Due scenari della rivolta nei paesi arabi. Quello dell’Egitto, con un’inedita alleanza tra cristiani e musulmani. E quello della Libia, dove il collasso dello stato spiana la strada all’islamismo radicale. L’analisi di Khaled Fouad Allam
di Sandro Magister
In piazza al-Tahrir, nei momenti della preghiera coranica, i cristiani copti facevano cordone in difesa dei musulmani in ginocchio. Al Cairo sono anche comparsi dei manifesti con la croce e il Corano affiancati, e la scritta in arabo: “Egiziani, una mano sola”.
A giudizio di padre Samir, l’unità tra musulmani e cristiani che si è vista all’opera nei giorni della ribellione è segno che l’islamismo fondamentalista non comanda la svolta in atto, né in Egitto né negli altri paesi del Nordafrica e del Golfo.
Sicuramente, la rivoluzione che oggi sconvolge i paesi arabi non è partita dalle moschee. La più celebre e influente delle moschee sunnite, quella di al-Azhar al Cairo, è apparsa subito fuori gioco. I suoi leader, tutti di nomina presidenziale, pagano anch’essi il prezzo della caduta di Mubarak.
In Egitto, l’unica seria chance che gli islamisti hanno di conquistare il potere è legata alle sorti dei Fratelli Musulmani. Hanno notevole forza organizzativa. Hanno il controllo dei principali ordini professionali: ingegneri, medici, dentisti, farmacisti, commercianti, avvocati. Sono diffusi nelle campagne. Un loro leader, Sobhi Saleh, è presente nel comitato che i militari hanno costituito per riformare la costituzione egiziana. Ed è loro alleato il presidente di questo stesso comitato, l’anziano magistrato Tariq al-Bishri, figlio di un grande imam di al-Azhar.
Ma più che un effetto della loro forza, questa cooptazione dei Fratelli Musulmani dentro il comitato per la nuova costituzione sembra un gesto calcolato dei militari al potere, per controllarli.
Neppure l’exploit dello sceicco Yussuf al-Qaradawi, leader carismatico dei Fratelli Musulmani di tutto il mondo, rientrato al Cairo dopo decenni di esilio per guidare la preghiera di venerdì 18 febbraio in piazza al-Tahrir e arringare la folla, sembra aver piegato la rivolta nella direzione dell’estremismo religioso.
Al-Qaradawi ha esultato per l’abbattimento del “Faraone”, ma la caduta di Mubarak non era certo avvenuta per mano dei Fratelli Musulmani.
Ha raccontato il sogno della liberazione di Gerusalemme dagli infedeli, ma né prima né dopo il sermone nessuna bandiera di Israele è stata bruciata.
Intatte, nei giorni della rivolta, sono rimaste anche le chiese cristiane, oggetto invece di crudeli aggressioni solo poche settimane prima, quando il regime di Mubarak aveva ancora il pieno controllo del paese. Il patriarca dei copti, Shenuda III, ha puntato fino all’ultimo sulla permanenza al potere di Mubarak, dal quale si sentiva più rassicurato che non da un cambio di regime. Ma i copti son scesi nelle strade fin dai primi giorni, a reclamare più libertà.
Padre Samir dice che il sommovimento attuale gli ricorda la rivoluzione egiziana del 1919 contro il Regno Unito che occupava l’Egitto e il Sudan, una rivoluzione non di tipo religioso ma mirata all’indipendenza.
Ma la rivolta che oggi infiamma i paesi arabi, dal Marocco allo Yemen, non si avventa contro potenze straniere: Israele, gli Stati Uniti, l’Occidente. Tanto meno contro i cristiani. I nemici sono interni, sono i regimi tirannici. Le richieste sono elementari. La prima delle rivolte, in Tunisia, è partita dal rincaro del pane.
Khaled Fouad Allam, algerino con cittadinanza italiana, professore di islamistica alle università di Trieste e di Urbino, ha spiegato al quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”, il 22 febbraio, che i protagonisti dell’attuale rivolta sono le giovani generazioni: “I ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pratica religiosa di tipo pietista. L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente accaduto dieci o quindici anni fa. I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano crederlo i loro padri. Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica. Dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne sentiamo”.
E ancora: “Poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta sviluppando una coscienza mondiale della democrazia. Un ragazzo di Algeri che corrisponde via internet con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo paese no. Ciò crea un sentimento molto forte. Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza”.
La rivolta non mostra di avere una direzione precisa. Non ha leader. Non ha grandi organizzazioni. “Durerà molto tempo”, avverte Allam. Senza esiti prevedibili.
Il ritratto che ne esce è quello di un mondo arabo musulmano molto più fragile e disordinato di quello che si usa immaginare. Molto più variegato. Molto più esposto alla secolarizzazione e ai linguaggi della comunicazione globale, universali ma anche incerti di significato.
È un ritratto che corrisponde in modo impressionante a quello vividamente descritto in un libro autobiografico dell’italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci, di cui questo servizio di www.chiesa ha riprodotto un capitolo Anna e i suoi fratelli. I mille volti del vero islam.
Quanto osservato fin qui si applica a quasi tutti i paesi arabi oggi in rivolta. Ma con una eccezione. Questa eccezione è la Libia. È ancora il professor Khaled Fouad Allam a spiegarla, in un commento del 23 febbraio su “Il Sole 24 Ore”, il più diffuso quotidiano finanziario d’Italia e d’Europa. La Libia non è mai stata una nazione omogenea. È un insieme di tribù arabe, berbere e africane, per ciascuna delle quali vale più di tutto lo spirito di corpo. Allo scoppiare della rivolta, rapidamente intere città e regioni si sono rese autonome.
In Libia non vi sono vere e proprie istituzioni statali, non c’è un parlamento, non c’è un esercito che possa assumere il potere, come è avvenuto in Egitto, e assicurare una transizione controllata.
Per Gheddafi la “rivoluzione” era lo stato, e lo stato era lui. Il suo era un “maoismo islamico” depurato dalla tradizione profetica, la Sunna, il che lo rendeva estraneo ed inviso all’insieme dello stesso mondo musulmano sunnita. Paradossalmente, la tirannia di Gheddafi assicurava alla Chiesa cattolica livelli di libertà maggiori che in ogni altro paese musulmano della regione.
La caduta di Gheddafi può quindi coincidere col collasso totale della Libia. Che potrebbe diventare – avverte Allam – “un Afghanistan nel Mediterraneo”. Perché nel caos e nel vuoto statuale troverebbero spazio di presenza e di azione proprio le correnti islamiche più radicali, provenienti dall’Africa e da altri paesi arabi. A dispetto della “laica” domanda di libertà espressa dai giovani che anche in Libia hanno invaso le piazze, in molti casi pagando con la vita.
Un nuovo Afghanistan, con un islamismo incendiario, ricchissimo di petrolio e di gas, al confine con l’Italia e l’Europa.