www.chiesa 16 giugno 2011
I mali della Chiesa e la “via soprannaturale” per guarirli, in un manifesto choc scritto da Enrico M. Radaelli, filosofo dell’estetica e paladino della Tradizione. Tredicesima puntata di una discussione tutt’altro che conclusa. In un POST SCRIPTUM le repliche di Arzillo e Cavalcoli
di Sandro Magister
Discussione nella quale sono intervenuti studiosi di diverse tendenze.Non però, fino ad oggi, il professor Enrico Maria Radaelli, filosofo dell’estetica, discepolo di colui che è stato uno dei più grandi pensatori tradizionalisti del Novecento, lo svizzero Romano Amerio (1905-1997). Radaelli, a giudicare soprattutto dal suo ultimo libro, “La bellezza che ci salva”, è sicuramente uno dei più “delusi” dal magistero dei papi del Concilio e del dopoconcilio, compreso l’attuale.
A questi papi e alla gerarchia cattolica nel suo insieme, egli imputa di aver abdicato da un esercizio pieno del magistero, fatto di chiare definizioni e condanne, in nome di una vaga “pastorale” che avrebbe lasciato libero campo a confusione ed errori. Questa delusione non vieta tuttavia a Radaelli di continuare a sperare in un ritorno della Chiesa alla pienezza del suo “munus docendi”, per merito in primo luogo proprio di papa Joseph Ratzinger.
Nello scritto riprodotto più sotto – con il quale rompe il suo silenzio nella disputa – Radaelli condensa sia la sua diagnosi dei mali della Chiesa d’oggi, sia la “via soprannaturale” che li può sanare, con una precisa proposta fatta al “Trono più alto”, cioè al papa. È una proposta che egli definisce insieme “di Tradizione e di audacia” e che farà entrare d’ora in avanti nel suo libro “La bellezza che salva”, come sua integrazione essenziale.
Ma prima di lasciare la parola a Radaelli, è utile riepilogare tutte le precedenti puntate della discussione, nella quale sono intervenuti a più riprese Francesco Arzillo, Francesco Agnoli, Inos Biffi, Agostino Marchetto, Martin Rhonheimer, Roberto de Mattei, David Werling, Giovanni Cavalcoli, Masssimo Introvigne, Basile Valuet, Stefano Ceccanti, Alessandro Martinetti, Giovanni Onofrio Zagloba.
Nell’ordine, su www.chiesa:
I grandi delusi da papa Benedetto (8.4.201)
I delusi hanno parlato. Il Vaticano risponde (18.4.2011)
Chi tradisce la tradizione. La grande disputa (28.4.2011)
La Chiesa è infallibile, ma il Vaticano II no (5.5.2011)
Benedetto XVI “riformista”. La parola alla difesa (11.5.2011)
Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto anche quando la condannava? (26.5.2011)
Fatti i conti, questa è la dodicesima puntata di una discussione tutt’altro che conclusa.
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Una proposta per i cinquant’anni del Vaticano II
La via soprannaturale per riportare pace tra prima e dopo il concilio
di Enrico Maria Radaelli
La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro “La bellezza che ci salva”.
Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d’Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.
Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella “Città della bellezza” che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.
Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. “Divinitas”, 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel “munus docendi”, di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.
Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: “Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio”.
Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di “rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?”. E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica “aletica”, veritativa, insegnataci dalla filosofia.
Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?
Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: “Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso”. Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità.
Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse.
Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente “religioso ossequio”) se non “addirittura errate”, come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, “e comunque non infallibili”, e che dunque “possono essere anche mutate”, sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma “solo” moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele.
D’altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado).
Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins (“quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del “munus”, del magistero dogmatico.
La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il “munus” dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio.
Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.
È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che “religioso ossequio”, pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962.
Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali “ab initio” già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste.
Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.
Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.
Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?
Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun “nuovo campo dogmatico”, come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario “campo pastorale”. Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d’anatema alcunché.
Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo “Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”) furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della “théologie nouvelle” come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull’indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità.
Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio “Summorum Pontificum”. “Lex orandi, lex credendi”: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos’è allora?
Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è “tutti i giorni” sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 (“Portæ inferi non prævalebunt”) e di Matteo 28, 20 (“Ego vobiscum sum omnibus diebus”) e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo.
Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il “Novus Ordo Missæ” in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il “corpus theologicum” posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.
Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro “La bellezza che ci salva”), restando così tutte in pericoloso e “fragile borderline tra continuità e discontinuità” (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.
Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?
Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.
Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di “Iota unum” definisce “la legge della conservazione storica della Chiesa”, ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale “la Chiesa non va perduta nel caso non ‘pareggiasse’ la verità, ma nel caso ‘perdesse’ la verità”.
E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d’anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.
Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – “lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra” negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell’arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.
Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio “Gaudet mater ecclesia” – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”.
Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua “conservazione storica”.
In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d’anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.
Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò “deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè ‘l’‘insegnamento educativo alla retta dottrina’ – deve avere” (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76).
Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di “omissione della dogmaticità propria alla Chiesa” (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.
Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento “favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto ‘pastorale’, che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli” (pp. 67s)
Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo “munus docendi”, facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come “habitus” del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: “trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo”) l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.
Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.
Per concludere, una proposta
Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.
Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini “fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è”, l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.
Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino “munus docendi” nella sua pienezza.
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Il libro di Enrico Maria Radaelli “La bellezza che ci salva” (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all’autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli)