Massimo Introvigne
Uno dei grandi temi del dibattito politico riguarda l’imprevista esplosione della capacità di esportazione del capitalismo cinese, causa non ultima delle difficoltà della nostra economia. Anche l’Unione Europea continua a trattare su quote e rinvii, pur consapevole delle difficoltà che queste proposte incontrano a causa dei vincoli internazionali. Tuttavia, c’è un piano non velleitario né utopistico su cui il problema Cina potrebbe essere affrontato con un taglio nuovo.
Nel capitalismo cinese a successi straordinari si accompagnano tragedie come quella del lavoro minorile ad alto ritmo e del numero più alto del mondo di incidenti sul lavoro, spesso mortali. Una buona percentuale della popolazione ha un reddito sotto la soglia di sopravvivenza (un dollaro al giorno) fissata dal Fondo Monetario Internazionale; la disoccupazione reale è probabilmente al 20%; il numero di suicidi è altissimo e l’aspettativa di vita bassa perché non esiste più un’assistenza medica gratuita e molti si scontrano con il duro rifiuto degli ospedali di curare chi non può pagare.
Molti in Cina rispondono che il loro capitalismo si ispira al modello statunitense, certo diverso da quello europeo: ma in America un tessuto di leggi (molto carente in Cina) garantisce i diritti sociali, e in tanti settori – anzitutto quello sanitario – svolgono un’attività di supplenza le religioni e le Chiese. Si arriva così al punto dolente della situazione cinese: l’assenza di libertà religiosa. Certo, il programma maoista di eliminazione totale della religione è fallito. Ma le limitazioni alla libera pratica della religione continuano.
Forse si devono cominciare a esaminare insieme le tre dimensioni del problema Cina: economica, sociale e religiosa. L’errore di molti occidentali consiste spesso nel separarle. Così a chi ha giustamente fretta di difendere i sacerdoti cattolici incarcerati spesso sembra una perdita di tempo parlare di economia, mentre a chi si preoccupa per l’invasione del tessile cinese in Italia quelli della libertà religiosa o dei diritti sociali appaiono problemi da idealisti. Non è così.
La strategia degli Stati Uniti, diversa da quella europea, mostra che solo picchiando là dove fa male – cioè organizzando puntuali campagne sulla situazione dei diritti umani e della libertà religiosa in Cina – si crea un clima che costringe i cinesi a fare concessioni anche là dove sono loro i più forti, cioè nell’economia delle esportazioni.
Non si tratta dunque di cessare i rapporti con la Cina (una prospettiva suicida sul piano economico e commerciale, e oggi del tutto irrealistica) ma di muoversi sul piano internazionale della richiesta di limiti all’esportazione cinese senza mai disgiungere le richieste italiane ed europee da rivendicazioni etiche.
Il trattamento dei prodotti cinesi dovrebbe dipendere da come la Cina – o le singole aziende cinesi, dal momento che lo stile diverso con cui operano, per esempio, molte aziende italiane che hanno aperto fabbriche in Cina dovrebbe essere riconosciuto e “premiato” – trattano i loro lavoratori, e non solo sul posto di lavoro ma anche in piazza e in chiesa.
Proporre un “dazio etico” sui prodotti cinesi offrirebbe anche al governo italiano un’occasione di rispondere al problema Cina su un piano non semplicemente tecnico, ma di principio, insistendo come è giusto e doveroso su quella dimensione etica della globalizzazione su cui da tempo attira l’attenzione Papa Benedetto XVI.