Da questo numero Pier Giorgio Liverani inizia la rubrica, a periodicità variabile, che prende il titolo dal suo volume La società multicaotica, edito dall’Ares nel 2005. Questioni di bioetica, nuove tendenze e casi estremi, vengono trattati anche sotto il profilo dell’«antilingua» che vuole imporre il politicamente corretto. Liverani, da sempre attivo nel Movimento per la vita, è stato direttore di Avvenire, di cui è tuttora apprezzato opinionista.
Pier Giorgio Liverani
L’isola, che un tempo era una specie di slum, oggi è un quartiere elegante e ricercato, in cui sembra che ciò che conta sia l’essere a tutti i costi a la page, come dimostra un asilo infantile che lì si è aperto con il bel nome latineggiante di Egalia e politicamente più che corretto. Lì i bambini sono chiamati non con il loro nome proprio, ma con il generico e indeclinabile appellativo inglese di friend (amico/amica).
Se invece ci si deve riferire a qualcuno di loro in terza persona, non si usa il classico pronome lui/lei, egli/ella, ma la sua forma neutra. E siccome il neutro in lingua svedese non esiste, la direzione della scuola ha adottato il pronome femminista hen, forma artificiale intermedia tra l’hon maschile e Yhan femminile.
Questa è una tra le ultime trovate della filosofia del gender circa il rispetto della libertà personale anche dei più giovani, infanti compresi, per abolire ogni differenza tra maschi e femmine ed evitare -dicono i pedagoghi dell’asilo di Sòdermalm — qualsiasi forma di discriminazione sessuale. In questa atmosfera, che ignora deliberatamente l’anatomia e la fisiologia, ciascun piccolo ospite potrà seguire le proprie inclinazioni fino a scoprire e a determinare autonomamente il proprio sesso.
Anche i giochi sono politicamente corretti: per esempio, le bambole e i peluche sono tutti neri e senza sesso. Li chiamano emotion dolls (l’inglese, in questa materia, è d’obbligo: forse serve anch’esso a troncare sul nascere ogni velleità di identità personali nazionaliste).
Due giraffi & un coccodrillo
L’asilo pro-gender ha soltanto trentatré posti e finora solo un bambino è stato ritirato, ma le domande di iscrizione si ammucchiano in segreteria. Parrebbe che in Svezia, o almeno a Stoccolma, la gente-bene non abbia molto a cuore una identità precisa per i propri figli. C’è da aspettarsi che, come è successo il mese scorso in California, una legge (il Fair education act, in questo caso non federale, ma di Stato) obblighi le scuole a mettere nei programmi il ruolo che omosessuali, lesbiche, bisessuali e trans hanno avuto nella storia là californiana e qui svedese.
Ormai va crescendo il numero delle famiglie (nome da interpretare in senso progressista) che cercano di costruire il futuro dei figli fondandolo sui cosiddetti diritti civili. I quali, come si sa, non sono altro che voglia di realizzare i propri desideri, purché siano fuori di ogni logica morale e, quindi, quanto di meno solido possa esserci in materia di formazione e di cittadinanza: basta assolutizzare un «orientamento» (specialmente se sessuale) per trasformarlo in diritto.
Uno dei giocattoli preferiti nell’asilo Egalia è una coppia di giraffe, anzi (per decisione del consiglio d’istituto) di giraffi, che vogliono un figlio e che, alla fine, sono felici di adottare un uovo di coccodrillo. Questo gioco, per una sorta di effetto di contaminazione, richiama il caso italiano di un bambino accudito da una coppia di persone del medesimo sesso: due padri, dei quali il primo è uno scrittore gay definito «tra i più noti in Italia», l’altro un docente in un istituto scolastico romano. Nel titolo del quotidiano piemontese che l’ha riportato, la sintesi di quella ammirabile «nuova famiglia» era la seguente: «Quando due padri possono bastare».
Ahimè, quei due bimbi hanno ciascuno un solo padre diverso da quello dell’altro, e nessuna madre, perché i due ovociti occorrenti per metterli al mondo (in provetta) furono comprati sul mercato della genetica da due donne diverse e la loro gestazione affidata, anche qui dietro compenso, ad altre due disponibili signore. È dunque confermato – nonostante le vuote parole di prammatica – il costante ribasso della stima per l’essere umano come tale.
Lo dimostra anche la notizia data dal Financial Times che l’Accademia britannica di scienze mediche, visti i rapidi progressi della ricerca in campo biologico, sta studiando la possibilità di modificare il cervello degli animali per farlo somigliare sempre di più a quello umano e renderlo capace di funzioni tipicamente antropiche: parlare, leggere, assumere connotati simili a quelli umani.
È vero che, finora, non è riuscito neppure il semplice trapianto negli uomini del fegato dei suini (il maiale sembra essere, con il topo, l’animale maggiormente simile agli umani – e ciò non è una costatazione consolante). Si è riusciti soltanto a trapiantare piccole parti di fegati umani in graziosi topolini e anche questo esperimento sembra avere incoraggiato l’Accademia britannica a dedicare ben diciotto dei suoi preziosi mesi allo studio delle possibilità di fecondare ovuli umani in uteri di animali e di altre possibili fantasiose manipolazioni genetiche.
Del resto il prof. John Harris, docente di Filosofia applicata presso il Centro di etica e politica sociale dell’Università di Manchester e cofondatore dell’Associazione internazionale di bioetica, ha sostenuto l’opportunità dell’espiantazione automatica dai cadaveri umani di organi da trapiantare e, sull’autorevole rivista Science, ha ipotizzato la possibilità di disattivare già nell’embrione i geni che provocano l’ invecchiamento, rendendoci immortali.
Al di là del buon senso, che ci induce a guardare con il dovuto e ragionevole scetticismo queste disumane fantasie, è difficile fare previsioni scientifiche sugli esiti di tali programmi. Tuttavia, considerato che simili giochi immaginari erano già in pieno vigore duemilacinquecento e più anni fa (i semidei, gli «eroi», le chimere delle civiltà pagane greca e romana…), ai cristiani e non soltanto a loro dovrebbe bastare la ragionevolezza delle antiche Scritture ebraiche, là dove – sia pure con il velo dello stile mitologico che caratterizza tutti i testi delle antiche letterature religiose, ma fatta salva la sostanziale e razionale concretezza della verità biblica – si narra la creazione delle varie specie animali e vegetali con l’enfasi ripetuta dell’ordine dato dal Creatore a ciascuna di esse, di riprodursi «secondo la loro specie».
Evidentemente già gli antichi autori del primo capitolo della Genesi avevano sull’uomo idee tanto chiare da mettere per iscritto una norma che relegasse nella fantasia e nel mito ogni ipotetico incrocio tra specie diverse.
Una «religione per gli atei»
Ma – si sa — «nessun elemento della religione è vero nel senso di essere qualcosa che ci è stata donata da Dio» e dovrebbe essere così se lo afferma con forza, in un lavoro che era preannunciato in libreria per il mese di settembre, lo scrittore svizzero Alain de Botton. Costui, appellandosi all’intuizione avuta «nei primi inebrianti giorni della Rivoluzione francese» dal pittore Jacques-Louis David – quello che dipinse, tra l’altro, la morte di Marat e quella di Socrate – di una «religione dell’umanità», ha reinventato una «religione per gli atei», che è, in sostanza, «una versione secolarizzata del cristianesimo»», ma con Dio, Gesù e Spirito Santo esplicitamente esclusi.
Ne scrive in un capitolo del suo libro, anticipato su un importante quotidiano romano: «La cosa più saggia è partire dall’osservazione che Dio è morto, forse, ma quel pezzettino di noi che ha fabbricato Dio continua ad agitarsi». E prosegue: «Siamo l’unica società della storia a non avere nulla di trascendente, nulla che sia più grande di noi stessi». Ecco, allora, la necessità di «una rete di chiese laiche: grandi spazi alti dove fuggire dalla baraonda della società moderna» e «sentirsi piccoli per conservare l’equilibrio mentale».
Chissà che cosa Harris e de Botton direbbero del «sorriso dei genitori delle gemelline siamesi» di Bologna: Lucia e Rebecca, nate unite per il torace e l’addome, con un solo cuore, un solo fegato e in comune una parte degli intestini. «Felici di averle avute» si erano detti il padre e la madre. Povere e, insieme, fortunate bambine, il cui unico cuore si è fermato appena 99 giorni dopo la nascita. Proprio quel giornale di Roma che più laico non si può aveva raccontato quel sorriso. E il maggior quotidiano italiano ha raccolto, alla morte di quei due angeli, il secondo mesto sorriso di mamma e papà: «Sono state un dono».
«Credo siano cattolici come me», aveva risposto il primario ostetrico dell’ospedale nell’intervista d’obbligo: «Questi genitori sono mille anni avanti a noi». Avevano saputo della condizione delle figliole già dalla prima ecografia alla diciottesima settimana, ma non era mai passata loro per la testa nemmeno la più piccola tentazione di abortirle: «Piccole così e dentro la pancia o alte un metro, per noi non cambia nulla. Sono come gli altri due figli, non è una questione di religione e non c’è stato nulla da scegliere. Era ovvio che saremmo andati fino in fondo. No, non è una scelta di fede».
È vero: bastano la ragione, l’umanità, il senso dell’«altro», l’etica naturale. La fede aggiunge soltanto qualcosa d’importante: riempie quel «nulla di trascendente, più grande di noi stessi, che sta al proprio centro», come scrive Alain de Botton. Pover’uomo come tanti, come tutti quelli che stavano lì a discutere se e quando bisognasse intervenire con il bisturi, se fosse lecito farne morire una per salvare l’altra e quale, se i medici hanno bisogno del timbro di un giudice per farlo, a che peso collettivo si sarebbe dovuto portarle in camera operatoria, che cosa dice il codice deontologico dei medici…
Per capire se quell’estremo gemellaggio congenito sia stato una tragedia o invece un messaggio, avrebbero dovuto piuttosto interrogare, con gli occhi e con il cuore, quelle due bambine che a molti sembravano colpevoli di essere venute al mondo solo per l’amore di mamma e papa.