavallo per l’economia venne rimandata al mittente con 20 punti percentuali di margine dai greci. L’intero processo d’integrazione europea è stato rigettato ormai più di tre anni fa dal popolo britannico con la Brexit.
Ci fermiamo qua, ma basta per vedere come il rapporto che ha la UE con i suoi cittadini sia molto, molto fragile. Quasi inesistente. E si tratta di un rapporto che – evidentemente – prescinde dai governi in carica nelle nazioni di volta in volta soggette alle consultazioni popolari.
Nel diritto italiano l’esito referendario, accertato con Decreto del Presidente della Repubblica, costituisce, costituisce una vera e propria fonte del diritto primaria, che vincola i legislatori al rispetto della volontà del popolo, il quale può decidere Sì o No su una e singola questione.
D’altronde, anche assumendo per vera la prima parte della famosa affermazione di Winston Churchill (1874-1965) per cui “la democrazia [rappresentativa] è la peggior forma di governo“, non si può prescindere dalla constatazione che per “rappresentare”, deve esistere un rappresentato, che ha sempre la possibilità di ritirare la delega.
Ha giustamente ricordato Sabino Cassese su Il Foglio che, la funzione della rappresentanza moderna, dovrebbe consistere nel “controllare periodicamente i governanti, rinnovandoli o non rinnovandoli […] ed assicurarne il ricambio, la rotazione nell’ufficio, approvare periodicamente programmi e persone incaricate di realizzarli (donde l’importanza di ricordare che essa comporta ripetute elezioni)” (Piano con la democrazia, 23 giugno 2019).
Parole queste che implicano una certa, per quanto imperfetta capacità del corpo elettorale di ritirare la delega data ai propri rappresentanti. Ma la ragione della crisi della democrazia rappresentativa dove sta, allora? Sta anzitutto, a parere di molti, nella incapacità di selezionare il merito.
La società civile non riesce ad individuare e far andare avanti quelli che – al suo interno – sarebbero meritevoli di farlo (meritevoli in base a quali criteri, peraltro non è dato sapere). Insomma il problema sono i partiti. Eppure, di fronte alla decaduta capacità della classe politica di selezionare i propri leader, all’interno dei quali scegliere i rappresentanti, la soluzione che Cassese propone non è quella d’intervenire sui partiti, cercando di rialzarne la capacità di selezione, in primis attraverso la formazione politica, ma agire sul sistema di pesi e contrappesi.
È ancora Sabino Cassese che afferma: “bisogna insistere sui diversi modi di controllare l’esercizio del potere. In fondo, quello che chiamiamo democrazia è uno strumento per limitare il potere. Se essa ha un ambito limitato di azione, occorre agire con altri strumenti, quali la separazione dei poteri, i poteri contrapposti, le investiture separate, la separazione tra indirizzo/controllo e gestione, l’imparzialità dell’amministrazione, le autorità indipendenti, la tecnicità della burocrazia”.
Ma c’è un’altra poco condivisibile (direi triste) constatazione. Questa soluzione non è solo teorizzata, ma ampiamente praticata in primo luogo dalla UE, con saluti cari al “popolo europeo”. Il sistema della rappresentanza politica non funziona?
Ebbene eliminiamolo introducendo un sistema per cui l’eletto – posta sicura la sua inidoneità a svolgere il ruolo a cui è chiamato – venga limitato e costretto da altri poteri, non eletti ma, in gran parte, cooptati (cosa sono i concorsi nella magistratura, ad esempio, se non una cooptazione chiamata in altro modo) e quindi capaci di svolgere il loro ruolo al meglio.
Affermazione palesemente falsa. Il risultato è un governo delle consorterie. Il suo scopo è quello di controllare il potere politico, ma – così facendo – fa assumere ai suoi componenti ruoli, compiti e poteri che non spetterebbero loro. Qui, alla fine, si realizza il paradosso più completo: chi dice di voler salvare la democrazia rappresentativa compie un’analisi della situazione che lo porta ad una terapia sbagliata. Il risultato è la sostituzione della democrazia rappresentativa con la dittatura tecnocratica.
E alla fine ecco il motivo per cui i referendum europei pesano tanto ai tecnocrati dell’UE! Un tecnico di Bruxelles che esprime un parere a sfavore della sovranità di questo o quel Paese non costa nulla, ma al tempo stesso non c’è alcuna garanzia che questa “autorità” si esprima in base a parametri oggettivi e condivisibili.
Semmai c’è la certezza che potrà orientare la propria valutazione anche in relazione al valutato. Ritorniamo così, alla sopraffazione dei “grandi” Paesi nei confronti dei piccoli. Con buona pace degli ideali europeistici….