Una chiave di lettura dell’ateismo dell’Europa

Andre_Glucksmann

Andre Glucksmann

Pubblicato su Nuova Umanità n.161 settembre-ottobre 2005

Una riflessione dopo la lettura del libro di Andre Glucksmann, La troisième mort de Dieu (Paris 2004) sulla deriva ateistica e sulle radici del nichilismo in Europa

di Giuseppe Maria Zanghi

I

Dio sta morendo. In Europa è persino già morto. (…) E ci domandiamo: perché l’Europa? Perché solo l’Europa? Unica, nello spazio planetario e nella storia dell’umanità, a produrre una civiltà senza Dio?

A. Glucksmann

La lettura dell’ultimo libro di Andre Glucksmann, La troisiè-me mori de Dieu (Paris 2004), mi ha riproposto con passione dolorosa una domanda che da lungo tempo mi spinge a cercare una risposta. Perché la nostra Europa ha dato vita negli ultimi secoli ad una cultura (ed esportandola) che ha fatto di Dio un problema, ed un problema irrisolvibile? Gettando di fatto l’uomo in una solitudine paurosa, che la “massa”, fenomeno moderno, non riesce a nascondere? anzi evidenzia, e causa?

Un uomo, che si trova solo, senza un orizzonte comprensivo dei molti che non sia secreto da lui; senza un orizzonte unitario, che renda possibile un nostro parlare che non sia una serie di monologhi anche lucidi, intelligenti, colti, ma sempre e solo monologhi… Spesse volte, Io confesso, la partecipazione pur attenta e rispettosa a incontri di uomini e donne di cultura mi lascia nel cuore un forte senso di freddo: quasi che il dotto discorrere in una sorta di solitudine notturna della ragione si consumi nel sopraggiungere di un’alba portatrice di grigio e di freddo: la vita è da continuare a vivere, ma come? «Non fa sempre più freddo? Non è sempre più notte?» (W.F. Nietzsche).

Da qui la domanda, sulla quale di continuo ritorno: io, credente, posso cercare di comprendere questo fenomeno inquietante e drammatico dell’Europa contemporanea – e che la connota per buona parte – che va sotto il nome di ateismo di fatto di una cultura intera? Comprendere, non per fare accademia ma per farmi capace di dialogo proprio con questa cultura, un dialogo tale che tenga conto lucidamente dello specifico negativo di essa (1), ma anche, e necessariamente, perché io credo in Dio Signore della storia, di un suo ineludibile positivo oggi in gestazione dolorosa, e proteso su nuovi compimenti?

Mai dimenticando che il dialogo viene aperto con uomini non con teorie. Queste si cristallizzano, si assolutizzano, bastano a se stesse; noi uomini siamo sempre dei pellegrini alla ricerca di chi sazi la nostra fame e sete di bellezza, di verità, di amore – creature che mentre dubitiamo domandiamo certezze, mentre ci aggiriamo anche smarriti nel molteplice aneliamo alla pace serena dell’uno.

Di fatto, nella cultura dei Paesi dell’Europa, quei Paesi che affondano le loro radici nell’humus giudaico-cristiano che ha fecondato il grande umanesimo greco-romano, non possiamo non cogliere una realtà che, nella maniera più diffusa e partecipata, nel nome di una libertà “soggettiva” di pensiero tutta da capire, si presenta come indifferentismo nei confronti sia del Dio annunciato dal cristianesimo sia di altre forme di Assoluto. L’esistenza è tutta consumata nel flusso della temporalità. I momenti forti che possono dare senso alla vita dell’uomo sono cercati solo all’interno di una storicità chiusa su se stessa, e che in se stessa non può quindi non dissolverli.

Tutto abbandonato alla storia intesa come flusso di accadimenti senza orientamenti che non siano quelli dati di volta in volta dai singoli – e dunque frammenti, relitti – ed entropicamente orientato alla fine della storia stessa, l’uomo dell’Europa esperimenta una profonda, lacerante angoscia: da una parte, il sogno di fermare l’attimo, perché solo in esso è possibile incontrare ciò che; vale, ciò-che-è: solo l’attimo è vero e bello; dall’altra, il tormento di condannarsi, così, a morire, perché se la vita è solo e tutta temporalità, arrestarla nell’attimo significa darsi la morte (Faust).

Questa situazione, assai più vissuta che pensata, ha nel suo centro un nucleo duro di ateismo teoretico e militante. Questo nucleo non coincide, quanto ad estensione e forza consapevole di negazione, con l’area vasta dell’indifferentismo; ma sostiene questa area dall’interno e, attraverso l’uso sempre più diffuso dei media, la penetra e la orienta. È a questo punto che non può non sorgere una domanda, cui tenterò, da cristiano, di dare una risposta. La domanda: perché?

Perché un mondo che aveva elaborato un forte umanesimo artistico, filosofico, scientifico, politico, un mondo che sì è incontrato con il Vangelo, ha sentito risuonare in sé l’annuncio: Cristo è risorto! e ne è stato penetrato – e trasformato -, perché questo mondo, dopo aver elaboralo una indiscussa grande cultura che si è detta cristiana, approda oggi, in vari modi e in maniera complessa e vasta, a quelle tenebre, a quelle angosce alle quali la risurrezione del Cristo ha voluto strappare l’uomo?

La domanda, se accolta in tutta la sua forza, conduce alla necessità di una presa di coscienza che forse non tutti abbiamo maturato, coscienza che le parole seguenti di Giovanni Paolo II illuminano, inquietano e orientano.

Parlando al V Simposio dei Vescovi d’Europa (cf. Oss Rom. 7.10.1982), egli ha detto: «Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana». «Ancor più profondamente possiamo affermare che queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo non solo interpellano il cristianesimo e la Chiesa dal di fuori come una difficoltà o un ostacolo esterno (…) ma in un certo senso vero sono interiori al cristianesimo e alla Chiesa».

«Scopriamo – continua Giovanni Paolo II – forse non senza meraviglia che le crisi e le tentazioni dell’uomo europeo e dell’Europa sono crisi e tentazioni del cristianesimo e della Chiesa in Europa». «In questa luce il cristianesimo può scoprire nell’avventura dello spirito europeo le tentazioni, le infedeltà e i rischi che sono propri dell’uomo ne] suo rapporto essenziale con Dio in Cristo» (2). Non dobbiamo pensare, dunque – e può sembrare paradossale —, che la deriva atea o indifferentista della cultura europea contemporanea sia un fatto “esterno” alla cultura cristiana: è qualche cosa che la tocca nel suo profondo

Cerchiamo di capire queste affermazioni

La Buona Novella, l’Evangelo cristiano, non è in sé una cultura. Infatti, una cultura è il condensato, sempre aperto a trasformazioni, di risposte di progetti di strutture di domande che nascono dal cuore intelligente dell’uomo posto di fronte al mondo, a se stesso, all’invocazione di Assoluto; l’Evangelo, invece, è l’atto definitivo con, il quale Dio Padre nel Figlio mediante lo Spirito entra nel cuore intelligente dell’uomo per condurre a compimento il suo darsi tutto nella ricerca.

La cultura viene dalla terra, l’Evangelo viene dal Cielo. Se il Vangelo non è cultura, è vero però che il cuore dell’uomo raggiunto ora dalla Parola di Dio incarnata, abitato dalla Trinità e condotto nella Trinità, non potrà non produrre una sua propria cultura che deve rivelare Chi abita ora nell’uomo: una cultura, quindi, cristiana. Negare questo è negare la reale presenza di grazia della Trinità nell’uomo redento e fra gli uomini redenti. È negare l’Incarnazione.

La cultura cristiana così intesa avrà sempre nell’Evangelo la sua luce giudicante e il suo amore trascinante – il Vangelo è l’orizzonte della cultura cristiana, sempre ancora e di nuovo da raggiungere. La cultura cristiana, quindi, non può non essere caratterizzata da un continuo muoversi verso la pienezza del Vangelo seguendo lo Spirito che guida «alla verità tutta intera» (Gv 16, 13) e con noi dice: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22, 17) – un muoversi, però, che parte dal Vangelo, dalla Verità tutta intera che è il Cristo già venuto fra noi e del quale lo Spirito ci ricorda tutto ciò che egli ci ha detto (cf. Cf 14, 26).

La cultura cristiana, d’altra parte, non potrà non articolarsi in una ricca pluralità di forme: sia perché Trinità è il Dio rivelato da Gesù e donato al cuore dell’uomo; sia perché il Padre ama nell’unico Figlio ciascuno dei suoi figli di un amore tutto personale. L’unità della cultura cristiana, allora, è quella dell’unico Cristo fra noi; la pluralità è quella di noi nell’unico Cristo. Possiamo parlare, quindi, di una cultura cristiana che sussiste nelle culture cristiane: come di una forma che è nel cuore delle culture cristiane e per la quale appunto possono essere, ed essere riconosciute nel loro volto e nella loro dinamicità come cultura cristiana.

Chiediamoci adesso: che cosa ha significato (e significa!) storicamente l’incontro dell’Evangelo con l’uomo, con il suo pensiero? Con il Cristo, il pensiero profondo dell’uomo (in prospettiva, di ogni uomo di sempre, di ieri di oggi e di domani – ma qui pensiamo all’uomo delle culture giudaica ed ellenistica), il suo cuore nel senso biblico, cui ha parlato la Parola di Dio fatta carne, è stato posto (ma sempre è posto!) di fronte a qualche cosa che per esso, se è salvezza e compimento, è anche scandalo e stoltezza, e croce, come dice Paolo: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23).

La Parola di Dio e lo Spirito che essa dona impegnano allora dall’interno il cuore dell’uomo con un impeto che non può non essere per esso, anche, angoscia e tenebra. La rivelazione del Cristo è lontana dal non apprezzare quel dono dì Dio che è il pensiero nella sua interezza di intellectus e ratio, di “astrazione” e di assoluta e “sensibile” fedeltà al reale; ma sa pure che il pensiero è incapace da sé, con la sua propria forza, di raggiungere la pienezza della sua vocazione, la pienezza della verità, la pienezza della saggezza: incapacità nella quale è di continuo rammemorata al pensiero l’origine di esso non da sé.

Sarà “la follia della predicazione” del Cristo crocifisso, «potenza di Dio e sapienza di Dio» (cf. 1 Cor 1, 21.24) a condurre il pensiero a quella pienezza per cui è fatto ma cui non può giungere senza che Dio gli si doni illuminandolo: perché Dio è comunione-dono e non chiusa solitudine.

Si tratta, allora, di condurre il pensiero all’obbedienza a Cristo – «Noi facciamo prigioniero ogni pensiero per portarlo a obbedire a Cristo», scriveva san Paolo (2 Cor 10, 5) —, perché riceva in lui il compimento della sua propria vocazione inscritta nella sua struttura più profonda, e radicata nella comunione trinitaria. Ora, questo significa non solo una purificazione del pensiero dalle ferite che lo segnano, dagli smarrimenti che lo bloccano e lo muovono su strade deviate: significa anche l’invito a trascendere la sua finitezza creaturale in una sua reale trasformazione anche di categorie, perché si raccolga e si possegga là dove Cristo già lo ha condotto: nel seno del Padre (cf. Rm 8, 29-30).

Il cammino della cultura cristiana è stato allora la storia della continua penetrazione dell’Evangelo nelle culture che andava raggiungendo intimamente: semitiche, greca, latina, germaniche, celtiche, slave, e del loro tormentato e gioioso rispondere. Purificate e riorganizzate attorno al Cristo, erano condotte, come in una nuova creazione, ad esprimersi in modo nuovo, come nuovo era il messaggio ad esse annunciato.

Ma ogni nuova espressione culturale cristiana non poteva essere conclusiva, sia perché l’uomo vive nel tempo e il tempo è divenire, sia perché il cristianesimo penetra lentamente nelle profondità dell’uomo: anzitutto, perché è amore e l’amore non fa violenza, e poi perché l’uomo è capace per vocazione di infinito e dunque può e deve essere infinitamente colmato.

La cultura cristiana, con le espressioni molteplici che andavano caratterizzandola, si espandeva dal cuore dell’uomo chiedendo sempre nuovi compimenti. Nasceva quella cultura capace di novità, che è frutto tipico del cristianesimo. La teologia è stata la forma sintetica del sapere nella quale si è espresso nell’Europa l’incontro della rivelazione di Dio all’uomo nel Cristo e del pensiero dell’uomo alla ricerca di Dio nel Cristo.

La teologia è discorso su Dio ma, prima ancora, essa è discorso di Dio – discorso che Dio fa all’uomo nel Cristo e cui l’uomo risponde nel Cristo, essendo lo Spirito Santo «l’atmosfera» di questo dialogo. In questo senso, la teologia ha sotteso tutte le forme del sapere che andavano nascendo nel terreno cristiano, dalle arti alle scienze. È stato nella teologia che si è realizzato, come sapere, il superamento della dualità tra ragione e Inconoscibilità per essa di Dio: dualità superata non in un’unità che la cancelli ma in una unità trinitaria per la quale Creatore e creatura sono distinti e uno nel Cristo Mediatore che è vero Dio e vero uomo. Ragione e Inconoscibilità di Dio rimangono distinte e sono uno nella fede, la quale è il dono accolto dall’uomo nella sua vita e nel suo pensiero della vita e del pensiero divino-umano del Cristo (cf. 1 Cor 2,15).

Lo sviluppo della teologia, autenticata dal carisma apostolico, conduceva a sempre più larga chiarezza la vita della comunità cristiana, vagliando ciò che di valido il pensiero innamorato di Dio, toccato dal Vangelo, aveva saputo dire di Dio e dell’uomo e del cosmo; e apriva a sempre nuove comprensioni di Dio e dell’uomo e del cosmo. Veniva scartato ciò che non era risposta di verità alla Verità; si ponevano le basi per ulteriori approfondimenti, per un’ulteriore penetrazione del Cristo nel pensiero dell’uomo.

Per molto tempo una cultura cristiana è stata un fatto indiscusso, pur tra difficoltà, ripiegamenti, limiti profondi, e grandi realizzazioni – cose tutte che possiamo cogliere oltre che negli aspetti teoretici della cultura cristiana, nelle strutture della vita umana, nelle libertà umane che sono andate maturando pur fra duri contrasti. Una prima grande frattura, però, avrebbe dovuto fare attenti al prepararsi di una crisi grave.

Il grande scisma in Europa fra Oriente e Occidente cristiani, fra culture percepite come inconciliabili, fu il primo segno forte che la conversione del pensiero a Cristo e al Dio da lui rivelato, era lenta ed esposta a fallimenti. Nell’Occidente europeo cristiano, in particolare, il Medioevo ha indubbiamente sviluppato una intensa penetrazione del Cristo nel pensiero dell’uomo, in una sintesi di fede ed intellettualità che ha dato vita a una grande stagione della teologia, la quale informava tutte le espressioni dell’uomo: arte, istituzioni ecc.

Ma tensioni e contraddizioni forti continuavano a prodursi e premevano dall’interno. Nel protestantesimo luterano e calvinista e nell’umanesimo rinascimentale il conflitto esplose.

Per l’Occidente europeo, fu la rottura della sintesi elaborata dal Medioevo, la frattura tra Vangelo e pensiero. Cristianesimo e cultura sì dissociano (3). La teologia viene inevitabilmente emarginata. E si presenta un sapere autonomo, oggi chiamato «laico», il quale delimita il confine conoscitivo della ragione per separazione dalla rivelazione.

La fede, non più sintesi di divino e umano aperta al compimento nella “gloria”, è capita e sentita estrinseca alla ragione: l’atto di fede resta all’esterno dell’atto del pensare, cosicché non tocca nell’intimo la ragione, la quale mai, quindi, dovrà chiamarsi cristiana. In un primo tempo viene isolato un ambito di verità razionali percepite come del tutto autonome e del tutto indipendenti dalla rivelazione, spesso in conflitto con essa.

In un momento successivo, la ragione passa a un rigetto metodico e globale della stessa rivelazione e della fede, la quale viene tutta situata dalla parte della rivelazione, non più vista dunque, nella luce dell’Incarnazione, come atto umano-divino. La fede è ridotta a un fatto coinvolgente al massimo solo la volontà dell’uomo o la sua sfera emotiva. La fede estranea al pensiero, e lentamente nemica di esso.

A questo punto, la ragione si organizza entro limiti che essa stessa definisce, lasciando fuori quanto non rientri in essi. Nasce, per separazione dalla teologia, la filosofia come sapienza “laica”. E poiché nella cultura dell’Europa Dio era stato dato nella rivelazione cristiana, rigettando la rivelazione, la ragione, lentamente ma inesorabilmente, lascia Dio fuori dal suo ambito (e, quando lo vuole ancora salvare, se ne appropria facendolo derivare dalla chiarezza tutta immanente della ragione stessa: si pensi a Descartes; o lo fa oggetto, pascalianamente, di una scommessa).

I passi sono lenti, è vero; il passaggio da un pensiero credente a un pensiero non credente è lento e tormentato. Ma il processo è inarrestabile. Dapprima si tenta di salvare alla ragione un Dio che non sia però quello cristiano, un Dio, per così dire, ancora oggetto reale ma di una pura ragione: un Dio tutto nei limiti della comprensione della ragione, un Dio tutto definito dalla ragione. Nel passo successivo il Dio reale, oggetto della pura ragione, si dissolve nella non-conoscibilità del noumeno: e sarà la ragione stessa che cercherà ancora di salvare Dio come suo postulato “pratico”.

II tentativo successivo di fare della ragione umana – per salvarla dal naufragio nel noumeno – un “momento” della comprensione che l’Assoluto guadagna di se stesso nel suo movimento “dialettico” dura poco, anche se lascia una grande e conturbante nostalgia. Le scienze non filosofiche incalzano ormai la filosofia, che va spegnendosi con il progressivo secolarizzarsi del pensiero: perché la ragione deve postulare un dio?

Per intrinseca necessità e strutturale e logica? O forse perché l’uomo che ragiona è condizionato da fattori psicologici, sociali, che lo spingono appunto a postulare un dio? Se è così, non solo un dio come postulato della ragione non ha senso, ma addirittura è sintomo di una malattia dell’uomo, psicologica e/o sociale.

Per guarire l’uomo, per dargli l’uso finalmente pieno della ragione, occorre allora che scompaia il dio della e dalla ragione. Il pensatore, a questo punto, si sente investito  di un compito da una parte profetico (annunziare all’uomo l’illusione mortale che è il dio pensato: Feuerbach), dall’altra pratico (ordinare la vita dell’uomo, sia sociale che individuale, intorno alla non esistenza di un dio: Comte e Marx).

La fine di Dio è sentita, anche se ancora a tratti traumaticamente (per tutti Rimbaud), come la nascita dell’uomo libero! (Nietzsche-Dioniso). E’ questa la forza tragica e l’originalità terribile dell’ateismo europeo: un ateismo di salvezza dell’uomo! L’uomo, per essere se stesso, deve eliminare dal suo orizzonte  qualsiasi dio (quanto meno, se non se ne ha il coraggio, metterlo tra parentesi). Questa missione viene assunta dall’uomo di cultura: uomo sempre meno filosofo e artista e sempre più esperto di scienze positive. Sulla civiltà dell’Europa si stende fittissima una ragnatela di idee, di “valori”, di strutture sociali , che non hanno più il loro fondamento in Dio, né possono e debbono averlo se vogliono essere umani.

L’ateismo teoretico – e a questo punto militante – di tanti maestri del pensiero  diventa l’ateismo pratico e passivo si un sempre maggior numero di persone. E’ la non credenza come fenomeno di massa. D’altra parte, la cancellazione della dimensione verticale del pensiero sembra far dilagare la ragione nell’orizzontalità .

E questo all’inizio può inebriare . le teorie si mo0ltiplicano , ma avendo come fondamento  non un reale “oggettivo” bensì la soggettività di coloro che pensano. E’ una hybris esaltante. Gli spazi orizzontali si dilatano sempre di più, conoscitivamente, psicologicamente, socialmente, geograficamente. Quasi sia vero che, morto il dio – come si dirà più tardi -, l’uomo di trova finalmente padrone di sé e del mondo. Il positivismo ottimista dell’Ottocento è stato l’espressione più evidente di questa conclusione (4).

Fino a quando l’ottimismo si capovolge nel pessimismo più tragico. La cultura dell’Europa entra, in quello che è stato chiamato il “secolo breve”, in una svolta drammatica che accompagna la fine dell’Ottocento e i primi sessant’anni del Novecento. E’ come un’improvvisa rivelazione: se Dio non è, nessun assoluto è. Allora, la verità, qualunque verità, non è; il pensare come pensiero-della-verità- non è.

L’uomo stesso, come valore assoluto, quale era stato posto ancora dall’umanesimo  postmedievale e dall’illuminismo, non è. Emerge una domanda terribile, cui faranno da cassa di risonanza le due ultime grandi guerre: nel crollo di qualsiasi assoluto, può sopravvivere l’uomo? Che cosa può condurre a realizzazione l’uomo come valore assoluto, se nessun assoluto è? L’annuncio di un superuomo?

L’ultima guerra mondiale con la spaventosa Shoah, i gulag sovietici e i lager nazisti, le stragi di Hiroschima e Nagasaki, ne ha celebrato sanguinosamente i funerali. Che ne è, a questo punto, di quella società giusta, di uguali, sognata dall’umanesimo e dall’illuminismo moderni? Gli esperimenti in buona parte sono stati, e si stanno ancora rivelando, fallimentari: sia quelli affidati alla brutalità politica e alla rozzezza ideologica dei socialismi “reali”, sia quelli affidati al radicalismo  individualistico, alla tecnocrazia onnidivorante e alla superficialità pseudo-illuminista delle democrazie occidentali “reali”, come le chiamano alcuni.

Che ne è, infine, dell’uomo? Il singolo uomo? Sartre aveva fatto notare lucidamente che l’uomo singolo non può sopravvivere alla «morte di Dio». L’uomo singolo è smarrito nelle tappe dell’evoluzione da cui emerge per caso e in cui per caso scompare, «cancellandosi come il segno dell’onda sulla riva del mare» (Foucault); è annullato in un magma di pulsioni impersonali che lo espellono  da sé, per così dire,  ma per reinghiottirlo; è annullato in un collettivo tecnologico che si sostituisce a lui interamente nel pensare, nel volere, nel progettare.

D’altra parte, se il singolo volesse sottrarsi a questo annullamento, ne avrebbe la forza? E che cosa lo attenderebbe, in una cultura che ha espulso qualsiasi assoluto? La disperazione lucida di fronte al gelo di un universo senza significato (Monod)? La civiltà rivelatasi alienazione sedimentata (Freud)? La banalizzazione in una quotidianità mortale fatta di consumo: consumare per essere consumati per consumare…?

Questo esito culturale dell’Europa, che ne ha sotteso nascostamente la storia negli ultimi cinque secoli ma si è manifestato in pieno nel XX, è stato chiamato nichilismo. Esso è ancora avvertito, come ripetevano Heidegger e Jaspers, da pochi nella sua terribile logica; dai più è vissuto come caduta delle grandi idealità e nella riduzione della vita a frammenti fuori dì ogni possibile totalità.

La consumazione dell’umano, come è annunciata nel nichilismo, diventa allora nella superficie il consumismo mediatico, il consumismo delle merci, il consumo dei singoli nella massa, in una convivenza sociale che è sempre più pericolosamente convivenza di individualità chiuse nei loro particolari egoismi: lo stare insieme, quando non è difesa corporativa, o ricerca di fuga dall’angoscia, è pura questione di potere imposto da fuori.

Gli ultimi decenni del secolo appena finito, per la verità, hanno potuto far pensare all’affacciarsi di una speranza nuova, tutta da disinvischiare dal consumismo e dalla banalità e dal potere etero-nomo. In qualche modo il ’68 aveva voluto esserne annuncio… E il crollo del muro di Berlino è stato sentito come promessa aperta… Ma l’accadimento delle due torri gemelle di New York e ciò che ne è seguito hanno rivelato che la “storia” del nichilismo è tutt’altro che conchiusa.

Si ipotizzano oggi scontri di culture. Si assiste a sanguinose “crociate” democratiche. Si vive una forma inedita di guerra, il terrorismo, spietata come tutte le guerre. Dobbiamo dire, però, a questo punto, che il nichilismo stesso comincia ad essere superato culturalmente da “qualche cosa” che portava dentro di sé e a cui ha preparato la strada eliminando ostacoli. È la novità che si profila da alcuni anni.

Le ideologie sono state, nell’Europa, le aggregazioni – teoretiche e pratiche – di idealità del tutto secolarizzate, di “valori” in difesa proprio dalla corrosione nichilista (si pensi all’atteggiamento culturale del nazifascismo, del comunismo e della borghesia di fronte alle culture d’avanguardia). Oggi, si parla di “fine delle ideologie”.

È, allora, la vittoria definitiva del nichilismo? O, piuttosto, comincia ad emergere dall’uovo nichilista (per usare le parole di un regista) il serpente che esso ha generato in sé e nutrito di sé? Di fatto, stiamo assistendo all’emergere di un ritorno del Sacro. Ma che cosa è questo Sacro che starebbe tornando?

Certamente non il Santo di Israele, né tantomeno la Trinità della rivelazione cristiana; né, sottolineo, il Sacro precristiano. Il Sacro che oggi sembra voglia emergere è un assoluto, un assoluto post-nichilista, assolutamente immanente, in cui ogni distinzione è inghiottita senza ritorno, in una tenebra senza volto non per eccesso di luce ma per assenza di trascendenza, prima fra tutte quella dell’amore.

E da qui il consumarsi della parola stessa che, se vuoi essere parola significante, non può non essere segno che indica altro da sé: la parola oggi è rattrappita su di sé, consumata in una continua e interminabile e senza uscita analisi tutta all’interno di sé — fino ad essere ridotta a puro fatto chimico o biologico. Notte, dunque, che inghiotte in sé senza ritorno le differenze. Il non nichilista aveva, voleva avere, ancora come soggetto l’uomo: il Sacro emergente rivendica a sé il non, caricandolo di un’assolutezza che l’uomo nonostante tutto non poteva dargli, e quindi annichilendo effettivamente l’uomo.

Il Sacro precristiano era sì Notte ma, negli spiriti più profondi, Notte che portava in sé l’attesa del Giorno – quella Notte che nell’evento cristiano ha partorito la risurrezione del Cristo: cala-tosi in essa fin nelle sue radici ultime, Egli la ha inondata della luce della Trinità. Il Sacro quale oggi si annuncia è invece Notte che si rifiuta al Giorno, Notte che, se così posso dire, vuole espellere da sé qual-siasi palpito di Luce (5).

II nichilismo approda così da negazione dell’Assoluto a Negazione assoluta! Negazione che consuma il nichilismo stesso come fatto umano! A questo punto il soggetto – già lo abbiamo detto – non è più l’uomo che nega l’Assoluto per affermare sé, ma l’assoluta Negazione, la quale non può non “negare” anche l’uomo. In una parola, il Sacro non vuoi essere la gestazione del Santo ma la sostituzione di sé al Santo.

L’ultima verità non sarebbe allora il Volto dell’Assoluto mostrato nel Padre rivelato dal Figlio nello Spirito, ma un Uno senza volto, non per pochezza di luce in chi lo cerca ma per assenza di amore in se stesso. Non, dunque, lo ripeto, l’Assoluto impersonale delle grandi tradizioni spirituali precristiane e non cristiane, in attesa aurorale della Trinità, ma un assoluto impersonale che consuma qualsiasi assolutezza!

Quale il riflesso concreto di tutto ciò sull’uomo? Solo per una ipotesi: potremmo pensare a un acuirsi delle tensioni “individualiste”: uomini sempre meno “persone” e sempre più “massa”, perciò sempre più desolatamente “individui”, realtà da manipolare e da usare e da consumare.

L’insieme sociale non sarebbe più la convivenza che tende a, ed è animata dalla comunione delle persone, ma l’inghiottimento delle individualità fermate nel loro diventare persona in una entropia crescente, culturalmente espressa appunto nel Sacro Anonimo, in cui il singolo è “fatto” virtualmente dai media, e cancellato come reale da un Potere senza volto, il potere tecnocratico. (Si pensi al film “Matrix”).

Questa Notte non può non pesare sulla cultura cristiana che ne è intensamente disorientata. La teologia è emarginata ed estenuata. Chiusa in circoli di esperti, spesso non sa come farsi presente, fatica a ritrovare un autentico discorso di Fede, che è sempre sintesi di umano e divino, è il Cristo. E la cultura cristiana senza teologia si secolarizza, nella difficoltà a trovare la sua anima, la sua forma, che è il mistero della divina Theanthropia, dell’Incarnazione.

Per difendersi è tentata di arroccarsi su posizioni chiuse, più archeologia che creazione – memoria, ma senza l’impeto della Speranza. Oppure si apre, ma, disorientata com’è, si lascia penetrare dal negativo della cultura “laica” dominante senza riuscire a superarlo cristianamente in una partecipazione priva della forza purificatrice e illuminante della Carità.

Partecipazione senza la capacità di fare emergere dalla realtà del negativo, per la forza della croce del Cristo, il positivo che in esso è in gestazione. La cultura cristiana è nel buio di una prova profonda. Giovanni Paolo II non ha esitato a parlare di una notte oscura collettiva: «La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige l’apertura della fede, acquista a volte dimensioni di epoca e proporzioni collettive» (6)

II

L’anima dell’uomo, se non avrà attìnto per mezzo della fedeil dono dello Spinto Santo, ha sì la capacità di intendere Dìo,ma le manca la luce per conoscerlo

Sant’Ilario

Ci siamo chiesti all’inizio: perché questo esitò di una cultura che si è intimamente incontrata con l’annuncio evangelico? E sì è costruita intorno ad esso come nuova creazione? Non vogliamo dire, sia ben chiaro, che l’ateismo e il nichilismo (e tanto meno il ritorno del Sacro) siano frutto della cultura cristiana come tale, o siano essi stessi la cultura cristiana tutta in crisi. Una cultura cristiana autentica rimane, non confusa in alcun modo con i fondamenti teoretici dell’ateismo e del nichilismo. Vogliamo dire però che quanto accade nell’Europa non può non toccarla, è un “negativo” che essa sola può sanare, riconducendo-lo alla chiarezza: a condizione che sappia rispondere alla chiamata che Dio, oggi, le rivolge proprio in questa crisi che nasconde la speranza di un “nuovo” che vi matura dolorosamente.

Una risposta che sappia scoprire le radici di quel negativo anche in risposte non sufficienti – e teoretiche ed esistenziali – date nel passato al Dio di Gesù Cristo (7). Ateismo e nichilismo, oggi, vorrei pensarli come patologie della cultura cristiana nel suo denso cammino umano di incarnazione (si pensi alla crescita insieme del grano e del loglio!). Se vogliamo sanare questa patologia, occorre che il mistero cristiano ancora più profondamente sia penetrato dall’intelligenza e dalla vita dell’uomo, e le penetri.

Questo, da una parte spiega le tinte cupe con le quali ho accostato la “storia” della cultura dell’Europa; dall’altra apre alla speranza (ed all’intelligenza degli accadimenti) se tutto è ricondotto al mistero della Croce, soprattutto in quel suo vertice che è l’abbandono del Cristo. Il mistero cristiano, infatti, è, come dicono i Padri d’Oriente e d’Occidente, la Theanthropia, la Persona del Cristo Dio-uomo.

E dire la Persona del Cristo è dire la Trinità. È qui, a mio avviso, il nodo del problema. Il cristianesimo annuncia all’uomo un Assoluto mai prima pensato: un Uno che è Tre! La teologia cristiana ha accolto il mistero, è evidente, si è costruita attorno ad esso: ma quanto se ne è fatta penetrare? Quanto se ne è fatta informare? Riuscendo così a trasformare a fondo il pensiero stesso dell’uomo? (8)

Questa domanda è suggerita, fra l’altro, dalla costatazione di una separazione che a un certo punto incontriamo nella teologia stessa: la teologia come sapere di Dio in cui la saggezza dell’uomo si apre intimamente alla rivelazione accogliendola, si separa dalla teologia come mistica, come esperienza trinitaria di Dio. Il teologo accademico, soprattutto nell’Europa dell’Occidente, non ha più generalmente nel grande spirituale, nel mistico, un punto di riferimento essenziale per la sua teologia, che è sempre meno penetrata dallo Spirito Santo, il quale, a sua volta, rimane ai margini della stessa riflessione teologica.

 Il fatto che negli ultimi tempi si avverta l’urgenza di “riscoprire” in teologia Io Spirito Santo, e si riconosca di averlo di fatto emarginato nella riflessione di fede, è confessione di quanto abbiamo detto. Così, oggi si è sempre più coscienti che il mistero del Padre è al cuore del cristianesimo: l’analisi della relazione dell’uomo al Padre conduce al focolaio unificatore del messaggio di Gesù — e d’altra parte rivela, come è stato fatto notare, il focolaio di tutte le rivolte: marxista, nicciana, freudiana! (Senza dimenticare la prima, dell’Eden!).

Rivolte contro il Padre. Ma chi è il Padre, ancora oggi, per tanta teologia? La riscoperta dello Spirito e del Padre (ci sia consentito di parlare così), a sua volta, apre il mistero del Cristo ad una maggiore comprensione da parte nostra. In particolare, si comincia a vedere, proprio nella croce e nel grido dell’abbandono, non solo il compimento dell’opera della salvezza ma anche la tutta aperta rivelazione della vita dei Tre, Padre Figlio Spirito Santo, nel loro mistero di unità e distinzione.

La Trinità era, accademicamente, uno dei trattati (e non il più ampio) della teologia dogmatica. Ma non è tutta la teologia, si comincia a dire, che deve essere trinitaria? E non possiamo da qui comprendere l’origine nascosta di certe crisi del pensiero e delle forme di vita che poi hanno deviato patologicamente nella rivolta – e noi oggi ne assaporiamo i frutti amari?

Torniamo per un momento al Medioevo, l’epoca, come diceva Maritain, che ha conosciuto, nell’Occidente europeo, una grande unificazione degli ambiti del sapere. Ma lo stesso Maritain osservava che «la saggezza (sia infusa o contemplativa, sia teologica, sia metafisica), con un imperialismo che pagherà caro, faceva pesare in quel tempo, in un modo piuttosto eccessivo, il suo giogo reale sulla scienza; essa amava la scienza (…) ma la costringeva a lavorare sotto il predominio della filosofìa (…)» (9).

Per esistere (spinte all’essere proprio dalla restituzione cristiana del mondo a se stesso, liberato da «Principati e Potestà» [Col 2, 15], ed aperto così a Dio non più nel mito ma nella storia), le scienze “dovettero” rivoltarsi contro la saggezza: e non tutti gli uomini di scienza seppero avere l’umiltà cristiana di Galilei… La metafisica, che unificava il sapere umano conducendolo alle soglie della sapienza rivelata di Dio, separatesi al suo vertice dalla teologia e abbandonata alla sua base dalle scienze, che nel loro modo e in autonomia monopolizzavano il reale sensibile (in tutta la sua estensione, dalla “materia” al sociale-politico-economico), si è trovata ridotta ad astrazione.

La teologia si è trovata così con una metafisica ridotta a cadavere. Il sapere scientifico, a sua volta, si è trovato tagliato fuori da quella tensione all’Assoluto in cui non può non sfociare qualsiasi ricerca umana autentica; o, se la ha conservata, si è orientato a un “assoluto” misurato dal tipo di conoscenza posto in atto dal sapere scientifico stesso, oppure a un assoluto dì stampo gnosticheggiante (la Fisica e il Tao…).

Infine, la sapienza infusa, la contemplazione, si è trovata come respinta fuori dalla quotidianità dell’umano… Perché questo, torniamo a domandarci? Non possiamo pensare che sia stato causato dal fatto che la saggezza teologica (per riprendere il linguaggio di Maritain) non aveva accolto del tutto, certo non intenzionalmente, il Dio di Gesù Cristo? la Trinità? Quel suo “imperialismo” non nasceva dal fatto che essa intendeva la conduzione all’Uno dei vari ambiti del sapere – e del sapere umano a quello rivelato – in un modo non ancora del tutto cristiano?

Conduzione, cioè, a un Uno ancora neoplatonico, non compiutamente capito come Trinità? dunque come rivelazione, nell’Uno stesso, di una ineffabile pluralità (10)? Se la teologia, sempre nel Medioevo, è stata esperta di Trinità, la filosofìa, che essa elaborava come suo strumento, veniva sì centrata, con straordinaria intelligenza, sull’atto d’essere come epifania dell’Atto puro d’Essere che è Dio: ma questo atto d’essere non giungeva ad un essere-amore come Dio è Essere-Amore.

Non giungeva, la filosofia, ad una ontologia trinitaria richiesta da un essere che è amore. Solo la croce può condurre a ciò, ma la croce capita nel cuore della Trinità e come il vertice dell’uomo nel suo stesso pensare. Infatti, quell’Atto puro d’Essere che è Dio, si rivela Amore che muore per noi affrontando la negatività, facendola sua.

E questo Atto-Amore può compiere ciò, perché nel suo profondo custodisce un suo “Non-Essere” che però – e questo è il mistero! -, anziché negarlo, lo dice sommamente. Un Non-Essere non “assoluto” (sarebbe una contraddizione “assoluta”!) ma relativo: il Padre è l’unico Dio, il Figlio è l’unico Dio, lo Spirito Santo è l’unico Dio – ciascuno dei Tre è l’Uno; eppure, per pensarli Tre, dobbiamo dire -come già intuiva Agostino – che il Padre non-è.il Figlio, non è lo Spirito Santo ecc… (11).

Che cosa accade, se il pensiero dell’uomo scopre nel cuore dell’essere quel Non-Essere che rivela l’Essere-Amore? È la risposta, pensiamo, che la cultura cristiana oggi è chiamata a dare. Essa, di fatto, lo ripetiamo, non ha saputo far penetrare nel pen-siero- dell’essere la rivelazione dell’Essere che è Trinità, perché essa stessa lo pensava ancora in un modo non sufficiente (l2).

Ora, nel momento in cui il pensare fìlosofìco si separò in rivolta dalla teologia, si portò con sé un essere, come “oggetto” della metafìsica, che non era più l’essere dei Greci, soprattutto quello aurorale dei cosiddetti presocratici, né l’essere ormai rivelato da Gesù: non si portò con sé un “essere” che era stato fatto morire sulla croce per ritrovarsi amore nella pienezza e novità di Dio. Da qui il graduale rigetto dell’essere, ridotto ad astrazione, dall’ambito del pensiero fìlosofìco; da qui il cammino nascosto del nichilismo (13). Tanto pensiero moderno s’è fatto difensore dell’uomo nei confronti di Dio. Ma se Dio è Trinità, Essere-che-è-Amore, che senso ha la difesa da Lui?

In quel triplice non dei Tre fra loro, non è data proprio la possibilità, che la libertà di Dio renderà attuale, del nostro essere di creature che siamo-non-essendo Dio? Sapendo che questo non non significa insufficienza o negatività, bensì affermazione d’amore! Possiamo realmente essere non-essendo Dio, l’Essere, perché in Dio stesso ciascuno dei Tre è non-essendo l’Altro!

E questo Non-Essere non indica nei Tre privazione, ma comunione divina. Per questo la creazione non è un venir meno della pienezza dell’Assoluto in una emanazione in cui esso, se così si può dire, si estenua, ma l’espressione proprio della comunione divina che si partecipa. In Gesù, in maniera particolare nel momento dell’abbandono, il nostro non-essere, assunto da Lui e liberato dal peccato, ridiventa quello che è nell’intenzione di Dio: immagine creata della vita della Trinità — intersoggettività costitutiva dell’umanità, sulla quale si innesta in maniera aurorale la partecipazione alla stessa vita trinitaria di Dio.

Sul piano della vita sociale, sempre nell’ambito del Medioevo occidentale, era stato costruito un possente edificio socio-politico raccolto nella Cristianità, sintesi di Chiesa e di Impero. La lotta per l’unità condotta dai due – Impero e Chiesa – come tentata egemonia reciproca può essere vista come il riflesso di una unità teologicamente ancora troppo poco penetrata di Trinità.

L’unità dei Tre non è subordinazione di Uno all’Altro o egemonia di Uno sull’Altro, ma essere ciascuno l’Uno e l’Uno nell’Altro. Così, il Medioevo occidentale conobbe il maturare delle libertà civili, sotto la spinta dell’Evangelo che opera nell’uomo più profondamente di quanto l’uomo stesso ne abbia consapevolezza; ma presto quelle libertà nascenti, nella crisi del rapporto Chiesa-Impero, furono inghiottite da entità sociopolitiche “minori” rispetto all’Impero (parlo degli Stati nazionali), frammentate, ma costruite sempre intorno ad un’unità come egemonia: egemonia di un potere su un altro, di una classe su un’altra, di una nazione su un’altra.

L’Uno non aperto in Trinità ha continuato a mettere in crisi dall’interno il pensiero e le strutture sociopolitiche dell’Europa, che d’altra parte andavano nascendo per la spinta trinitaria. In sintesi, direi che il sapere teoretico e pratico costruito dalla cultura cristiana e dell’Occidente e dell’Oriente europei, pur con immensi guadagni di luce e di vita, non è ancora approdato ad una sintesi tale che rispecchi la Trinità proprio a livello di cultura (14).

Le separazioni fra le Chiese cristiane ne sono, mi sembra, l’esempio più appariscente. Da tutto questo è derivata la frantumazione interna del sapere, con l’isolamento della teologia come sapere “fideistico”, il tramonto della metafisica in quanto oramai sapere di un essere “svuotato” della sua realtà (Dio Trinità, l’uomo e il cosmo nel Cristo), lo svilupparsi egemone del sapere scientifico nei vari ambiti ma anche questi in fuga tra loro e senza che attingano, trascendendosi nella reciprocità, le profondità dell’uomo.

Da qui l’emarginazione progressiva della Chiesa vista come realtà solo di fede (riducendo la fede al suo “versante” divino); il tramonto dell’idea di una unità politica suprema; lo sviluppo nell’Europa degli Stati nazionali in situazione di conflittualità reciproca e senza che riescano ancora ad attingere un ordine universale che non sia egemonia di uno sugli altri, ordine necessario per la sopravvivenza dell’uomo.

L'”infezione” nazionalistica e secolarizzata degli universi e delle strutture politiche non occidentali ne è una conseguenza drammatica. Lo ripeto: non voglio ridurre a quest’unica chiave di interpretazione la comprensione del fenomeno complesso che stiamo analizzando. Ma la proposta che qui avanzo mi sembra abbia una sua verità. In effetti, il pensiero contemporaneo non si è rivoltato originariamente contro un Dio in generale, se così posso dire, ma contro il Dio di Gesù Cristo non capito a fondo nella sua dimensione trinitaria (15).

Lo ha messo ben in evidenza Giovanni Paolo II nel brano citato del 1982. È da qui che nasce la caratteristica specifica dell’ateismo dell’Europa rispetto agli ateismi presenti nelle culture non cristiane; il rapporto dell’uomo con la rivelazione della Trinità! E’ questo che va capito. La Trinità, versione dell’Assoluto inaudita per qualsiasi fede religiosa non cristiana, combatte con l’uomo, come l’angelo con Giacobbe, per farsi accogliere da lui per accoglierlo in Sé.

È la Trinità che preme sul pensiero, sui rapporti interpersonali, per informarli di Sé. Se potessimo separare in Giobbe la fede, che mai gli venne meno pure nel dubbio tormentoso, dal lamento che a tratti raggiunse momenti di rivolta, potremmo vedere nella più nobile cultura “laica” dell’Europa il lamento di Giobbe nella sua crudezza e nella sua rivolta; e nella cultura cristiana d’oggi, più attenta e aperta, la ricerca di una fede calata nel tempo, che ascoltando quel lamento cerca una risposta che, senza cadere nell’errore degli amici di Giobbe, possa far dire all’uomo che cerca: «II mio orecchio aveva udito di te, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42, 5)

III

Gesù è Gesù Abbandonato. Perché Gesù è il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull’umanità il Divino, attraverso la ferita dell’Abbandono, che è la pupilla dell’occhio di Dio sul mondo:

un Vuoto infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio

Chiara Lubich

Ponendoci di fronte a Giobbe, ci poniamo dì fronte a quel grido di abbandono che ha fatto sua l’oscurità di Giobbe, di tutti gli uomini, e l’ha risolta nell’amore. È a partire da questo grido, il OH senso profondo lo Spirito Santo invita oggi la Chiesa a più intensamente penetrare, che si potrà capire, come sto tentando di fare, il significato di una storia – quella della cultura dell’Europa — e nel suo insieme e nelle sue tappe. Solo qualche accenno.

II Cristo nell’abbandono si è messo tutto dalla parte della creatura, sino in fondo, portandole la sua realtà di Dio. Dunque, dando alla creatura una straordinaria densità d’essere: tu veramente sei perché io, l’Essere, mi sono fatto sino in fondo te! È da qui che nasce, per un esempio, la passione della cultura europea per le creature proprio nella loro dimensione di creature, e per il sapere scientifico non come sapere “provvisorio” ma come sapere di un mondo che è vero in sé e va conosciuto in questa sua verità.

Ma il Cristo, nell’abbandono, è anche tutto dalla parte del Padre, ne è la Parola d’amore pienamente spiegata: la creatura, dunque, è condotta al Padre, è strappata, senza perdere il proprio, verso l’Essere stesso di Dio. La divinizzazione. E questo è tenebra per il pensiero dell’uomo, creatura e che conosce il peccato: l’uomo che è finitezza capisce che si possa essere o non essere, fa difficoltà a capire che si possa essere non essendo, che si possa non essere essendo (il Cristo sulla croce lo esprime in maniera assoluta).

Ancora. Il Cristo nell’abbandono si è fatto uno di noi, un “singolo”, nostro fratello, e ha fatto penetrare la gloria di Dio nella “singolarità”: non solo il tutto dell’universo è “divino” (cf. Ef 1, 10) (i greci questo potevano capirlo, anche se nel loro modo), ma il singolo, il particolare, è aperto alla divinizzazione (cf. Col 1, 18).

È da qui che nasce, per un esempio, la passione dell’europeo per la pluralità, per la molteplicità, contro una unità negativa del molteplice, e la gelosia nel custodire e difendere proprio la singolarità dei singoli. Ma il Cristo opera la divinizzazione del singolo in quanto il singolo è uno con lui come membro del suo Corpo, quel Corpo individuo nel quale risiede tutta la pienezza della divinità (cf. Col 2, 9): il singolo è divinizzato, ma nell’unico Cristo. E questo è tenebra per il pensiero dell’uomo che capisce l’Uno o i molti (la grande filosofia greca ne era stata perfettamente cosciente), ma non Uno che è molti, molti che sono Uno (la Chiesa nella Pentecoste ne è stata l’accadimento fondante e l’annuncio).

Nell’abbandono del Cristo in croce, come già abbiamo accennato, si è aperto il mistero stesso di Dio nella sua intimità: Uno che è Tre. Un Uno che, lo ripetiamo, in un suo modo ineffabile è pluralità di Persone. Tre Persone che sono Uno, essendo ciascuno dei Tre l’Uno, ma tutto negli Altri. Questa rivelazione, mentre è salvezza per il pensiero dell’uomo perché lo custodisce proprio nella sua distinzione da Dio pur nell’unità con Dio, ne è anche tenebra.

Fino a quando l’uomo non trasformi in trinità le sue categorie trasformando in trinità la sua vita. Con un lavoro secolare la Trinità sta aprendo, per purificazione e dilatazione, la comprensione di Dio che l’uomo aveva elaborato (e non senza l’aiuto di Dio) nelle culture ebraica e greco-romana (16), e che la cultura cristiana ha “ricreate”, per condurre il pensiero a pensare il Dio “vero”, il Dio che è Amore.

E proprio perché offre un paradigma per la comprensione di questo “lavoro” di Dio nell’oggi delle culture del mondo, abbiamo cercato di comprendere in Gesù abbandonato la condizione esistenziale dì cui soffre la cultura dell’Europa.

Allora non è azzardato dire che essa attende una sola cosa: passare dall’abbandono alla risurrezione. Come dall’abisso dell’abbandono è esplosa la gioia della risurrezione, dagli abissi anche bui della cultura d’oggi deve esplodere vita nuova e pensare nuovo. Una vita che sia già fin d’ora trinità. Un concepire, che è un vivere, l’unità nella trinità e la trinità nell’unità.

Un pensare che sia trinitario, perché è il pensare di ciascuno in quella interiorità dilatata che comprende il fratello: io penso in te e tu in me, perché io vivo in te e tu in me uniti e distinti nell’unica vita, nell’unico pensiero del Cristo che è nel Padre nella comunione dello Spirito Santo.

Un elaborare istituzioni e strutture che calino sempre più queste realtà nella prassi di tutti i giorni. Strutture “laiche”, perché il Cristo è veramente uomo; ma strutture che “dicano” Dio, perché il Cristo è veramente Dio. Inseparabilmente. Questo esige che noi cristiani ci abituiamo in maniera nuova, nella luce che scaturisce dall’Abbandono fatto nostra vita, a vivere con il Risorto, nel cui volto si rispecchiano, in unità-distinzione, tutti i nostri volti, salvati da quell’anonimato cui tenderebbe a condurli il Sacro oggi annunciantesi.

Ma il Risorto non vive in mezzo a noi? (cf. Mt 18, 20; 28, 20). Allora, occorre elaborare una vita, una cultura, che sia cenacolo attorno al Cristo risorto, Gesù in mezzo ai suoi, sino a poter dire a Dio: «ora i miei occhi ti vedono» nel volto del fratello che imparo a riconoscere nel e come O volto del Cristo. Una cultura che sia già, anche se in nuce, luce che brilla nel cuore delle tenebre (17).

Occorre che questa vita ci conquisti completamente. Conquisti completamente le nostre intelligenze, facendoci comprendere che la grande teologia, di cui oggi ha bisogno il complesso e articolato mondo del sapere, è prima di tutto quella vivente costituita da noi stessi, parole di Dio nell’unica Parola, nell’unico Verbo che, raccogliendoci in Sé in unità-distinzione, fa di noi quel Discorso vivo che dobbiamo essere: il Discorso del Dio vivo, della Trinità.

L’unico Discorso che può mostrare agli altri, e a noi stessi, il Dio di Gesù Cristo, il Dio-Trinità; «Che tutti siano uno come tu, Padre, sei in me ed io in te, che anche essi siano uno in noi, affinchè il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Questa teologia – e il sapere specifico in cui si deve esprimere – potrà aprire appassionatamente all’unità tutti gli ambiti del sapere, confermandoli nella loro densità specifica, perché essa non è prima di tutto un ambito del sapere più ampio rispetto agli altri, ma la Persona dell’Uomo Dio vivente nel suo corpo che è la Chiesa. Occorre dilatare queste realtà. Farle entrare in tutte le espressioni dell’uomo.

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