Terrasanta.net 10 Settembre 2024
Il piano Una speranza, di Bezalel Smotrich
Nostra traduzione del cosiddetto «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza, reso pubblico nel 2017 dall’attuale ministro Bezalel Smotrich, esponente dell’estrema destra religiosa sionista. Non c’è spazio alcuno per uno Stato di Palestina, dicono chiaro e tondo Smotrich e i suoi.
Nel settembre 2017, quando presentò questo suo «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza [anche traducibile con: Un’unica speranza], l’avvocato Bezalel Smotrich era già parlamentare e ricopriva la carica di vicepresidente della Knesset. Allora come oggi militava nell’area del sionismo religioso (all’estrema destra dell’agone politico israeliano). Nel sesto governo Netanyahu, insediatosi a fine 2022, è ministro delle Finanze (con un piede anche nel ministero della Difesa), oltre che leader di una delle forze della coalizione di maggioranza: il Partito religioso nazionale – Sionismo religioso, che nel 2023 ha raccolto il testimone di una precedente formazione politica.
Traduciamo il piano Smotrich a titolo di documentazione per i nostri lettori. Come si vedrà, all’epoca della sua stesura l’uomo politico non dedicava molta attenzione alla Striscia di Gaza. Dopo gli eccidi del 7 ottobre 2023 e il loro tragico seguito non pochi nel suo campo politico sono per un ritorno stabile degli ebrei israeliani in quel territorio. Lui si tiene sul vago, ma carezza l’idea di un’emigrazione massiccia dei gazesi.
Ecco il testo del Piano:
«La follia», recita una famosa citazione, spesso attribuita ad Albert Einstein, «è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Nella realtà politica odierna, sembra che la follia sia all’ordine del giorno. La sinistra israeliana ripete continuamente soluzioni «semplici e sicure» per porre fine al conflitto arabo-israeliano; e sempre più spesso assistiamo al fallimento di queste soluzioni e alla loro inutilità.
Non fare nulla garantisce semplicemente l’eterna continuazione di questi tentativi, pieni di false speranze e illusioni. I tempi sono maturi per dire «basta», per rompere il paradigma e per trovare una via d’uscita adeguata a questo ciclo apparentemente senza fine.
La base della mia proposta è un cambiamento di centottanta gradi rispetto al modus operandi a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni. Ripensare richiede coraggio, ma pare che non abbiamo scelta.
La maggior parte, se non tutti i piani politici avanzati negli ultimi anni, sia da sinistra che da destra, forniscono “soluzioni” che perpetuano il conflitto, condannandoci tutti a continuare la sua miserabile gestione per i prossimi cent’anni. Il piano decisivo qui proposto, invece, prevede una soluzione reale, e soprattutto possibile e pratica, per porre fine al conflitto e portare una vera pace.
Ciò che distingue questo piano dagli altri è che «prende il toro per le corna», affrontando la radice del conflitto e il fallimento, passato e presente (e futuro), delle “soluzioni politiche”. Non fa differenza dove i pianificatori traccino i confini proposti, anche se provengono dalla cosiddetta destra (Sharon e Olmert avevano le loro mappe; forse anche Bibi ne ha una).
La pace non sorgerà finché manterremo la nostra posizione di partenza secondo cui questa terra è destinata a contenere due collettività con aspirazioni nazionali contrastanti. Se così fosse, i nostri nipoti e i nostri pronipoti saranno inevitabilmente destinati a vivere di spada.
Nelle pagine che seguono, delineerò il mio “piano decisivo”, che ho chiamato Una speranza. Si tratta di una soluzione globale, ottimista senza essere ingenua, di quelle che non ignorano le difficoltà ma che sono accompagnate da una vera fede. Fede nel Dio d’Israele, nella giustezza della nostra causa e nella nostra esclusiva appartenenza alla Terra d’Israele; fede nella nostra forza di resistere agli argomenti che potrebbero minare la nostra convinzione; fede nella nostra capacità di mettere in campo l’eroismo necessario per vincere questa lotta epocale.
* * *
All’inizio è necessario fare un po’ di attenzione.
Sono un credente. Credo nel Santo, Benedetto Egli sia, nel Suo amore per il Popolo ebraico e nella Sua Provvidenza su di esso. Credo nella Torah che ha predetto l’esilio e promesso la redenzione. Credo nelle parole dei profeti che hanno assistito alla distruzione e, non di meno, nella nuova costruzione che ha preso forma sotto i nostri occhi. Credo che lo Stato di Israele sia l’inizio della nostra redenzione, il compimento delle profezie della Torah e delle visioni dei Profeti.
Credo nel legame vivo tra il Popolo d’Israele e la Terra d’Israele; nel destino e nella missione del Popolo ebraico per il mondo intero e nella importanza vitale della Terra d’Israele nel rendere certa la realizzazione di questa causa. Credo che non sia un caso che la Terra d’Israele stia fiorendo sulla scia del ritorno degli ebrei, dopo tante generazioni di totale abbandono.
Credo che l’anelito di generazioni per questa terra e la fiducia nel nostro ritorno finale siano le forze trainanti più profonde del percorso del Ritorno a Sion che ha portato alla creazione dello Stato di Israele.
Tuttavia, il documento che vi viene presentato non contiene nulla che sia basato sulla fede. Non si tratta di un manifesto religioso, ma di un documento realistico, geopolitico e strategico. Si basa su un’analisi della realtà e delle sue cause profonde, e si fonda su presupposti fattuali, storici, democratici, di sicurezza e politici. Elementi che ci conducono a una soluzione che, a mio giudizio, ha le più realistiche possibilità di successo, sicuramente maggiori delle altre soluzioni proposte quotidianamente.
Questo documento è un documento pragmatico, ma si colloca agevolmente entro la mia visione del mondo basata sulla fede. Coloro che lo desiderano possono considerarlo nient’altro che una soluzione pratica e politica; gli altri sono invitati a vederlo come un incontro tra fede e realismo, visione e realtà.
Il contesto (Background)
Per più di cento anni di sionismo, il Popolo ebraico è stato costretto a condurre una lotta per il suo stesso diritto alla sovranità come nazione rinnovata nella Terra d’Israele.
Questa lotta esistenziale ha assunto diverse forme, ha compreso molte battaglie ed è stata costellata, grazie a Dio, di vittorie. I suoi esiti rimangono però incerti. Ancora oggi, in Terra d’Israele ci sono residenti che rifiutano di riconoscere il diritto fondamentale dello Stato d’Israele ad esistere come Stato del Popolo ebraico e continuano a minarne l’esistenza e l’identità ebraica. Negli ultimi decenni, questa lotta è stata condotta principalmente nella cosiddetta «arena palestinese», riferita agli arabi di Giudea e Samaria [molti ambienti ebraici preferiscono i due topinimi biblici alla denominazione Cisgiordania – ndr].
Questo gruppo sta effettivamente cercando di stabilire uno Stato arabo all’interno dei confini del 1967, senza mai nascondere il fatto che questa è solo una tappa verso il vero obiettivo: il ritorno a Haifa, Jaffa, Ramle e Tiberiade e la creazione di uno Stato arabo sulle rovine dello Stato di Israele. Lo insegnano a casa e a scuola ai loro figli, lo indottrinano nei campi estivi. Nessuno nega che questa sia l’etica fondante del “nazionalismo palestinese”.
Il piano in esame intende affrontare proprio questa questione: l’esistenza di due aspirazioni nazionali contrastanti in Terra d’Israele, che la realtà dimostra non possono essere mantenute in tandem. La fantasia che queste due ambizioni possano convivere l’una accanto all’altra ha accompagnato il movimento sionista fin dall’inizio.
Nel corso della sua storia, lo Stato di Israele ha accettato compromessi e partizioni, che sono stati rifiutati più volte dalla parte araba. Anche prima della creazione dello Stato, negli anni Trenta e Quaranta, quando era ancora possibile trovare un’intesa con gli arabi che vivevano nel Paese, i piani di spartizione furono respinti in blocco dai residenti arabi, sostenuti dagli Stati arabi confinanti. Ciò in contrasto con la leadership sionista, che era disposta ad accettare proposte che comportavano la cessione di parti significative della Terra d’Israele.
Anche dopo la sua fondazione e per tutta la sua esistenza, lo Stato di Israele ha accettato compromessi e partizioni che avrebbero potuto portare alla creazione di uno Stato arabo-palestinese in Terra d’Israele. La parte araba li ha rifiutati più volte.
L’attuale posizione araba dimostra che la “soluzione dei due Stati”, oltre ad essere sbagliata in termini di valori e ideologia sionista, è del tutto irrealistica: il massimo che la sinistra israeliana è disposta a concedere è di gran lunga inferiore al minimo che il leader arabo più moderato tra gli arabi di Giudea e Samaria è disposto ad accettare. Pertanto, nei momenti della verità, dal piano di spartizione del 1947 agli accordi di Camp David [1978 – ndr] e ai negoziati con Olmert [2008], i leader palestinesi hanno sempre rifiutato di firmare un accordo di pace e di porre fine alle loro rivendicazioni.
La contraddizione tra l’esistenza dello Stato ebraico e l’aspirazione nazionale palestinese è intrinseca; è insita nello sviluppo del concetto stesso di “popolo palestinese”. Il “popolo palestinese” non è altro che un contromovimento del movimento sionista. Questa è la sua essenza, la sua ragion d’essere.
Anche coloro che sostengono il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione sanno che tale “nazione” non esisteva prima del progetto sionista e che la Palestina non era altro che il nome geografico di questo lembo di territorio, un nome dato dai romani, non dagli arabi. Dopo la repressione delle ribellioni ebraiche, Gerusalemme fu ricostruita come capitale romana pagana con il nome di Aelia Capitolina, mentre il nome della provincia di Giudea fu cambiato in Siria Palaestina, eliminando così ogni riferimento agli ebrei. Si trattava di una derivazione del nome Pleshet, la Terra dei Filistei. Simbolicamente, fu il periodo della nostra distruzione, che si piange ogni anno il 9 del mese di Av, a far nascere il nome “Palestina”.
Quando gli arabi conquistarono la Terra d’Israele nel VII secolo, adottarono il nome romano “Palestina”, mentre la parte settentrionale rimase “Siria”. Circa 1.500 anni dopo, gli arabi della Terra d’Israele adottarono questo nome per lanciare la loro lotta contro il movimento sionista, un movimento che si proponeva di restituire la Terra d’Israele agli ebrei, lo stesso popolo di cui i romani avevano cercato di cancellare la memoria.
All’epoca, la terra era occupata da ebrei palestinesi (che vivevano nella “Palestina” mandataria ottomana e britannica) e da arabi palestinesi. La maggior parte degli ebrei vi era immigrata nei primi anni del nascente movimento sionista (anche se alcuni erano arrivati prima), e la maggior parte degli arabi, per varie ragioni, era immigrata dai territori circostanti nell’era moderna (anche se erano lì da prima).
Il movimento nazionale palestinese è un’immagine speculare negativa del sionismo. Come tale, non può fare pace con esso. Questo è il motivo per cui i palestinesi rifiutano la richiesta minima dello Stato di Israele di riconoscere il suo diritto di esistere come Stato ebraico.
La storia palestinese è qualitativamente diversa dal conflitto di Israele con altri Stati arabi. L’Egitto e la Giordania sono Paesi indipendenti la cui esistenza non è legata allo Stato di Israele. La loro guerra con lo Stato di Israele, che volevano cancellare dalla faccia della terra, può essere stata importante per loro come parte di un ethos musulmano o arabo, ma non ha influito sulla loro stessa definizione di Stati nazionali. Era quindi possibile arrivare a un accordo di pace con loro.
Non è questo il caso del conflitto israelo-palestinese. Senza il “conflitto”, senza la lotta contro Israele, semplicemente non c’è nazionalismo palestinese. Di conseguenza, le probabilità che il sionismo e il nazionalismo palestinese possano essere mantenuti insieme in Terra d’Israele sono quasi nulle. La realtà degli ultimi decenni ci insegna quanto sia corretta questa semplice osservazione.
Il permanere delle due aspirazioni nazionali in conflitto nel nostro piccolo pezzo di territorio garantirà ancora molti anni di spargimento di sangue e di conflitto armato. Solo quando una delle parti si arrenderà, volontariamente o con la forza, e rinuncerà alle proprie aspirazioni nazionali in Terra d’Israele, si realizzerà la pace desiderata e la coesistenza civile diventerà possibile.
Spero che i lettori concordino con l’affermazione che, in quanto ebrei, non dovremmo rinunciare alla nostra aspirazione nazionale a uno Stato indipendente nella Terra d’Israele, l’unico Stato ebraico al mondo. Per questo, la parte che dovrà rinunciare all’aspirazione di realizzare un’identità nazionale in Terra d’Israele è quella araba. Il motivo per cui siamo condannati a un ciclo infinito di spargimenti di sangue è che nessuno osa esprimere questa semplice dichiarazione. Tuttavia, solo in questa dichiarazione si trova la chiave che può aprire la porta di una vera pace.
Questo è l’obiettivo del piano decisivo Una speranza che avete davanti a voi: non più gestire il conflitto in corso a vari livelli di intensità, ma piuttosto vincerlo e porvi fine; non più tergiversare e offrire soluzioni cosmetiche a caccia di zanzare, ma piuttosto prosciugare la palude, affrontare le radici del conflitto e assicurarne la rapida fine.
Nel corso della sua storia, Israele ha evitato di affrontare le vere radici del conflitto. Naturalmente non sarà facile rompere questo paradigma. Ma lo Stato di Israele non può permettersi di continuare ad annaspare in una guerra di Sisifo contro il terrorismo o in una lotta altrettanto seria contro la delegittimazione che la nostra strategia di “gestione del conflitto” crea nel mondo.
La continua gestione del conflitto erode la posizione di Israele, danneggia i suoi interessi vitali e causa danni irreparabili.
Il piano decisivo Una speranza sarà forse difficile da digerire all’inizio, ma la grande logica che vi sottende, così come la sua necessità e inevitabilità, porterà alla fine alla sua accettazione da parte della società israeliana e della comunità internazionale.
In sintesi (Executive Summary)
Porre fine al conflitto significa creare e consolidare la consapevolezza – pratica e politica – che c’è spazio per una sola espressione di autodeterminazione nazionale a ovest del fiume Giordano: quella della nazione ebraica. Di conseguenza, uno Stato arabo che realizzi le aspirazioni nazionali arabe non può emergere all’interno dello stesso territorio. La vittoria implica l’accantonamento di questo sogno. E quando la motivazione per la sua realizzazione diminuirà, diminuirà anche la campagna di terrore contro Israele.
Questo obiettivo sarà raggiunto anche con dichiarazioni – con una dichiarazione israeliana inequivocabile agli arabi e al mondo intero che non sorgerà uno Stato palestinese –, ma soprattutto con i fatti.
È richiesta l’applicazione della piena sovranità israeliana alle regioni centrali della Giudea e della Samaria e la fine del conflitto attraverso la creazione di nuove città e insediamenti in profondità nel territorio, con l’insediamento di altre centinaia di migliaia di coloni. Questo processo renderà chiaro a tutti che la realtà in Giudea e Samaria è irreversibile, che lo Stato di Israele è qui per restare e che il sogno arabo di uno Stato in Giudea e Samaria non è più realizzabile. La vittoria con l’insediamento imprimerà nella coscienza degli arabi e del mondo la consapevolezza che uno Stato arabo non sorgerà mai in questa terra.
Sulla base di questo inequivocabile punto di partenza, gli arabi della Terra d’Israele si troveranno di fronte a due alternative fondamentali:
- Coloro che desiderano rinunciare alle loro aspirazioni nazionali possono rimanere qui e vivere come individui nello Stato ebraico; naturalmente godranno di tutti i benefici che lo Stato ebraico ha portato e sta portando alla Terra d’Israele. Discuteremo più avanti in dettaglio lo status e la gestione della vita di coloro che scelgono questa opzione.
- Coloro che scelgono di non abbandonare le proprie ambizioni nazionali riceveranno aiuti per emigrare in uno dei tanti Paesi in cui gli arabi realizzano le proprie ambizioni nazionali, o in qualsiasi altra destinazione nel mondo.
Naturalmente è lecito pensare che non tutti adotteranno una di queste due scelte. Ci sarà chi continuerà a scegliere un’altra “opzione”: continuare a combattere l’Idf [le forze armate israeliane – ndr], lo Stato di Israele e la popolazione ebraica. Questi terroristi saranno affrontati dalle forze di sicurezza con mano forte e in condizioni più gestibili.
Per quegli arabi che desiderano rimanere qui come individui e godere di tutto ciò che lo Stato di Israele ha da offrire, dovremo definire un modello di residenza che includa l’autogestione autonoma, comprese le amministrazioni comunali, accanto a diritti e obblighi individuali. Gli arabi di Giudea e Samaria condurranno la loro vita quotidiana alle proprie condizioni attraverso amministrazioni comunali e regionali prive di caratteristiche nazionali.
Come le altre autorità locali, anche queste terranno le proprie elezioni e manterranno regolari relazioni economiche e municipali con le autorità dello Stato di Israele. Con il tempo, e in base alla fedeltà dimostrata allo Stato, alle sue istituzioni e al servizio militare (o civile), saranno disponibili diritti di residenza e persino di cittadinanza.
Questo piano è il più giusto e morale sotto ogni aspetto – storico, sionista ed ebraico – ed è l’unica opzione che può portare alla tranquillità, alla pace e alla vera coesistenza. I tentativi di conciliare le due ambizioni nazionali, permettendo loro di esistere fianco a fianco nello stesso pezzo di territorio, sembrano a prima vista morali.
In apparenza, quel concetto prende in considerazione i desideri di entrambe le parti e impedisce di risolvere il conflitto con una giustificazione morale o con il “diritto di potenza”. Tuttavia, quel modello non può che condurre a risultati moralmente distruttivi, poiché perpetua inevitabilmente la guerra e lo spargimento di sangue.
Al contrario, la vittoria basata sul diritto del Popolo ebraico nella Terra d’Israele – benché appaia prima facie unilaterale e aggressiva – porterà al risultato più morale: metterà fine allo spargimento di sangue e permetterà una vera coesistenza tra gli ebrei e gli arabi che sceglieranno questa opzione.
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Questo è il nucleo del piano, che tra poco dettaglierò ulteriormente. Ma poiché il piano è molto diverso dal comune sentire sulla soluzione del conflitto, è importante sottolineare ripetutamente le sue basi realistiche e morali, prima di entrare nei dettagli:
1.La soluzione dei due Stati non è realistica e non lo è mai stata. «Due Stati per due popoli» è uno slogan vuoto di contenuto, che è diventato la soluzione assiomatica per il conflitto principalmente a causa dell’illusione che la parte araba sia aperta al compromesso territoriale e disposta ad accettare lo Stato di Israele come Stato ebraico. Questa ipotesi si è ripetutamente dimostrata falsa. Nella realtà attuale, la creazione di uno stato terrorista arabo in Giudea e Samaria, uno stato il cui territorio è venti volte più grande dello stato terrorista di Hamas nella Striscia di Gaza, sarebbe nientemeno che suicida (dal punto di vista della sicurezza). Il crollo di diversi Paesi arabi di lunga data negli ultimi anni ha reso il modello statuale ancora più problematico, ed è difficile immaginarlo come un’entità duratura. La soluzione dei due Stati non è fattibile, ed è quindi tempo di proporre una soluzione basata su un approccio completamente diverso.
2. Da una prospettiva storica, internazionale e religiosa, il progetto sionista del ritorno del Popolo ebraico nella sua terra dopo duemila anni di esilio, nomadismo e persecuzioni, è l’impresa più giusta e morale che abbia avuto luogo negli ultimi secoli.
Non siamo l’Onu, e non siamo obbligati a supporre che abbiamo a che fare con due narrazioni ugualmente giuste e argomentate. La nostra convinzione nella giustezza della nostra causa è ciò che ci dà la forza morale per sconfiggere l’aspirazione araba contrastante. In un mondo in cui si è smesso di parlare di giustizia, preferendo parlare di narrazioni, è difficile fare tali ragionamenti, ma ovviamente ciò non significa che non siano veri.
Lo Stato di Israele è stato fondato in forza della convinzione della giustezza della storia biblica, nonché in forza dell’accordo delle nazioni del mondo – in un raro momento storico – di realizzare la visione e restituire la Terra di Israele al Popolo di Israele.
L’erosione strisciante nella decisione di assegnare l’intera Terra di Israele al Popolo ebraico derivò non da considerazioni di giustizia, ma dalla resa alla violenza araba. È così che l’intero territorio a est del Giordano fu strappato via per formare il Regno di Transgiordania, invece di far parte del focolare nazionale ebraico; ed è così che nacque in seguito il piano di spartizione, creando il concetto di due Stati nella Terra di Israele.
Questa convinzione della giustezza della nostra causa è vitale, e coloro che ne sono privi troveranno effettivamente difficile difendere la richiesta che gli arabi di Giudea e Samaria abbandonino le loro ambizioni nazionali a favore delle nostre. Come spiegato sopra, l’essenza unica del nazionalismo palestinese è il suo perpetuo sforzo di eliminare il progetto sionista. Questa, naturalmente, non è una novità. Era evidente a David Ben Gurion, a Golda Meir, e di fatto a tutta la leadership israeliana, fino a quando non si instaurò la confusione recente.
Oltre a ciò, il nazionalismo ebraico ha recato beneficio a questo paese in misure che secoli di dominio ottomano non hanno raggiunto. Basta fare riferimento al diario di viaggio di Mark Twain attraverso il paese per rendersi conto di quanto fosse sterile la terra prima del ritorno ebraico. Il ritorno del Popolo ebraico ha fatto fiorire il deserto, e ha trasformato il Paese in ciò che è oggi. Se fosse rimasto sterile com’era, è molto dubbio che il mondo avrebbe mai posato gli occhi su questo piccolo e trascurato territorio.
3. Le sfide che lo Stato di Israele deve affrontare sono senza precedenti, e quindi la soluzione e la realtà che creerà possono anche essere – e in effetti ci si aspetta che siano – originali e senza precedenti. I tentativi di paragonare il conflitto israelo-palestinese ai conflitti che si verificano in altre aree del mondo, e di esaminare gli accordi presenti e futuri secondo gli standard accettati di risoluzione dei conflitti, sono purtroppo fuorvianti. A malapena un paese ha affrontato una minaccia esistenziale così profonda come quella che Israele affronta dalla sua fondazione. Certamente, nessun paese al mondo è stato fondato sulla scia di un tentato genocidio, solo per continuare ad affrontare costanti minacce esistenziali dall’esterno e dall’interno. Israele è unico in quanto le radici della lotta contro di esso, e l’intenso desiderio di distruggerlo, poggiano sull’opposizione alla sua stessa esistenza e all’esistenza del popolo per il quale costituisce una casa nazionale.
Affrontare questa realtà senza precedenti giustifica soluzioni e accordi senza precedenti, che potrebbero essere difficili da difendere in altre situazioni, ma che possono certamente essere giustificati nel contesto dello Stato di Israele. All’interno di questo complesso, e senza precedenti, groviglio, lo Stato di Israele deve continuare a esistere come il focolare nazionale del Popolo ebraico. Potrebbero essere necessarie nuove costruzioni democratiche e legali per garantire questa situazione, ma non bisogna tirarsi indietro al pensiero di doverle creare. Riprendiamo un concetto presente nel discorso costituzionale contemporaneo in Israele per dire che lo scopo è abbastanza degno da giustificare una deviazione proporzionale dai principi comunemente accettati.
4. L’affermazione che «il terrorismo deriva dalla disperazione» è una menzogna. Il terrorismo deriva dalla speranza, vale a dire la speranza di indebolirci. Il terrorismo si basa sulla speranza di ottenere qualcosa, di minare la società israeliana e costringerla a cedere alla creazione di uno Stato arabo entro i confini della Terra di Israele. I terroristi suicidi operano in una sorta di vuoto, eppure lo fanno per quella che considerano una “nobile causa”. In assenza della causa, o facendola apparire inutile, le motivazioni che alimentano il terrore svaniranno; e con esse, Dio volendo, anche il terrore stesso.
5. Le ambizioni nazionali del Popolo ebraico e degli arabi della Terra di Israele sono in conflitto. Non possono essere riconciliate e ammesse a convivere insieme. Una divisione geografica artificiale del territorio non durerà. Non possiamo nascondere le minacce legate alla sicurezza e alla demografia dietro recinzioni e linee virtuali tracciate artificialmente. Il territorio tra il Mediterraneo e il Giordano è un’unità geografica e topografica unica, e non può essere diviso in modo da fornire stabilità politica e nazionale. Se il territorio viene diviso, in qualsiasi modo, con gli arabi che ricevono la loro parte per realizzare le proprio ambizioni nazionali, ciò costituirà solo il primo passo nel loro programma di distruggere lo Stato di Israele, solo che saranno in grado di mirare a questo obiettivo ultimo da una posizione più comoda. Pertanto, qualsiasi soluzione deve essere basata sull’interruzione dell’ambizione di realizzare la speranza nazionale araba tra il Giordano e il Mediterraneo.
6. L’affermazione che il desiderio arabo di espressione nazionale nella Terra di Israele non possa essere “represso” è errata. Ha funzionato bene per lo Stato di Israele, e deve funzionare allo stesso modo per la Giudea e la Samaria. Per quanto riguarda gli arabi della Terra di Israele, la loro grande catastrofe è la Nakba – che noi chiamiamo Guerra d’indipendenza del 1948 – e non l’occupazione in seguito alla Guerra dei Sei giorni del 1967.
Secondo la narrativa araba, la Guerra d’indipendenza ha portato all’espulsione dei rifugiati e alla distruzione di decine di villaggi arabi con la conseguente creazione di insediamenti ebraici sulle loro rovine, e alla vita per molti anni sotto un’amministrazione militare discriminatoria. Nonostante tutto ciò, gli arabi della Terra di Israele hanno vissuto per decenni in pace sotto il regime ebraico, e raramente sono stati coinvolti in attività terroristiche o contro lo Stato di Israele. La ragione di questo è semplice: dal 1948 fino agli anni Novanta, semplicemente non avevano la speranza. La loro speranza di liberarsi del progetto sionista è stata stroncata sul nascere.
Gli arabi israeliani di quella generazione sapevano molto bene che se avessero, Dio non voglia, vinto la Guerra d’indipendenza, avrebbero crudelmente sterminato gli ebrei, come è stata consuetudine araba in tutte le guerre del Medio Oriente. Per questo motivo apprezzarono la dimostrazione di misericordia e generosità che Israele mostrò loro, e acconsentirono a vivere qui in pace, anche prima di godere di uguali diritti. Protestarono contro la discriminazione insita nell’Amministrazione militare; protestarono contro l’esproprio delle terre; ma non ci alimentarono movimenti nazionalisti, né aspirazioni a realizzare una visione nazionale.
La radicalizzazione nazionalista tra gli arabi israeliani e il loro sostegno al terrorismo e alla lotta armata degli arabi di Giudea e Samaria contro lo Stato di Israele iniziò agli albori degli anni Novanta, quando lo Stato di Israele portò i terroristi dell’Olp da Tunisi in Giudea e Samaria e iniziò a coltivare la speranza nazionale tra gli arabi. L’aspirazione nazionale palestinese, rivolta agli arabi di Giudea e Samaria, riaccese le emozioni e le ambizioni nazionali degli arabi israeliani, portando a una pericolosa radicalizzazione nazionalista tra di loro, i cui esiti risentiamo oggi.
Dobbiamo e possiamo tornare ai giorni post-1948, per quanto riguarda sia gli arabi israeliani che gli arabi di Giudea e Samaria. Funzionava bene allora; può e deve funzionare bene oggi. Non abbiamo la pretesa di cancellare o cambiare quell’identità nazionale; ma l’ambizione di realizzarla tra il Giordano e il Mare può e deve essere cambiata. Possiamo e dobbiamo porre fine alla speranza araba di realizzare ambizioni nazionali nella Terra di Israele, e sviluppare una nuova speranza basata su una vita individuale più prospera, incomparabilmente migliore rispetto a quella di qualsiasi paese mediorientale intorno a noi.
7. La moralità di un’azione si misura dai risultati e non a prima vista. La realtà ci insegna che quando ci assumiamo la responsabilità e gestiamo un territorio, produciamo una realtà più morale e migliore per entrambe le parti. Al contrario, quando abbandoniamo un territorio, si verifica l’opposto. Il nostro profondo desiderio di essere “morali” e di astenerci dal “governare un altro popolo” era così radicato che ci siamo ritirati dalla Striscia di Gaza. La vita degli arabi lì è migliorata? Invece di avere elettricità 24 ore su 24, l’hanno per sei ore al giorno; invece di una fornitura d’acqua regolare, affrontano una grave crisi idrica; invece di lavorare, godono di un tasso di disoccupazione del 50 per cento e sono in vacanza forzata tutto l’anno. Decine di migliaia sono senza un tetto sopra la testa, e vivono senza uno straccio di speranza.
In parole povere, da quando abbiamo abbandonato la Striscia di Gaza, i residenti godono di molti meno diritti e libertà. Hanno persino perso ogni parvenza di sistema democratico e il diritto di voto. Ciò che hanno è il regime repressivo di Hamas che prende le risorse umanitarie inviate nella Striscia e le usa per armamenti e tunnel, invece che per le disperatamente necessarie realizzazioni in ambito civile.
La situazione è infinitamente peggiore e molto meno morale e umana per entrambe le parti, rispetto alla realtà che esisteva nella Striscia quando l’Idf la controllava. Non c’è motivo di presumere che le cose andranno diversamente se verrà stabilito uno stato arabo in Giudea e Samaria.
8. Vincere il conflitto è più economico che continuare a gestirlo. Alcuni sostengono che applicare la sovranità israeliana su Giudea e Samaria sarà finanziariamente proibitivo e metterà a dura prova l’economia israeliana. Innanzitutto, questo è un argomento molto debole. Sono proprio i paesi in via di sviluppo a produrre i maggiori motori di crescita economica.
La necessità di colmare il divario tra l’economia israeliana e quella palestinese contiene il potenziale per una rapida crescita economica per il mercato israeliano. Migliorare la qualità della vita, la tecnologia, le infrastrutture e altri elementi della vita in Giudea e Samaria aumenterà i consumi e quindi comporterà una crescita in entrambe le economie. In secondo luogo, e cosa più importante, per quanto possa essere costosa questa imposizione della sovranità per l’economia israeliana, sarà comunque molto meno onerosa dei costi per la sicurezza e dei costi indiretti indotti dal continuare a gestire il conflitto con ripetuti cicli bellici.
Inoltre, sarà certamente meno costosa dell’espulsione di decine di migliaia di coloni e del loro reinsediamento all’interno della Linea verde [la linea “di confine” provvisoria tracciata nel 1967 dopo la guerra dei Sei giorni, tra Israele e i Territori palestinesi internazionalmente riconosciuti – ndr].
Fase uno: La vittoria attraverso l’insediamento
La prima e più importante fase del piano decisivo Una speranza riguarderà l’insediamento. In questa fase stabiliremo il dato più importante: siamo qui per restare. Faremo chiaramente capire che la nostra ambizione nazionale di uno Stato ebraico dal fiume al mare è un fatto compiuto; un fatto non soggetto a discussione o negoziazione.
Questa fase sarà realizzata attraverso un atto politico-legale di imposizione della sovranità su tutta la Giudea e la Samaria, e con azioni concomitanti di insediamento: la creazione di città e paesi, la costruzione di infrastrutture come è consuetudine nel “piccolo” Israele e l’incoraggiamento a decine e centinaia di migliaia di residenti a venire a vivere in Giudea e Samaria. In questo modo, saremo in grado di creare una realtà chiara e irreversibile sul terreno.
Nulla avrebbe un effetto maggiore e più profondo nella coscienza degli arabi di Giudea e Samaria, sgonfiando le loro illusioni di uno Stato palestinese e dimostrando l’impossibilità di stabilire un altro Stato arabo a ovest del Giordano. I fatti sul terreno sgonfiano le aspirazioni e sconfiggono le ambizioni. Lasciamo che i blocchi di insediamenti lo attestino.
Lo sviluppo degli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria, in modo sovrano e pianificato, contribuirà anche a risolvere la carenza di alloggi nello Stato di Israele. Molti terreni statali in Giudea e Samaria, situati nel centro del paese, possono essere resi disponibili a prezzi ben più bassi rispetto alla media delle proprietà all’interno della Linea verde, aumentando così l’offerta di alloggi accessibili in Israele di centinaia di migliaia di unità.
Questa vittoria inequivocabile del conflitto ridurrà sicuramente le motivazioni del terrorismo.
Ovviamente, non accadrà dall’oggi al domani. Ci vorrà tempo, soprattutto perché negli ultimi tre decenni abbiamo scioccamente coltivato l’illusione che uno stato arabo possa diventare realtà. Dopo anni di acquiescenza all’adozione universale del paradigma della “soluzione a due Stati”, è naturale, come già notato, che sia necessario del tempo per convincere il mondo che ciò non accadrà, e dimostrare che abbiamo ripensato il nostro percorso e che siamo determinati a impedire la nascita di uno Stato palestinese. Ma questo è ciò che dobbiamo fare, in modo da lasciare il terrorismo senza alcuno scopo.
Nella prima fase, è probabile che gli sforzi del terrorismo arabo aumenteranno. La frustrazione per l’incapacità di realizzare l’illusione-speranza che abbiamo coltivato aumenterà, così come la motivazione e gli sforzi per eseguire attacchi terroristici in un ultimo disperato tentativo di realizzare i loro obiettivi. Ma a un certo punto, arriverà il momento in cui la frustrazione supererà la soglia della disperazione e porterà alla riconciliazione e a una rinnovata comprensione che la loro causa non ha alcuna possibilità: semplicemente non si realizzerà. Quando tale consapevolezza penetrerà nella coscienza araba, il terrorismo diventerà inutile, la sua motivazione diminuirà, così come le sue espressioni pratiche.
Nel periodo di transizione, sono fiducioso che una direttiva politica determinata e inequivocabile permetterà all’Idf di affrontare questa minaccia temporanea, sconfiggere il terrorismo e completare la vittoria dell’insediamento in modo decisivo.
Fase due: Le due opzioni e la vittoria militare
Basandosi sulla vittoria ottenuta con gli insediamenti nella prima fase, che include la soppressione della speranza araba per la creazione di uno stato a ovest del Giordano, agli arabi di Giudea e Samaria si apriranno due strade:
1.Pace e identità locale
Gli arabi di Giudea e Samaria che lo vorranno avranno una nuova speranza di un futuro buono e una vita privata soddisfacente sotto le ali dello Stato ebraico. Il Popolo ebraico ha portato così tanto bene, abbondanza, progresso, sviluppo e tecnologia in questo paese, che sarà felice di permettere a chiunque desideri vivere qui in pace di godere di tutto ciò. Coloro che scelgono di rimanere qui come individui potranno godere di una vita molto migliore rispetto ai loro parenti e amici nei paesi arabi circostanti o alla vita che possono aspettarsi sotto il (corrotto) governo dell’Autorità Palestinese.
Questa sarà una vita con il massimo dei diritti democratici: vita, libertà, proprietà; una vita di libertà di religione ed espressione, e molti altri diritti e libertà che caratterizzano uno Stato di Israele democratico e progressista. Avranno anche il diritto di votare per il sistema che gestisce la loro vita quotidiana.
L’autogoverno degli arabi di Giudea e Samaria sarà diviso in sei regioni governative municipali in cui i rappresentanti saranno eletti in elezioni democratiche: Hebron, Betlemme, Ramallah, Gerico, Nablus e Jenin. Ognuna di queste entità governative riflette la struttura culturale e condivisa della propria società araba, e garantirà quindi pace interna e prosperità economica.
Il fallimento dell’idea dello “stato-nazione” nel mondo arabo, un’idea portata dall’Europa con le potenze coloniali, è chiaramente visibile oggi; secondo molti, questo fallimento era inevitabile, considerata la struttura tribale della società araba. Gli stati arabi che prosperano sono i regni del Golfo costruiti per adattarsi alla struttura tribale tradizionale.
Gli arabi di Hebron non sono come gli arabi di Ramallah, che non sono come gli arabi di Nablus, che non sono come gli arabi di Gerico. Anche il dialetto arabo cambia da regione a regione. Una divisione in governi municipali regionali smantellerà il collettivo nazionale palestinese e le ambizioni di realizzarne l’indipendenza, ma al contempo preserverà la struttura tribale-familiare, permettendo così l’esistenza di un sistema stabile per gestire la vita quotidiana senza tensioni e conflitti interni. Questi governi municipali regionali manterranno un sistema di cooperazione tra loro e con lo Stato di Israele, permettendo così uno sviluppo economico regionale stabile e duraturo.
Liberi dal terrorismo e da minacce alla sicurezza, i residenti delle amministrazioni municipali regionali godranno della libertà di movimento e del diritto di entrare – per lavoro e per motivi umanitari – negli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria e nello Stato di Israele, a beneficio di tutti.
Come già annotato, gli arabi di Giudea e Samaria potranno condurre la loro vita quotidiana in libertà e pace, ma non potranno votare per la Knesset israeliana in una prima fase. Ciò preserverà la maggioranza ebraica nelle decisioni all’interno dello Stato di Israele. Come spiegheremo più avanti, questa è una situazione imperfetta in termini di diritti civili, ma è certamente ragionevole; potrebbe persino essere la migliore soluzione possibile date le circostanze complesse dello Stato di Israele in Medio Oriente.
A lungo termine, sarà possibile espandere la componente democratica del piano con un ampio accordo regionale con la Giordania, grazie al quale gli arabi di Giudea e Samaria potranno votare per il Parlamento giordano e così realizzare il loro diritto di voto.
Un altro miglioramento aperto all’esame, nel tempo, man mano che si determina la sincerità di coloro che scelgono di rimanere, potrebbe permettere il coinvolgimento degli arabi di Giudea e Samaria nelle decisioni civili dello Stato di Israele, diversamente dalle decisioni nazionali. Ciò richiederà modifiche costituzionali che dovranno essere discusse in futuro.
Come terza opzione, sarà possibile considerare la concessione della piena cittadinanza, che includa il diritto di voto per la Knesset, in base al numero di residenti arabi che desiderano farlo e insieme alla dichiarazione di completa lealtà allo Stato ebraico servendo nelle forze armate, proprio come fanno i cittadini drusi di Israele che hanno legato il loro destino a quello Stato di Israele in quanto Stato ebraico e mantengono una coraggiosa collaborazione con esso.
E no, questo accordo graduale non trasforma lo Stato di Israele in uno “Stato di apartheid”. Un regime di libertà non inizia e finisce con il diritto di voto e di essere eletti. Non c’è dubbio che questo sia un diritto fondamentale in una democrazia, ma non è esplicitamente la sua unica definizione. Oggi sotto il titolo di democrazia comprendiamo un intero insieme di libertà e diritti: il diritto alla vita, alla dignità, alla proprietà, alla libertà di religione, di espressione e di movimento, e altro ancora.
La maggior parte di questi diritti e libertà sarà concessa nella cornice del piano per gli arabi di Giudea e Samaria, incluso il diritto di voto nelle amministrazioni municipali che controllano la loro vita quotidiana. La mancanza del pieno diritto di voto per il parlamento nazionale non significa regime di apartheid; al massimo, è una componente mancante nel paniere delle libertà, o se vogliamo, un deficit nella democrazia.
L’assioma secondo cui «una democrazia senza il pieno e uguale diritto di voto per tutti non è una democrazia» serve agli oscurantisti sostenitori della soluzione a due stati, e permette loro di terrorizzare il pubblico israeliano. Il loro argomento, cioè che senza la creazione di uno Stato arabo del terrore nel cuore della Terra di Israele lo Stato di Israele dovrà scegliere tra essere uno stato ebraico e essere uno stato democratico, è semplicemente falso.
Possiamo imporre la sovranità israeliana su tutti i territori di Giudea e Samaria senza concedere agli arabi che vi abitano il diritto immediato di votare per la Knesset, e rimanere comunque una democrazia. Certo, non una democrazia perfetta, ma comunque una democrazia. La realtà non è perfetta.
Come abbiamo scritto nell’introduzione, lo Stato di Israele affronta una sfida esistenziale senza precedenti, e se il modello che permette di affrontare questa sfida include un certo deficit a livello democratico, allora questo è certamente un prezzo tollerabile da pagare. La situazione israeliana è unica, e quindi non dovremmo scoraggiarci se il modo in cui Israele la affronta è unico.
È interessante notare una cosa: l’esperienza insegna che quando le democrazie occidentali hanno dovuto affrontare problemi di sicurezza molto più semplici, hanno lasciato i valori democratici molto indietro. Questo è ciò che hanno fatto gli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, e anche tra i propri cittadini dopo l’11 settembre; e questo è il modo in cui i paesi occidentali affrontano il terrorismo all’interno dei loro confini. Lo Stato di Israele può essere orgoglioso del modo in cui affronta le sue sfide esistenziali, e il fatto che gli accordi forgiati dopo la fase della vittoria saranno imperfetti in termini di democrazia non deve sminuire la fattibilità del nostro piano.
È importante ricordare che le alternative sono di gran lunga peggiori: la creazione di uno Stato palestinese metterebbe in pericolo l’esistenza dello Stato di Israele; e concedere pieno diritto di voto ai residenti arabi di Giudea e Samaria creerebbe un deficit significativo nella componente ebraica dello Stato di Israele. Quando devo decidere dove indirizzare gli esiti di una realtà imperfetta nello Stato di Israele – nella sfera esistenziale, ebraica o democratica – la mia scelta è chiara. Oltretutto, questa situazione è da cinquant’anni una realtà nello Stato di Israele per quanto riguarda gli arabi di Gerusalemme Est, che godono di uno status di residenza ma non di cittadinanza. Non per questo lo Stato di Israele ha smesso di essere democratico.
Inoltre, negli ultimi decenni, e soprattutto in seguito alla rivoluzione costituzionale di Israele (e come componente), lo Stato di Israele ha spostato l’accento dal semplice significato di “governo della maggioranza”, una funzione e derivazione del diritto di votare e di essere eletti per una carica, a un insieme di “valori fondamentali democratici”, che non possono essere danneggiati nemmeno attraverso il sistema di voto a maggioranza.
Il centro di gravità si sta spostando dal meccanismo di voto a quello dei valori e dei diritti fondamentali. Per qualche ragione, quando si tratta del contesto palestinese, coloro che di solito sposano una “democrazia dei fondamentali” si aggrappano improvvisamente al meccanismo tecnico di una democrazia formale, ignorando tutto il resto (vale a dire, la grave e quotidiana violazione dei diritti da parte palestinese). Nel piano che avete davanti, gli arabi di Giudea e Samaria trarranno vantaggio dall’insieme totale di valori, diritti e libertà democratici, che sono diventati così dominanti negli ultimi decenni.
Non c’è alcun fondamento per credere che il governo dello Stato palestinese, Dio non voglia che venga costituito, sarà diverso dagli altri governi del Medio Oriente, proprio come nel caso dell’Autorità nazionale palestinese oggi (senza elezioni libere da oltre un decennio).
Quando si tratta di risultati, gli arabi di Giudea e Samaria sotto il dominio israeliano avranno molti più diritti di quelli che hanno ora, e certamente più di quelli che avranno sotto qualsiasi forma di dominio arabo, anche senza avere il diritto di voto alla Knesset (nella prima fase).
Coloro che ignorano la violazione dei diritti democratici nei regimi arabi e desiderano stabilire un’entità nazionale per gli arabi di Giudea e Samaria, dimostrano la loro mancanza di attenzione per i diritti fondamentali “il giorno dopo”. Ciò che interessa a costoro è unicamente che non dovrebbero trovarsi in un regime di “apartheid” agli occhi del mondo.
Sono convinto che sotto il dominio israeliano, gli arabi di Giudea e Samaria avranno molti più diritti e libertà democratiche che sotto qualsiasi altro regime. Pertanto, in una visione più ampia – più ampia delle accuse che ci saranno rivolte – il piano Una speranza gode di un vantaggio anche a livello democratico.
Per concludere questo punto, è importante notare che in termini democratici, non c’è distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il piano che avete davanti. Netanyahu definisce l’entità nazionale araba che ci si sforza di stabilire in Giudea e Samaria come uno “stato-meno”, e ciò rispecchia il fatto che, giustamente, non ha alcuna intenzione di consentire a quell’entità statale di avere un esercito e controllare lo spazio aereo, terrestre, marittimo e informatico.
Se limitiamo la sovranità di quell’entità araba, non sarà uno Stato veramente sovrano e il diritto degli arabi di votare in quell’entità non sarà quindi completo in ogni caso. Questo è il “prezzo” che anche Netanyahu capisce che dev’essere pagato a livello democratico per proteggere la sicurezza e l’esistenza dello Stato di Israele.
In questo senso, non c’è differenza tra lo scenario futuro e lo stato attuale delle cose, in cui gli arabi di Giudea e Samaria hanno il diritto di votare per un parlamento palestinese non sovrano, e la situazione creata da questo piano in cui gli arabi voteranno per un certo numero di consigli comunali. In ogni caso, avranno il diritto di votare per il sistema che governa gli aspetti pratici della loro vita, ma non il diritto a un voto ideologico per un parlamento sovrano.
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Se il piano di Netanyahu supera il test democratico, allora lo supera anche questo. La differenza è che nella visione di Netanyahu viene mantenuta l’entità collettiva nazionale degli arabi di Giudea e Samaria, un’entità con ambizioni nazionali che contraddicono le nostre, mentre nel nostro piano no. Questo, come abbiamo spiegato, è il vantaggio strategico del nostro piano: garantire una pace stabile invece di perpetuare il conflitto.
2. Emigrazione
La seconda opzione è pensata per quegli arabi in Giudea e Samaria che avranno difficoltà a rinunciare alle ambizioni nazionali. Coloro che non possono rimanere qui come individui che hanno lasciato le loro aspirazioni nazionali alle spalle sono invitati a realizzarle in uno dei tanti paesi arabi circostanti, o a cercare, come tanti arabi intorno a noi, una vita migliore in Europa, Sud America o altrove, in modo da non dover rimanere nello Stato ebraico.
La sinistra israeliana ha sventolato per anni la bandiera della maggioranza ebraica e della separazione dagli arabi. Ha sistematicamente predicato che dovremmo lavorare per preservare un’alta percentuale di ebrei entro i confini dello Stato di Israele, preferendo la separazione alla vita con gli arabi. Eppure, per qualche ragione, si oppone ai mezzi decenti ed efficaci per migliorare la nostra realtà demografica, vale a dire incoraggiare l’emigrazione.
Tra le altre cose, si sostiene che «gli arabi non migrano, si aggrappano alla loro terra». Si sostiene anche che «l’emigrazione è un’espulsione crudele» e che «nessuno vuole assorbire gli immigrati arabi». Argomenti tutti assurdi.
Cominciando dal primo, mi sembra che non ci sia bisogno di fare di tutto per dimostrare che l’emigrazione è sicuramente un’opzione agli occhi degli arabi, un’opzione che molti scelgono oggi, dalla Giudea, dalla Samaria e da molti Paesi arabi, nonostante le limitazioni e la mancanza di incoraggiamento all’emigrazione. In una realtà che consentisse un’emigrazione facile e comoda, e fornisse persino aiuti logistici e finanziari a coloro che sono interessati a tentare la fortuna in altri paesi, l’emigrazione diventerebbe molto più diffusa.
Naturalmente, non sto parlando qui di espulsioni crudeli o di invasioni di altri paesi con rifugiati senza un soldo. L’emigrazione di cui stiamo parlando è pianificata, voluta e basata sul desiderio di una vita migliore, da persone con le competenze appropriate per il loro nuovo paese di assorbimento e la capacità economica di apportare il cambiamento. Questa non è una migrazione su imbarcazioni traballanti, ma il fenomeno molto moderno di ricollocamento organizzato in paesi che offrono un’opportunità per un futuro migliore e l’assorbimento in un ambiente che di solito contiene una comunità di immigrati con retroterra simili.
Per quanto riguarda il terzo argomento – chi li vorrebbe? – non c’è fondamento per questa affermazione. Il mondo sta avendo difficoltà a gestire ondate di rifugiati e migranti senza un soldo. Ma allo stesso tempo, molti paesi in tutto il mondo accolgono immigrati con formazione professionale e finanziamenti, per molte e varie ragioni, e questa sarà la natura della migrazione araba dalla Giudea e dalla Samaria.
Lo Stato di Israele può e dovrebbe fornire generose sovvenzioni agli arabi che desiderano vivere in altri paesi, consentendo loro di fare il trasferimento in modo onorevole e di successo. Questa sarebbe una “sovvenzione di addio” appropriata da parte di Israele. Il sionismo è stato costruito sulla base dello scambio di popolazione, ad esempio l’aliyah di massa degli ebrei dai paesi arabi e dall’Europa alla Terra di Israele, volenti o nolenti, e l’uscita di masse di arabi che vivevano qui, volenti o nolenti, nelle aree arabe circostanti. Questo schema storico sembra destinato a compiersi, garantendo in primo luogo un futuro di pace.
3. Vittoria militare
Probabilmente ci sarà tra la popolazione araba chi avrà qualche difficoltà a fare la pace o a venire a patti con la fine del conflitto e che sceglierà di continuare la lotta armata contro lo Stato di Israele. A la guerre comme a la guerre! Possiamo e dobbiamo vincere. Coloro che pensano di restare qui e di minare costantemente e violentemente il diritto dello Stato di Israele ad esistere come Stato del Popolo ebraico, troveranno un Idf determinato a sconfiggerli con l’aiuto di Dio.
L’Idf, grazie a Dio, è un esercito forte e astuto, con la volontà e la capacità di sconfiggere i terroristi in un breve lasso di tempo: uccidendo coloro che devono essere uccisi, confiscando le armi fino all’ultimo proiettile e ripristinando la sicurezza dei cittadini di Israele.
Gli arabi che non rinunciano alle loro ambizioni nazionali, ma evitano di impegnarsi in attività sovversive, non saranno danneggiati. In questo piano non c’è alcuna aspettativa riguardo al fatto che tutti ameranno lo Stato di Israele, saluteranno la bandiera o canteranno l’inno. Ci basta che non combattano l’Idf e lo Stato di Israele per dimostrare di aver accettato la nuova realtà. La lealtà può e dev’essere una condizione per ricevere vari diritti e per fare progressi sul versante della residenza e della cittadinanza. Tuttavia, la lealtà non è un imperativo, finché la legge del paese resta l’autorità vincolante.
Presentando le varie opzioni offerte agli arabi, stiamo di fatto affrontando la gamma ragionevole di risposte umane alla nuova realtà. Le persone agiscono per motivi di benessere umano, ma anche per motivi di identità religiosa e nazionale. Agiscono in conformità a ciò che è possibile, ma a volte in base a un’ideologia che non tiene conto della realtà.
La nuova realtà della politica israeliana, che rende chiaro che non c’è spazio per due movimenti nazionali nello Stato di Israele, costringerà coloro che sono realisti a scegliere una delle due opzioni poste davanti a loro. Ci saranno quelli che preferiranno il comfort e la sicurezza della vita all’interno dello Stato ebraico, nella consapevolezza che le loro ambizioni nazionali non troveranno espressione nello Stato in cui scelgono di vivere; e ci saranno coloro che avranno difficoltà a rinunciare alla narrazione nazionale palestinese, che vede il sionismo come un nemico crudele, e preferiranno provare a costruire il loro futuro in un’entità nazionale alternativa.
Come notato sopra, ci saranno anche quelli che decideranno di continuare a combattere e che saranno rapidamente sconfitti dalle nostre forze. Quindi, il nostro piano affronta tutte le possibili risposte degli arabi di Giudea e Samaria alla nuova realtà. Il piano vieta solo una cosa: la continua esistenza di due concrete ambizioni nazionali all’interno di questa terra, un’esistenza che perpetua il conflitto e ci condanna a “gestire il conflitto” invece che porvi fine.
Possiamo stimare che questo processo richiederà diversi anni. Il percorso mediante il quale gli arabi inizieranno a interiorizzare veramente la perdita della speranza nazionale, l’accettazione della nuova realtà e la scelta di una delle alternative che essa offre loro richiederà del tempo, pazienza e forza d’animo.
Come ho già affermato, sono fiducioso che con l’aiuto di Dio l’Idf possa aiutarci a resistere in sicurezza a questo complesso periodo intermedio. Il prezzo che pagheremo in questa fase intermedia si rivelerà utile quando raggiungeremo la tranquillità, la pace e la coesistenza con coloro che scelgono di restare qui.
Credo che la maggior parte del piano possa essere realizzata con successo nei primi anni di determinazione decisa. Cessare i tentativi ossessivi della leadership israeliana di provare a “risolvere” il conflitto e riconcentrarsi sullo sviluppo economico stabilendo chiari indicatori di sovranità israeliana, prosciugherà la motivazione per la continua lotta violenta da parte araba.
Diventerà presto chiaro che il terrore è inutile e che causa principalmente danni ai suoi seguaci e fiancheggiatori. Al contrario, la speranza insita nel fare pace con la nuova situazione e la possibilità della vita buona che attende coloro che la scelgono, sia qui che all’estero, possono essere un’alternativa vantaggiosa e praticabile.
Affrontare le sfide
1.Le reazioni della comunità internazionale
Dobbiamo iniziare ammettendo che è ingiustificato criticare solo la comunità internazionale. Per decenni, la posizione ufficiale israeliana ha sostenuto uno Stato palestinese e ha persino presentato questa opzione come giusta e morale. In tutti questi anni, la leadership israeliana ha detto «Sì, ma non ora». «Sì» – uno Stato palestinese è una soluzione giusta per cui impegnarsi; «ma non ora» – per una serie di ragioni e di scuse. Di fronte a questa posizione, il mondo avanza quella che considera una richiesta giusta: «Se anche tu ammetti che questa è la soluzione giusta e morale, allora attuala e smettila di prendere misure che allontanano questa soluzione dalla realtà, come la costruzione di insediamenti israeliani in Giudea e Samaria».
Per quanto riguarda la comunità internazionale, i legittimi timori per la sicurezza dello Stato di Israele trovano soluzioni sotto forma di garanzie internazionali, pacchetti di aiuti, sistemi di difesa e simili. Questi non possono essere considerati una ragione valida per evitare di far avanzare questa “soluzione” per così tanti anni. Si tratta di una posizione logica e persino naturale da adottare e spiega la complessa situazione internazionale in cui si trova Israele oggi.
Le premesse riconsiderate del nostro nuovo piano presentano alla comunità internazionale un nuovo paradigma e, col tempo, nel mondo matureranno comprensione e accettazione. In primo luogo, è un piano basato sulla giustizia. La religione svolge un ruolo decisivo tra la popolazione mondiale che può apprezzare la giustezza dei legami biblici che il popolo ebraico ha con la Terra di Israele.
Finora, gli arabi hanno parlato di giustizia e noi abbiamo parlato di sicurezza, e il mondo preferisce la giustizia. Giustamente. Da qui in poi, dobbiamo cambiare discorso e parlare della giustezza della nostra causa per essere convincenti e persuasivi.
In secondo luogo, dovremo rafforzare le argomentazioni riguardo alla natura irrealistica della “soluzione dei due Stati”, poiché i tentativi di attuarla hanno portato solo a ondate di terrore e violenza. Dovremo spiegare al mondo che porre fine al conflitto e rimuovere la speranza araba di fondare uno Stato a ovest del Giordano è l’unico modo per garantire l’esistenza e la prosperità dello Stato di Israele e la presenza di pace e coesistenza al suo interno.
La sfida più grande in questo contesto sarà quella democratica: la necessità di spiegare al mondo che tra le varie opzioni, quella di offrire diritti democratici senza però il diritto di voto per la Knesset, almeno temporaneamente, è la meno peggio. Sarà una vera sfida, ma è sostenibile, principalmente chiarendo che le altre opzioni sono semplicemente peggiori, sia nell’istituire uno Stato terrorista arabo che mira a distruggere Israele, sia nel concedere diritti di voto che danneggerebbero la maggioranza ebraica e quindi metterebbero in pericolo anche lo Stato.
In terzo luogo, persone migliori di me hanno già detto che «non importa cosa dicono i gentili, ma cosa facciamo noi ebrei». Non stiamo ignorando il mondo. Dobbiamo condurre una campagna diplomatica professionale e intelligente e credo che possiamo convincere gli altri o almeno moderare le critiche.
Non possiamo permetterci di agire secondo le richieste del mondo, ma piuttosto perseguire ciò che è buono e giusto per noi come fa qualsiasi altro Stato nazionale al mondo. E ciò che è buono e giusto per noi è porre fine a questo conflitto in modo decisivo una volta per tutte a nostro favore e portare tranquillità, pace, prosperità e sicurezza allo Stato di Israele. Come disse il defunto primo ministro Menachem Begin [1913-1992], «se c’è qualcuno al mondo che storce il naso verso di noi, che stia pure con il naso all’insù!»
2. Cosa accadrebbe se ci sbagliassimo?
Dopo vent’anni di tentativi falliti di promuovere la “soluzione dei due Stati” creata dalla sinistra, è tempo di provare un piano ispirato da un approccio di destra, sionista e basato sulla fede. Per vent’anni, la sinistra ci ha trascinati in avventure pericolose che ci sono costate migliaia di vittime e feriti nel tentativo di realizzare questo sogno assurdo e avulso dalla realtà.
Se – Dio non voglia – continuiamo su questa strada, assicureremo la continuazione del conflitto e il pesante prezzo di sangue che esige da entrambe le parti. La soluzione dei due Stati era e rimane uno slogan commercializzato con successo dalla sinistra come una soluzione realistica e persino unica, anche se non è mai stato così.
Ci possono essere dubbi sul nostro piano, ma quando si considera l’alternativa della sinistra il fallimento è chiaro e semplice da vedere. Cos’altro deve accadere per farci capire che è senza speranza, che abbiamo a che fare con due ambizioni nazionali che non possono coesistere l’una accanto all’altra e che la vera ragion d’essere del “popolo” palestinese è negare il diritto dello Stato di Israele ad esistere?
Dobbiamo provare un’altra strada, completamente diversa, una direzione che riconosca la realtà e non cerchi di evitarla. Invito tutti i lettori ad adottare questo piano e ad unirsi a me nello sforzo di portare finalmente la pace in Israele e nell’intera regione.
3. La fattibilità politica
Considero questo piano decisivo tanto giusto quanto corretto, data la mancanza di qualsiasi altra alternativa fattibile sul campo. Nonostante ciò, poiché è diverso da qualsiasi cosa abbiamo preso in considerazione in passato, la sua adozione da parte del pubblico non sarà facile.
Un cambiamento concettuale così importante è ovviamente una sfida, ma è tutt’altro che impossibile. Quando Uri Avneri [giornalista, politico e pacifista israeliano, 1923-2018] iniziò a condurre negoziati con l’Olp e a parlare di uno Stato palestinese quasi quarant’anni fa, era quasi solo.
I colloqui con l’Olp, considerata all’epoca un’organizzazione terroristica, erano in realtà illegali; [Yitzhak] Rabin si oppose a uno Stato palestinese e [Shimon] Peres non sognò nemmeno di dividere Gerusalemme. Avneri impiegò poco più di un decennio per introdurre il suo piano assurdo nell’alveo principale della sinistra israeliana e renderlo l’unica opzione disponibile.
Le cose sono molto più facili per noi. Il piano decisivo Una speranza si basa sulla convinzione innata nella giustezza della nostra causa, sul patriottismo originario e sull’orgoglio nazionale, che stanno crescendo in una larga fetta della società israeliana. Si tratta di uno sviluppo tempestivo. Il sentimento pubblico di disperazione per il fallimento della “soluzione dei due Stati”, riflesso nella maggior parte dei sondaggi d’opinione condotti negli ultimi anni, ci offre un’apertura a nuovi modi di pensare, un’apertura in cui la destra israeliana deve infilarsi, non vendendo “la solita merce”, ma presentando una visione completamente alternativa.
Credo che entro pochi mesi, molti principi fondamentali di questo piano entreranno nel dibattito pubblico e diventeranno pietre angolari per nuovi modi di pensare. La comprensione che abbiamo a che fare con due ambizioni nazionali contrastanti che non possono essere risolte da una divisione geografica artificiale del territorio; che il terrore deriva dalla speranza e non dalla disperazione; che la democrazia imperfetta non è apartheid; che la moralità di un’azione dovrebbe essere giudicata nel contesto di altre opzioni disponibili e in una visione a lungo termine: tutto questo penetrerà nel discorso e nella coscienza del pubblico e lo arricchirà con nuovi e creativi modelli ancora da esplorare negli ultimi decenni
Sulla base di questi, sarà possibile adottare il nostro piano o piani simili basati sul controllo del conflitto e sulla comprensione che per raggiungere la pace e la coesistenza non possiamo lasciare una collettività araba con ambizioni nazionali nella Terra di Israele, qualunque siano le sue definizioni e i suoi confini.
4. la sfida demografica
Con o senza il diritto di voto alla Knesset, il nostro piano e le realtà che saranno plasmate dalla sua attuazione, portano con sé una sfida demografica. La verità è che la sfida demografica attende anche i sostenitori della “soluzione dei due Stati”, poiché l’argomentazione secondo cui la soluzione dei due Stati aggira il problema demografico è un’illusione, molto simile al piano stesso.
L’area tra il fiume e il mare è un’unica unità geografica e topografica, e gli arabi non hanno intenzione di andare da nessuna parte, di certo, se le loro ambizioni nazionali vengono incoraggiate e coltivate. Un confine non fa sparire le persone o la loro ostilità. Tuttavia, non appartengo al club degli allarmisti demografici. La tendenza demografica degli ultimi due decenni gioca a nostro favore. Il tasso di natalità è aumentato notevolmente in tutta la popolazione ebraica, mentre il tasso di natalità arabo è diminuito drasticamente su entrambi i versanti della Linea verde. Sulla base dell’ipotesi realistica che questa tendenza continui, non ci si può aspettare una maggioranza araba nella Terra di Israele nei prossimi decenni. Sembra più probabile il contrario. È vero, dobbiamo contribuire a far sì che ciò accada. Qui non ci siamo soffermati sull’argomento, ma il nostro nuovo piano deve essere accompagnato da una serie di misure volte a migliorare il bilancio demografico.
Il rafforzamento di Israele e la vittoria nel conflitto renderanno più facile l’assorbimento degli immigrati, aumenteranno la crescita demografica ebraica e incoraggeranno parte della popolazione araba a emigrare in altri Paesi.
Riassumendo
Questo decisivo piano Una speranza è l’unico basato su una visione integrale della Terra d’Israele. Ed è l’unico piano che non ha abbandonato quel
la che fino a poco tempo fa era la visione di tutta la destra, e che non prevede alcuna definizione di un’entità nazionale araba in Terra d’Israele. È il solo piano che non intende consentire un collettivo arabo con ambizioni nazionali e, in quanto tale, è l’unico che si basa sulla vittoria del conflitto e non sul suo mantenimento a vari livelli di intensità.
Soprattutto, è il solo che crede nella possibilità di realizzare il sogno della pace e della coesistenza, anziché disperare di quel sogno e sostituirlo con una separazione impossibile. È per chi osa sperare. Facciamolo diventare realtà.
traduzione in lingua italiana a cura della redazione di Terrasanta.net
realizzata a partire da una versione inglese pubblicata da Hashiloach Frontlines
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