Reagan è stato uno dei presidenti più grandi, ha conservato e “creato” il paese. E battuto il comunismo
di Marco Respinti
Il 22esimo censimento degli Stati Uniti, compilato nel 2000 dal Bureau of the Census, ha contato a Tampico, un paesello di un chilometro quadrato secco di superficie sperduto nella contea di Whiteside, nello stato dell’Illinois, 205 famiglie per 772 abitanti totali.
Quando un secolo fa come domani, il 6 febbraio 1911, in un modesto appartamento al secondo piano dell’edificio che ospitava la banca locale vi nasceva Ronald Wilson Reagan, sangue scoto-irlandese nelle vene, dovevano probabilmente abitarvi quattro gatti. Ma nulla è impossibile. Rivolgendosi a un gruppo di studenti conservatori e di possibili nuove leve del Partito repubblicano all’inizio degli anni 90, Ron Robinson, presidente della Young America’s Foundation (Yaf) di Herndon in Virginia, ebbe a definire Reagan “il più grande presidente americano di tutti i tempi”.
A chi lo rintuzzò con i bei nomi di George Washington, Thomas Jefferson, John Adams, Andrew Jackson, Abraham Lincoln, Franklin D. Roosevelt e persino il “mito” JFK, Robinson rispose tranquillo che Reagan è stato superiore poiché come quei leader massimi della democrazia statunitense ha “creato” e conservato il paese ma in più ha dovuto fare i conti, come nessuno dei predecessori, con la più crudele e durevole ideocrazia, il comunismo sovietico, che mai occhio umano avesse fino ad allora contemplato. Vincendo.
“Il comunismo – disse Reagan nel maggio 1975 alla radio – non è né un sistema economico né un sistema politico: è una forma di pazzia, un’aberrazione temporanea che un giorno scomparirà dalla Terra poiché è contrario alla natura umana”. Non era la visione di un esaltato, ma la lucida percezione, più e più volte riaffermata in decine di discorsi e d’interventi, che il confronto in corso con l’Unione sovietica era di natura anzitutto morale, persino spirituale, fra la possibilità concreta di un ordine sociale dove l’uomo potesse essere fino in fondo se stesso e la prospettiva dell’“inferno terrestre”.
E questa chiarezza, che lo portò a una determinazione con pochi pari ma sempre con il sorriso, ma sì, caritatevole, sulle labbra, Reagan non se la studiò a bella posa nei fasti di Hollywood.
Derivava da una precisa tradizione culturale, aveva dei maestri, contava persino dei seguaci. Non si spiegherebbe altrimenti perché nel 1998 Ron Robinson si è preso la briga di acquistare la casa di campagna della famiglia Reagan, il “Rancho del cielo” in California, facendone un centro di addestramento per le nuove generazioni che la Yaf forma vuoi sui testi classici di un Russell Kirk (1918-1994), il padre della rinascita conservatrice americana nella seconda metà del Novecento che insegnava la dignità del sentirsi occidentali poiché grandi europei figli di Gerusalemme, Atene e Roma, vuoi alla scuola di consumati maestri della politica sia vecchi (l’ex vicepresidente Dick Cheney) sia nuovi (Sarah Palin).
Del resto, quel ranch ameno sulle Santa Ynez Mountains, a nordovest di Santa Barbara, che Ronnie regalò alla moglie Nancy vedendoci un pezzo di paradiso in Terra, è il monumento imperituro alla maggiore misura di governo adottata da Reagan, il taglio delle tasse operato il 13 agosto 1981. Il più grande della storia degli Stati Uniti. Seduto jeans e stivali sulla sedia di vimini che dalla soglia dominava l’intera sua proprietà, Reagan firmò la riforma del Codice della entrate datato 1954 che innescò una riduzione delle imposte sui redditi del 23 per cento in tre anni.
In cinque anni vennero quindi cancellati 150 miliardi di dollari in imposte sugl’immobili e gabelle sborsate da società e corporation, e così nel 1986 il prelievo annuo effettuato dall’erario nelle tasche degli americani si smagrì di 200 miliardi di dollari. Più liquidi a disposizione, risparmio sicuro, incentivi “naturali” alla produzione: in una formula, stato federale più leggero e più libertà d’intrapresa. La chiamarono “Reaganomics”, era la scuola detta del Supply-side elaborata da Robert Mundell, Arthur Laffer e Jude Wanniski. Fece il giro del mondo, e lo conquistò.
La botta finale ai sistemi collettivisti imperniati sull’economia comandata che sarebbero crollati a fine decennio iniziò, senz’averne l’aria, sulle verdi collinette della sierra californiana.
Adorava, Reagan, scorrazzare a cavallo per quei suoi 688 acri (poco meno di 2.700 volte il villaggio che gli aveva dato i natali) acquistati quando era governatore della California, al secondo mandato. Ci portò pure la regina Elisabetta prestandole la sella preferita della sua sontuosa collezione, un gran lavoro di artigianato italiano – a dire che se i butteri maremmani sono i cowboy originali, oltreoceano è stato il presidente dei presidenti a insignire degli speroni d’oro il nostro Stivale.
Ospitò varie volte pure Margaret Thatcher e poi Mikhail S. Gorbaciov. Chissà se ha mostrato loro quell’albero sulla cui corteccia con il temperino incise un cuore trafitto attorno alle iniziali dell’amata moglie e sue, come uno scolaretto qualunque, lui che è stato il più grande presidente degli Stati Uniti.
Nel 2007, o forse era il 2008, Charles W. Dunn, decano della Regent School of Government di Virginia Beach, una delle cui specialità è la Storia dell’istituzione presidenziale statunitense, iniziò una delle sue magistrali lecture di fronte a una platea di young leader e notabili della cosiddetta “società civile” di mezzo mondo (dal Nepal alla Nigeria, dal Sudamerica all’Australia) lanciando un sondaggino.
Chiese a quel mezzo mondo lì riunito quale fosse il più grande presidente degli Stati Uniti. Mise nel cappello tutti i nomi dei padri e dei protettori della patria, ma vinse ancora Reagan. Perché Reagan è il campione tanto degli americani quanto degli stranieri? La soluzione sta all’ultima riga di questo ricordo.
Quando Reagan se ne andò, il 5 giugno 2004, non sapeva nemmeno più lui chi era, l’Alzheimer lo divorava da anni. Che storia, salvi il mondo e nemmeno te ne ricordi; addirittura, alla donna che ha dato senso alla tua vita un giorno chiedi: “Ma noi non ci siamo già visti da qualche parte?”.
Reagan ha fatto l’attore, sembrava un cowboy e da presidente ha sconfitto l’“impero del male”. Questa storia la conosciamo tutti, un po’ meno come ci sia arrivato.
Dalla remota provincia dell’Illinois Reagan sbarcò nella tentacolare Los Angeles in cerca del sogno americano dopo avere fatto il bagnino ed essersi fatto un po’ le ossa con la radio. Bello, asciutto, aitante, si buttò nel cinema. Niente di davvero memorabile, bisogna dirlo, anche se la sua recitazione era impeccabile. Imparò lì però a rivolgersi direttamente al pubblico solleticandone le corde più sensibili. Una tecnica di comunicazione che oggi, se la vuoi imparare, negli States paghi profumati dollaroni a fior di professionisti che t’insegnano a fare come faceva lui.
A Hollywood, peraltro, fece più il sindacalista che l’attore, divenendo presidente della Screen Actors Guild per ben due volte dal 1947 al 1952 e dal 1959 al 1960. Erano gli anni della “paura rossa”.
La Cortina di ferro era calata nel 1946, dal 1938 (e proseguì fino al 1975 pur avendo cambiato nome nel 1969) operava il comitato della Camera federale sulle attività antiamericane (“un-american”, in originale, è espressione ancora più forte), poi venne il maccartismo e si vedevano spie sovietiche dappertutto. Cioè dove non c’erano, ma anche dove ce n’erano.
D’infiltrati comunisti negli Stati Uniti, infatti, se ne sono nei decenni seguenti scoperti parecchi, persino ad altissimi livelli della politica, Alger Hiss (1904-1996) per tutti, e l’azione d’intelligence messa in campo dai servizi di sicurezza statunitensi nota come “Venosa Project” ha finito per dare ragione al bistrattato senatore Joseph R. McCarthy (1908-1957): non alle sue esagerazioni, ma alla sua battaglia.
Reagan iniziò a combattere il comunismo lì, divenendo confidente dell’Fbi ma senza mai spiattellare al pubblico ludibrio nomi e cognomi di possibili barbe finte. Consigliò di adottare contromisure, per esempio un impegno solenne di non comunismo per gli iscritti al sindacato (17 novembre 1947).
Non erano tempi belli, quelli, quantomeno un numero enorme di americani si sentiva in diritto di non dormire sonni tranquilli. Frank S. Meyer (1909-1972), ex comunista reclutatore di comunisti fra gli studenti, quando mollò tutto per poi unirsi ai conservatori della National Review di William F. Buckley jr. (1925-2008) prese a dormire di giorno in una casa persa nei boschi vegliando di notte con moglie (ex comunista pure lei) e carabina al fianco: era certo che lo avrebbero fatto fuori.
Whittaker Chambers (1901-1961), altra ex spia di Mosca, nel mastodontico “Witness” (1952) vuotò il sacco scatenando un putiferio dentro il dipartimento di stato. Oggi l’invasione del sacro suolo americano è una idea che sopravvive solo nei videogiochi, ma all’epoca pareva ad horas. James Burnham (1905-1987), l’ennesimo ex comunista passato nell’esercito dei conservatori, aveva gli strumenti per comprendere tutto anzitempo (la perniciosità del comunismo e l’ambiguità degli ascari tecnocrati) e su National Review s’inventò una column profetica, “La Terza guerra mondiale”.
“Witness” di Chambers si apre con una commovente “Letters to My Children” in cui l’autore, certo della prossima vittoria del comunismo, prova a rinfrancare lo spirito dei suoi rampolli, il primogenito dei quali era scampato all’aborto che i compagni volevano imporre alla signora Jay Vivian Chambers. Nel libro Whittaker ha scritto: “Pochi uomini sono tanto ottusi da non rendersi conto che la crisi esiste e che in ogni momento essa minaccia le loro esistenze. E’ uso comune definirla una crisi sociale. Ma si tratta di fatto di una crisi totale: religiosa, morale, intellettuale, sociale, politica ed economica. E’ uso comune definirla una crisi del mondo occidentale. Ma di fatto interessa il mondo intero. Di per sé, il comunismo, che pretende di esser una soluzione della crisi, ne è un sintomo e un eccitante”.
E l’altro ex, Meyer, ebbe occasione di precisare: “Viviamo nel mezzo di una rivoluzione diretta a distruggere la civiltà occidentale. Per definizione, i conservatori sono i difensori di quella civiltà; e in un’epoca rivoluzionaria ciò significa che essi sono, e debbono essere, controrivoluzionari”.
La battaglia spirituale contro il comunismo Reagan la imparò da loro, e la portò dentro la Casa Bianca, e da lì nel mondo intero, scrollandosi di dosso, quando fu eletto per la prima volta alla presidenza nel 1980, la paralisi anzitutto morale che aveva incapacitato gli Stati Uniti con Jimmy Carter, dal 1976.
A Burnham nel 1983 e a Chambers nel 1984 (postuma), Reagan tributò la Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza civile statunitense. Di cui il 20 giugno 1985 volle insignire pure l’oggi beata Madre Teresa di Calcutta, dicendo: “Questa è la prima volta che consegno la Medaglia della libertà con la sensazione che chi la riceve la porterà a casa, la fonderà e la trasformerà in qualcosa che possa essere venduto per aiutare i poveri”.
La responsabilità sociale di quel capitalismo che per Reagan era uno dei segni della superiorità etica dell’occidente rispetto al marxismo-leninismo.
In gioventù Reagan s’iscrisse al Partito democratico, ma all’inizio degli anni Quaranta capì che l’asinello non era il destriero migliore per portare lontano i valori americani e si risolse per una cavalcatura più robusta, l’elefante dei repubblicani. Allora, il Grand Old Party non era un partito di destra. Per certi aspetti restava vero che, specie in provincia, erano più conservatori certi democratici, ma qualcosa stava cambiando anche nel vecchio partito industriale e nordista di Lincoln.
C’era appena stata la cavalcata del lone rider senatore Robert A. Taft (1889-1953) che aveva rotto il consenso comune osando definirsi, per primo dentro il Gop, un conservatore. Ed era in corso la grande offensiva di quell’altro cowboy che veniva dall’Arizona, il “folle” Barry M. Goldwater (1909- 1998), detestato dall’establishment repubblicano ma capace finalmente d’infiammare la piazza conservatrice in cerca di rappresentanti politici. Fu qui che Reagan ci mise del suo, ribaltando ancora una volta il mondo così come lo si era fino ad allora conosciuto.
Goldwater si schiantò contro la macchina da guerra elettorale democratica nelle elezioni del 3 novembre 1964, assaggiando in prima persona il ferro delle postazioni massmediatiche nemiche. Ma fu una sconfitta vittoriosa, come bene ha ricostruito a decenni di distanza l’anziano e arzillo ambasciatore John William Middendorf II in “Glorious Disaster. Barry Goldwater’s Presidential Campaign And the Origins of the Conservative Movement” (Basic Books, New York 2006).
La spettacolare crociata di Goldwater riuscì infatti ad amalgamare in un progetto “fusionista” le varie anime della destra statunitense, guadagnò al Gop un numero inedito di sostegni negli stati del sud avversi per principio al “partito di Lincoln” e impresse per la prima volta ai repubblicani una virata verso destra che era una sfida pronta per essere raccolta.
Lo fece Reagan. In campagna elettorale aveva definito l’appoggio a Goldwater “il momento della scelta”, decisiva, come recita il titolo del suo famosissimo discorso televisivo (detto “The Speech” per eccellenza) del 27 ottobre. A sconfitta vittoriosa ancora calda, sulle pagine della National Review del 1° dicembre (commentando assieme a George Bush padre, John Davis Lodge, Russell Kirk e il politologo, ex socialista ora seguace di Voegelin, Gerhart Niemeyer), Reagan si dette volontario, apostrofando come “traditori” i dirigenti del Gop che avevano voltato le spalle a Goldwater. Reagan non lascò il Partito repubblicano come lo aveva trovato. E nemmeno il mondo.
Investì sulla strategia Goldwater, la consolidò, la cesellò (pas d’ennemis à droite), fece entrare anche i neocon di cui intuì il gran “realismo idealista” in politica estera frutto di un passato di sinistra convertitosi ai valori americani, e non scordò neppure il côté classico, più tradizionalista, ottimo per la politica domestica. Sedici anni dopo – anni in cui Reagan lavorò sottotraccia investendo su di sé anche attraverso due mandati alla guida della California – la ricetta funzionò: il tritatutto della “New Right” per tempo allenata ed educata portò Reagan alla Casa Bianca e il conservatorismo dentro di essa, la “città sulla collina” da cui combattere la battaglia morale e spirituale di sempre contro Mosca.
Biografando Papa Giovanni Paolo II nel libro “Sua Santità” (Rizzoli, 1996) Carl Bernstein e Marco Politi iniziano a raccontare la santa alleanza anticomunista creatasi in quegli anni fra il Pontefice polacco e il presidente americano protestante che guardava con attenzione al messaggio di Fatima sulla Russia (citò persino il potere della preghiera dei pastorelli veggenti in un discorso al Parlamento portoghese, il 9 maggio 1985) e che finalmente regolarizzò i rapporti diplomatici con la Santa Sede, nominando il primo ambasciatore in Vaticano. Accadde nel 1984, era il suo ottimo amico William A. Wilson e l’11 febbraio 1981 (praticamente uno dei primi atti di governo del neoletto Reagan) era già stato nominato rappresentante personale del presidente al Cupolone.
Libri su quasi ogni anfratto della personalità, della carriera e della presidenza di Reagan, ne esistono (negli Stati Uniti) a iosa. Ma è tutta pula se non si apprezza il sacro, unico fuoco che gli è sempre arso in petto, cioè il mito sfacciato della superiorità totale del sogno americano in cui riponeva fede tetragona. Questo: “Il sogno americano è che ogni uomo debba essere libero di diventare ciò che Dio intende egli debba diventare”. Reagan lo disse che era governatore della California. Studiava da miglior presidente della storia americana, là nel “Rancho del cielo” dove sul comodino della camera da letto riposa ancora la Bibbia che divideva con Nancy.