di Giulio Meotti
I volti-immagine che trascinano il racconto del documentario a puntate “Dio: pace o dominio” sono quelli di due donne, la cambogiana You Pracot e la polacca Wanda Poltawska. “Sotto i nostri piedi c’erano i corpi dei morti” ricorda You sull’inferno dei khmer rossi. Wanda descrive come i medici nazisti la trasformarono in un “coniglio da sperimentazione”.
In questo racconto del fondamentalismo religioso le immagini che ricorrono di più sono quelle degli ostaggi decapitati, delle Torri gemelle, dei Buddha di Bamyan bombardati dai talebani, delle discoteche israeliane e delle stragi di civili in Iraq. Ci sono le fosse comuni e i teschi di Pol Pot, l’ideologia di chi “torturava in nome del popolo”. Il buddhista Chou Samath racconta l’annientamento di stato promosso dagli ex studenti della Sorbona, le guardie rosse che trasformarono Phnom Penh in una cloaca nera e che predicavano “il dovere di uccidere i genitori”. Ci sono soprattutto numeri che atterriscono, come quelli delle migliaia di morti per attentati suicidi.
Ma su questo lavoro purtroppo pesa la debolezza di una sospetta “equivalenza di fondamentalismi”, l’idea dei “folli delle contrapposizioni” che fanno ripetere acriticamente che l’islam è una religione di pace. Come esempio si citano i soliti bellissimi sufi, la minoranza oppressa e falcidiata nella storia dell’islam dalla maggioranza di fedeli e di correnti teologiche.
Se si vuole fare un appunto al docufilm, fra i pochi ad aver deciso e saputo scrutare nel fondale d’odio del fondamentalismo islamico, è l’idea che l’islam radicale si nutra di povertà, disperazione, fame e corruzione. Ma così si ignora il curriculum dell’assassino di Theo van Gogh o quello dei “martiri” del 7 luglio, il copione di benessere e guerra santa che proviene dall’Arabia Saudita o il bestiario dei giovani attentatori dell’11 settembre.
Non convince il messaggio dell’imam Ihsan Baodarani dalla moschea Murabit di Damasco: “Dio è Misericordia, tutti sono figli di Dio, ebrei e cristiani”. Non rasserena l’imam di Singapore quando spiega che “gli estremisti sono solo l’un per cento dei musulmani”. Perché in un miliardo di fedeli, il numero equivale a un esercito di centomila islamisti. Non regge alla prova dei fatti la metafora di sciiti e sunniti “fratelli” rivolti verso la Mecca. Perché è dalla capitale dell’islam che si predica l’inferiorità dei fedeli dell’Ashura perseguitati dai custodi della città santa. Non sono un bel vedere le immagini a intermittenza di Abu Ghraib e delle stragi del 7 luglio.
Ha torto quell’imam che afferma di non aver ancora visto “una conferenza islamica che appoggi i kamikaze”. Dopo l’11 settembre quelle conferenze furono più di una. “Sgozzare un uomo come un agnello” Il pezzo forte è l’intervista allo sceicco thailandese Sumalyasak, il quale spiega come sia “lecito combattere chi opprime. Hamas è una reazione all’invasione, le terre di Israele sono state in mani islamiche per 1.400 anni. I suicidi agiscono contro chi combatte l’islam. Le vittime di Londra erano inevitabili”.
Per giustificare l’uccisione di donne e bambini, lo sceicco spiega che “se scopro mia moglie a colloquio con un uomo, la mia reazione è ucciderli entrambi”. Esistono due islam, ripete la voce fuori campo. Ma è uno degli studiosi intervistati, padre Samir Khalil Samir, a spiegare che l’islam è uno e questo deve fare i conti con un’ermeneutica dei versetti che incitano alla violenza.
“Oggi è elegante dire che tutte le religioni vogliono la pace. Ma deve essere dimostrato con i fatti. Nel Corano vi sono incitamenti ad ammazzare coloro che si oppongono al Profeta. La pace non è fatta di parole, è un atto di coraggio”. La narrazione si sposta poi sulla libertà religiosa calpestata, sui 604 missionari uccisi dal 1990 a oggi. Come il martire thailandese Nicola, assassinato nel 1939 “mentre nel nome di nazismo e comunismo si assassinarono milioni di inermi”.
Ci sono i sacerdoti nell’Europa sovietica dove le chiese furono trasformate in granai. “Martire è colui che mette in gioco la propria vita per la fede, non chi uccide uccidendosi” spiegano gli autori in uno dei punti più alti dell’inchiesta. Ma ogni volta che si parla di fanatismo fanno fatica a coniugarlo. Sulla strage di Varanasi dello scorso anno non si dice che gli attentatori erano islamici della Lashkar-e- Kahar.
A rimettere le cose al loro posto ci pensa il patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Ignace IV Hazim, che parla del tempo di coloro che “sgozzano un uomo come un agnello”. Bellissimi, infine, i reportage sugli eremi cristiani nei deserti della Siria, sui salesiani che vivono fra gli animisti dell’Asia orientale, sui cattolici di Damasco che parlano aramaico, sulle monache di clausura a fianco dei bordelli thailandesi.
(A.C. Valdera)