Quando si propaganda l’eutanasia
di Ferdinando Cancelli
Intanto il suicidio assistito dovrebbe essere accordato, secondo il testo, solo a «coloro ai quali sia stato prognosticato un tempo di vita inferiore ad un anno». Ogni medico, e non solo gli esperti in cure palliative, sa quanto sia difficile e pericoloso avventurarsi in giudizi prognostici anche in presenza di patologie in fase avanzata come le neoplasie: se è vero che molte volte il giudizio può rivelarsi fondato, e altrettanto vero che nella valigetta dei ricordi dell’attività professionale quasi tutti portiamo anche quei casi che, dati per spacciati, abbiamo seguito magari per diversi anni.
In secondo luogo, tra i «criteri di eligibilità» di un paziente al suicidio assistito spicca tra gli altri quello che prevede che il soggetto abbia preso la propria decisione «volontariamente e senza essere pressato da altri soggetti o senza sentirsi un peso».
Pare qui evidente la mancanza di esperienza nella vicinanza ai pazienti da parte di chi ha steso il rapporto: chi sarebbe in grado — per di più in un clima come quello in cui viviamo, segnato dall’esaltazione dell’edonismo, del produttivismo e sotto il segno onnipresente del concetto di qualità della vita a ogni costo — di dire che un paziente non è «pressato» o che non si sente «un peso»?
Immagino un paziente al quale, insieme al thè del mattino, sia gentilmente portato anche un giornale sul quale possa leggere un lavoro come quello sponsorizzato da fautori dell’eutanasia o del suicidio assistito: non si sentirà pressato? Non si sentirà, al termine della lettura, un po’ più di peso per la società e per i suoi cari?
L’obiettivo pare ancora una volta quello, come sottolineato nello stesso articolo del «Guardian» dal dottor Peter Saunders, dell’associazione Care Not Killing («curare non uccidere»), di indurre i malati nella fase finale della loro vita a farsi da parte concedendo loro il falso privilegio di essere aiutati a morire piuttosto che quello di sentirsi accompagnati e curati, anche con l’uso di farmaci e tecniche costose.
«Quanto detto — scriveva il bioeticista David Lamb a proposito dell’eutanasia già nel 1995 — ci insinua il dubbio se esista veramente la ferma volontà di regolamentare questa pratica, considerato il contesto culturale di una società per la quale anticipare la morte in alcuni casi può avere i suoi vantaggi, e dove esiste la pressione a eliminare alcune categorie di persone socialmente poco gradite».
Poco oltre lo stesso Lamb concludeva che «si ha la percezione che la scoperta di una potenziale fonte di risparmio sull’assistenza a pazienti anziani, dementi e in stato comatoso, abbia dato un forte impulso alla pratica dell’eutanasia, e che pertanto il fattore determinante di tale impulso sia l’obiettivo del risparmio delle risorse sanitarie, sebbene questo non venga esplicitamente ammesso».
Dubbi e sinistre percezioni che hanno però anche molti medici inglesi: è stata pubblicata su «Palliative Medicine» di gennaio un’ampia revisione sistematica degli articoli comparsi negli ultimi vent’anni su riviste specializzate dai quali potesse emergere la posizione dei curanti rispetto a eutanasia e suicidio assistito. Nella maggioranza dei casi i medici si sono rivelati contrari a tali pratiche e favorevoli all’accompagnamento dei malati con le cure palliative.
E i malati? Spesso capiscono fin dal primo incontro chi vuole loro bene.