ItaliaOggi N. 231 del 29 settembre 2016
Simpatiche divagazioni intrise di molto buon senso su medicina, bellezza e mode d’oggi. Chi vuol farlo, non dona la bellezza ma crea solo dei mostri. Non si può chiedere l’impossibile all’intervento estetico
di Goffredo Pistelli
A Milano è considerato il dermatologo dei vip ma lui, garbatamente, si schermisce. Pier Luca Bencini, fiorentino, 63 anni, fondatore dell’Istituto di chirurgia e laser-chirurgia in dermatologia-I.C.L.I.D., è anche un pittore abbastanza quotato e un uomo colto, grande appassionato di Dante, della cui Divina Commedia colleziona edizioni antiche e rare.
Domanda. Bencini, partiamo dal medico che lei è. Che significa curare, per lei?
Risposta. Curare vuol dire innanzitutto prendersi cura di qualcuno che ti è affidato, in termini clinici vuol dire prendersi cura di un disagio, fisico o psichico, per ridurlo o rimuoverlo del tutto, ma considerando la persona nella sua unità. Il medico non è un guaritore.
D. Ossia?
R. Non può restituire ciò che non può essere restituito. Vale per l’aspetto patologico, come per quello estetico.
D. Già perché in I.C.L.I.D. fate anche chirurgia estetica…
R. Sì e le faccio un esempio, proprio a partire da qui. Ringiovanire un volto, non è restituire una giovinezza perduta, ma ridare a quella persona, attraverso una correzione estetica, la possibilità di riacquistare, oltre a una armonia del volto, un’autostima o, nei casi più seri, una dignità. Qualcosa che permette di vivere in maniera non conflittuale, sana, il dato biografico, invecchiando in bellezza.
D. Niente miracoli, dunque?
R. Ma è un dato di realtà: non è possibile trasformare una 50enne in una 20enne! È sbagliato, si fu a un mostro!
D. E come fa, allora?
R. Si deve fare in mondo che il vissuto di quella paziente, come storia delle pelle, anche con qualche ruga, sia un vissuto con pace e amato. L’intervento estetico deve ricomporre quello che è il dato, ricomporre il conflitto del proprio essere armonico.
D. E allora che dire di questa disponibilità a farsi «mostrificare» che c’è in giro.
R. Credo che un po’ di responsabilità ce l’abbia un certo tipo di cultura, che è deflagrata negli ultimi 20 anni, complici anche alcuni personaggi di rilievo nel mondo politico.
D. In che senso?
R. Si è sdoganato il concetto che il valore è l’apparenza e che tutto possa essere in vendita. L’estetica per l’estetica ha trionfato. Le persone non si sono concepite come dinamicità, come un corpo che si modifica, ma come qualcosa congelato nel tempo, in genere un momento d’oro della propria vita. Ha presente i ritratti replica di Andy Warhol?
D. Siamo già arrivati al Bencini pittore.
R. Sta tutto insieme (ride). Le dicevo: Warhol che fa le tante Marylin tutte uguali o anche Che Guevara: ci mostra come l’identità non ci sia più, ma solo cliché. Prodotti da mettere sul mercato come i barattoli di zuppa Campbell o le bottiglie di Coca Cola. La «mostrificazione» nasce di qui: negazione dell’identità, unica, dinamica e irripetibile. Prenda Cindy Sherman, la fotografa. Ritrae se stessa da anni, in mille modi. Non c’è più identità: io sono colei che volete che sia, sono un’immagine in vendita!.
D. Senta ma nell’arte c’è qualcosa che si avvicina alla sua specialità medica. Mi riferisco alla body art.
R. Che dire? Marina Abramovich che si incide una stella a cinque punte sul ventre, che si ferisce e che dipinge sui muri col proprio sangue. Ela Orlanfa pure peggio, diventando un’istallazione essa stessa, modificando le fattezze del suo volto col bisturi. Non c’è rispetto per quell’opera d’arte che è il corpo umano.
D. Un approccio cristiano, mi pare di capire.
R. Sì, e anche umano. Per anni si è vissuti con l’idea di essere fatti a somiglianza di Dio. Da dove l’uomo traeva la bellezza e la dignità dei suoi connotati. Anzi le ricordo il XXXIII canto del Paradiso di Dante.
D. Un’altra sua grande passione.
R. Senta qua, (recita a memoria, ndr). «Nella profonda e chiara sussistenza/ dell’alto lume, parvemi tre giri/di tre colori e d’una contenenza/ e l’uno da l’altro come iri da iri/parea reflesso, e il terzo parea foco/che quinci e quindi igualmente s’ispiri». E poi prosegue: «Quella circulazion che sì concetta/pareva in te come lume reflessso,/ da li occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta della nostra effige/ perché ‘l mio viso in lei tutto era messo».
D. Faccia il Natalino Sapegno.
R. Dante vede il suo volto nella Trinità. Nell’essenza di Dio, consiste la dignità e bellezza dell’umano.
D. E invece, poi che è successo?
R. L’Ottocento si chiude con la pubblicazione della Gaia scienza e il «Dio è morto» di Nietzsche. E il volto, anche nell’arte, perdendo la sua origine, la sua genetica, perde la sua fisionomia: già con Modigliani non c’è più lo sguardo e poi è sempre peggio, da Picasso, a Bacon, a Zuleg. Ma mano che si perde la coscienza di un rapporto che gli dà dignità, lo costituisce,
R. E non avendo più dignità, si trasforma in uno stereotipo, in un fumento. Si veda la Pop Art.
D. Torniamo alla chirurgia estetica: è accompagnata da un grande pregiudizio, dottore.
R. Lo so. Si pensa, moralisticamente, l’estetica sia qualcosa di inutile mentre, in alcuni casi, esprime un disagio profondo, e se sei medico devi rispondere usando l’intervento estetico sommessamente, cioè correttamente. Oppure…
D. Oppure?
R. Oppure far leva su quel disagio, per venderti un cliché salvifico di bellezza Ma il prezzo è la distruzione dell’identità stessa del paziente, della persona.
D. Questo criterio vale solo per la chirurgia estetica?
R. No, guardi è un approccio che vale per tutta la patologia, per la malattia cronica, e in dermatologia ce ne sono tante, vale per il tumore, e io vedo e opero molti melanomi. Non siamo Dio, ci sono dei limiti.
D. Mi faccia un esempio.
R. Parliamo della psoriasi, malattia curabile ma non guaribile, che a volte deturpa e provoca un disagio psicologico a volte grave. Un dermatologo può dare una pomata cortisonica e via.
D. L’alternativa qual è?
R. È iniziare un rapporto col paziente, aiutandolo a ricostruire un rapporto con sé e con la malattia. Curarlo e curlarlo bene, ma aiutandolo a recuperare un’armonia profonda. E non in senso «orientalistico», non mi fraintenda…
D. Ah ecco, perché si vuol portare la medicina ayurvedica nel Servizio sanitario nazionale…
R. No, io spiego al mio paziente che quella malattia si affronta meglio se uno impara ad amarsi nonostante la psoriasi.
D. Invece, di solito, che succede?
R. Che spesso rifiuta la malattia, si spacca, crolla l’autostima, la capacità relazionale, il rapporto con gli altri. Il rapporto medico-curante non deve venire mai meno, nemmeno nella fase terminale della malattia. Se il lavoro si ferma al guarire…
D. Se si ferma al guarire?
R. Diventa una pretesa, una violenza, accanimento terapeutico. E quindi anche sconfitta. Conosco medici per i quali certi pazienti sono trasparenti…
D. In che senso?
R. Nel senso che, diventando incurabili, non li vogliono più vedere. E non li vedono. Sono la testimonianza della sconfitta della loro pretesa.
D. Poi anche certi pazienti si accaniscono. Vedi Angelina Jolie, che si fa asportare preventivamente i seni.
R. Da quello che ho letto, aveva una patologia, però, con una predisposizione a sviluppare il carcinoma mammario. Se, così fosse, siamo nella medicina preventiva. Non c’è niente da eccepire.
D. Torno a questioni più leggere. Ma quando vengono a chiederle interventi estetici eccessivi, come si regola?
R. Senta, il problema è capire perché la si chiede. Ci sono signore 50enni che vorrebbero rifarsi e vengono qui, a parlarmi per un’ora. Poi si scopre che il marito ha un’amante ventenne.
D. E lei che fa?
R. Io cerco di far capire che la posizione corretta è trovare la salute dell’invecchiamento. Proporre la chirurgia estetica,ma attraverso quella aiutare a ricostruire una dignità calpestata o trascurata. Insomma, al centro del nostro lavoro c’è l’amore alla persona, non costruire la caricatura della sua giovinezza.
D. Addirittura, dottore?
R. Ma sì, nel caso della chirurgia estetica, sanare infirmos non significa restituire i vent’anni, ma dare fermezza a ciò che vacilla. Guardi molti anni fa, quasi 50, quando già volevo fare il medico…
D. Vocazione precoce?
R. Precocissima, avevo 12 anni e mezzo, credo. Ero all’ospedale di Monza, il vecchio San Gerardo, per un esame, quando sentii dire, da un medico, al telefono: «Ti mando su un fegato». Ecco, feci una promessa a me stesso: il medico che sarei stato non avrebbe visto «fegati», ma persone malate.
D. Ne vede di sofferenza oggi?
R. A volte due puntini su un’unghia sono la spia di una malattia interna molto grave, un lupus, una patologia renale o anche un tumore. L’altro giorno, da un eritema, ho chiesto accertamenti diagnostici per un paziente, che ha scoperto un carcinoma al polmone, per fortuna molto precoce. Una vitiligine può essere sintomo di una malattia alla tiroide.
D. Cosa non le piace della medicina moderna?
R. La parcellizzazione della persona e della sua cura: così nel mio campo, troviamo l’’allergo-dermatologo», il tricologo, l’onicologo…
D. Prego?
R. È una battuta, dicevo lo specialista delle unghie, che non c’è. Ma ci arriveremo. Questa specializzazione ossessiva, di stampo americano, rischia di farci perdere di vista il paziente tutto intero. Si ricorda Caro Diario di Nanni Moretti?
D. In cui il regista, che interpretava se stesso, aveva un prurito che nessuno gli spiegargli e che invece era un linfoma?
R. Un prurito sine materia, si dice, cioè senza causa. E nessuno che ne capiva l’origine. Oggi, spesso è così.