newsletter Comunità Ambrosiana – Alleanza Cattolica Milano, 10 marzo 2016
Marco Invernizzi
Si sta scrivendo e parlando in queste ore con una certa frequenza di Family day e impegno politico, di esempi storici recenti e antichi che sosterrebbero la scelta di impegnarsi subito nelle prossime elezioni amministrative, come stanno facendo Mario Adinolfi e Gianfranco Amato, i due esponenti del Comitato Difendiamo i nostri figli che hanno annunciato una nuova formazione politica, il Popolo della famiglia, che si presenterà alle prossime elezioni.
La mia contrarietà a questa scelta deriva da molti fattori, di merito e di metodo, ma soprattutto dalla necessità di avere un minimo di cultura politica condivisa prima di chiedere il voto degli italiani.
So bene che siamo in una società dominata dalla dittatura del relativismo e che non si può confondere una lista elettorale con una realtà associativa di militanti. Anche un movimento politico oggi, dopo l’epoca delle ideologie, deve un poco rassegnarsi ad affrontare la “malattia” del pensiero debole, della mancanza di formazione culturale e politica. Tuttavia, un movimento politico che vuole porre al centro la famiglia dovrà sforzarsi di andare contro questa caratteristica della cultura dominante e cercare di avere alcuni principi fondamentali ben precisi che gli permettano di avere una certa idea del bene comune.
Una cosa esattamente contraria al Movimento 5Stelle, l’incarnazione politica più fedele del relativismo, sia per la mancanza di contenuti o per la presenza di troppi punti di vista, sia per il modo “virtuale” di reclutamento dei quadri. A una gestione relativistica e liquida dei principi corrisponde di solito, come sembra avvenire per il movimento di Grillo e Casaleggio, un esercizio della leadership intollerante e invasivo.
Una realtà ispirata alla difesa e alla promozione della famiglia dovrà evidentemente ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma questo non le basterà. La dottrina sociale ci dice cosa è il bene comune, non come cercare di realizzarlo. Inoltre, a prescindere dal fatto che la dottrina sociale è quasi sconosciuta anche a coloro che ne parlano spesso, rimane che essa non ci vuole indicare le modalità dell’impegno politico, ma soltanto i contenuti.
La dottrina sociale della Chiesa non è un programma politico, come insegnano diversi documenti fra cui l’enciclica Sollicitudo rei socialis di San Giovanni Paolo II, ma un insieme di principi che ci forniscono dei criteri di giudizio, non delle soluzioni politiche.
Ecco perché la formazione di una realtà che voglia costruire il bene della comunità attraverso l’impegno politico deve avere il tempo di costruire una cultura politica condivisa, che tracci almeno le grandi linee del proprio progetto su cui chiederà il voto.
Chi ha saltato questo passaggio è sempre fallito.
Mi si potrebbe obiettare che i voti, in una società plurale, si prendono da ambienti diversi. Vero, tuttavia bisogna comunque scegliere a quali ambienti rivolgersi. Non solo per vincere, ma anche per rimanere insieme, per non dividersi subito in diverse correnti, neppure ideali peraltro.
Ecco perché bisogna costruire con pazienza un soggetto che sappia offrire ai suoi simpatizzanti un progetto di cultura politica che non appaia una forzatura calata dall’alto, ma sia frutto di un lavoro di formazione che non può essere brevissimo.
Il Comitato Difendiamo i nostri figli, come recita il suo Manifesto costitutivo, è nato per innervare nella società alcuni di questi principi e in modo particolare per difendere e diffondere la necessità e la bellezza della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna, oltre che per opporsi all’ideologia gender ricordando che un bambino ha diritto di avere un padre e una madre.
In futuro, se i suoi dirigenti lo riterranno opportuno, il Comitato potrà estendere la propria attenzione ad altri ambiti che concorrono a costruire il bene comune di una società, e diventare così un comitato civico capace di diffondere nel corpo sociale una vera cultura politica, che parte dalla dottrina sociale della Chiesa e da una interpretazione della storia condivisa per giudicare i problemi del tempo presente.
Ma perderebbe completamente la sua identità se si confondesse in qualche modo con un soggetto partitico che si presenta alle elezioni, che fa politica invece di giudicarla e cercare di orientarla. Questo è il motivo per cui, dopo la vittoria di civiltà del 18 aprile 1948 ottenuta grazie al contributo importante dei Comitati civici, Luigi Gedda rifiutò per due volte il seggio senatoriale sicuro di Viterbo che il partito della Dc gli offriva. Sapeva che avrebbe perso la sua autonomia e la sua libertà di giudicare i giocatori, se fosse direttamente disceso in campo.
Questo non significa disprezzare l’impegno politico diretto nelle istituzioni. Esso va però radicalmente separato dall’impegno culturale e civile, e quest’ultimo deve precederlo se non si vuole costruire una cosa fragile e inutile, e probabilmente nociva.