Prima di passare ad approfondire alcuni aspetti della riforma liturgica (che è stato lo schema che il Concilio ha approntato per primo) vogliamo ancora soffermarci sul discorso inaugurale di Giovanni XXIII, ed in particolare sul passo ove Papa Roncalli definì come «pastorale», o per essere esatti «prevalentemente pastorale» il «magistero» affidato al Vaticano II. Su questo termine si è scritto e discusso molto, si scrive e si discute anche oggi. E non mancano In proposito equivoci, come quello di coloro che assumono la «pastoralità» del Concilio per negargli ogni valore dottrinale. Abbiamo chiesto ad un «pastoralista», padre Domenico Grasso, gesuita, professore alla Pontificia Università Gregoriana, di chiarire i termini della questione.”
di Domenico Grasso
Nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962 col quale Giovanni XXIII dava inizio al grande evento, pronunciò una parola destinata a essere ripetuta continuamente, come quella che esprimeva la natura del Concilio e gli forniva la tabella di marcia lungo la quale avrebbero dovuto svolgersi i suoi lavori: la parola «pastorale».
Il Papa voleva un Concilio «pastorale» e nel suo pensiero ciò voleva dire un Concilio non dogmatico, com’erano stati quelli di Trento e del Vaticano I, non dedito cioè ai problemi dottrinali della Chiesa, ma a quelli della cura pastorale, dell’attività apostolica. Il Papa voleva ridestare la Chiesa «dormiente», come disse qualcuno, farle riacquisire il suo dinamismo evangelico. Perciò, a differenza di quanto era avvenuto nei due Concili ora citati, a parlare dovevano essere i vescovi e non i teologi. Con ciò Papa Roncalli non.si nascondeva che la Chiesa avesse anche problemi dogmatici, sui quali pronunciarsi, ma voleva che questi passassero in seconda linea, perché stimati meno urgenti di quelli pastorali.
In pratica il Vicario di Cristo voleva che il Concilio consistesse in uno scambio di esperienze apostoliche, desse un quadro il meno imperfetto possibile dello stato della Chiesa, e mostrasse al mondo la sua unità quale si esprimeva nell’essere insieme dei suoi pastori, nel mettere insieme le loro esperienze, per poter apprendere gli uni dagli altri. Per questo a Roma si diceva che Giovanni XXIII stimava sufficiente un Concilio di un paio di mesi, che finisse cioè con la festa dell’Immacolata.
Le cose andarono molto diversamente. Il Papa stesso, del resto, mentre parlava di un Concilio pastorale, aveva accennato alla necessità di esprimere il dogma in un modo che fosse si fedele al suo contenuto, ma anche accessibile all’uomo di oggi. Con ciò egli, almeno implicitamente, faceva pensare a un programma che avrebbe richiesto un tempo molto più lungo.
La questione dell’espressione del dogma nella fedeltà a Dio e alI’uomo, come si dice, era un problema che la Chiesa si era fosto fin dal Nuovo Testamento ed aveva continuato a porsi lungo tutto l’arco della sua storia. Rispondergli era stato il compito dei Padri e dei teologi di tutti i tempi, ed era particolarmente urgente ai nostri giorni in cui le filosofie più varie avevano creato una sensibilità nuova, quale forse la Chiesa non aveva mai avuto.
Fu così che il Concilio prese una piega molto diversa da quella che il Papa che l’aveva indetto, riteneva potesse assumere. Ma questo non lo spaventò affatto e, vedendo che i lavori procedevano a rilento, pronunciò una frase che circolò, almeno nel Concilio: «Non bisogna aver fretta». In realtà fu proprio così. I problemi dottrinali vennero in prima linea, ma l’aggettivo «pastorale» non venne dimenticato. Il Concilio doveva essere pastorale, non tanto nè principalmente nel senso di Giovanni XXIII, il quale nel frattempo era morto, ma nel senso che nel suo insegnamento, anche sui problemi più scabrosi di dottrina, avrebbe dovuto usare uno stile pastorale, tale cioè che fosse accessibile a tutti, anche ai semplici fedeli. Era un modo nuovo di intendere il «pastorale» e-Paolo VI non ebbe difficoltà ad accettare la realtà.
Nel discorsa tenuto nei Concilio come arcivescovo di Milano, nella sua prima sessione aveva cercato di tracciare una nuova tabella di marcia che consentisse al Concilio di finire con la terza sessione, come ebbe in seguito a dire come Papa. Egli voleva che esso trattasse i problemi della Chiesa “ad intra”, e quelli “ad extra”. Praticamente, se non andiamo errati, Papa Montini voleva che il Cociilio si limitasse a due documenti fondamentali, e cioè a quelli che furono detti la “Lumen Gentium” e la “Gaudium et Spes'”, senza però escludere quello sulla liturgià già discusso nell’aula conciliare e in via di redazione definitiva. Era un modo di limitare la durata del Concilio e insieme di conservargli la sua natura pastorale.
Su questo programma però pesava l’Ipoteca; diciamo cosí, della preparazione dei Concilio, nella quale ognuna delle Congregazioni romane aveva preparato il proprio “schema” che voleva fosse, discusso dal Padri conciliari. Si aggiunge il fatto, che alcuni, temi, come quello della libertà religiosa, dell’ecumenismo, del dialogo con le altre religioni, interessavano troppo alcuni Padri, o settori del Concilio perchè fossero accantonati, tanto più che almeno a prima vista sembravano avere un’angolatura del tutto pastorale. Ma questi problemi erano in se stessi “troppo difficili, e ciò che dispiace di più, non erano stati ancora sufficientemente studiati dalia teologia perchè i Padri Conciliari potessero disporre di Conclusioni già solidamente acquisite.
In gran parte di questi come in altri problemi, si trattava di affidarsi all’intuito, e a quella maturazione che necessariamente doveva seguire alla discussione del problema nell’aula conciliare. Fu così che anche il programma tracciato da Paolo VI all’inizio delia seconda sessione e destinato a terminare cori la terza, ebbe bisogno di una quarta sessione e se non si ebbe una quinto, fu solo per la moderazione dr alcuni Padri conciliari i quali facevano notare gli inconvenienti di tenere la Chiesa «in stato di Concilio» per così lungo tempo, tanto più che esso veniva fatto conoscere al popolo cristiano attraverso i mass-media che ne davano una visione spesso unilaterale e deformata.
Ma allora, ci si può domandare, che cosa è rimasto del Concilio «pastorale»? A nostro parere è rimasto, oltre ad alcuni documenti squisitamente pastorali, come quello sull’attività dei vescovi e sull’apostolato dei laici, lo stile in cui tutti i documenti vennero espressi. Uno stile non più «scolastico», come era avvenuto nei Concili precedenti, ma comune semplice, in quanto poteva essere semplice lo stile di un documento conciliare, accessibile a tutti, comprensibile cioè alla prima lettura.
Nella storia di Concili si trattava di una vera novità, ma come tutte le novità aveva i suoi lati discutibili. Oltre all’impossibilità di esprimere un concetto teologico in modo accessibile a chiunque, alla prima lettura, lo stile pastorale aveva l’inconveniente della ambiguità, dell’elasticità, per cui un testo poteva venir letto in vari modi e trovarvi ciò che il lettore vi cercava. Anché perchè, trattando il Concilio di alcuni problemi veramente difficili, come quelli della libertà religiosa e dell’ecumenismo, non poteva trovare da parte dei Padri un’unanimità di consensi. Erano, problemi discutibili e tali restavano. E allora lo stile pastorale che cosa avrebbe fatto? Avrebbe tradito Il compromesso che aveva reso possibile l’unanimità o quasi sul documento. Di modo che oggi noi assistiamo al fatto di letture diverse del Concilio, in un momento in cui vivono ancora tutti gli estensori dei documenti.
C’è, per esempio, chi pensa che il Concilio abbia detto che la libertà religiosa consista nello scegliersi la religione che si vuole, perchè esso ha insegnato che ogni religione è buona. Il che è del tutto falso. Ci sono molti protestanti i quali credono che l’ecumenismo è finito, perchè il Concilio ha riconosciuto alle Chiese protestanti la qualifica di «Chiesa», e questo basta per dire, che c’è una sola Chiesa sia pure sotto varie forme, secondo i princìpi del pluralismo. C’è anche chi crede che, secondo il Concilio, le missioni non sono più necessarie, perchè tutti si possono salvare. Basta che seguano la propria coscienza
Si tratta di false interpretazioni del Concilio, che non sarebbero state possibili, se questo avesse fatto uso di uno stile «scolastico» forse meno brillante, ma certamente più preciso. Nessuno pensa che il Concilio di Trento non abbia Insegnato che per la giustificazione, oltre alla fede, ci : vogliono anche le opere, o che il Vaticano I abbia lasciato aperta la questione della infallibilità del Papa. La chiarezza e la precisione in quei due Concili erano un fatto che saltava agli occhi. Naturalmente, anche io stile pastorale ha i suoi vantaggi: è facile a leggersi anche per chi non è ai i corrente della terminologia scolastica, vi trova concetti bellamente espressi, frasi fresche e facilmente citabili, ecc. Specialmente noi vi troviamo un vantaggio, che esprime un cambiamento di mentalità che fa onore al Concilio. Esso ha compreso che i suoi documenti sono per tutti i cristiani e che, quindi, debbono essere accessibili a tutti.