Una nazione spaccata

ObamaRadici Cristiane n.80 dicembre 2012

La rielezione di Barack Hussein Obama implica una vera e propria rivoluzione che sostanzialmente il quadro psicologico, e quindi anche sociale e politico, degli Stati Uniti

di Julio Loredo

Dopo l’attacco proditorio a Pearl Harbour, rispondendo alle adulazioni degli ufficiali che si complimentavano con lui per la vittoria, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto ebbe quel “mot célèbre“: «Abbiamo solo svegliato il gigante assopito».

OBAMA; NON LIBERAL, MA RADICAL

Qualcosa di simile si potrebbe dire, almeno riguardo a una parte del Paese, della recente rielezione di Barack Hussein Obama, anche se per un margine assai esiguo del voto popolare: poco più del 2%. Al tempo della sua elezione, nel 2008, analizzando il tipo di cambiamenti ai quali la nazione andava incontro, un opinionista scrisse: «Non bisogna domandarsi quali rivoluzioni potrà realizzare il nuovo presidente, lui stesso è la Rivoluzione».

Infatti, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti era stato eletto un presidente nero, seguace della Black Theology of Liberation, nella quale scorge «un forte potenziale rivoluzionario» di idee apertamente socialiste improntate a quel “socialismo populista” avanzato da Saul Alinsky, del quale è discepolo, partigiano di ogni forma di aborto, compreso l’orribile partialbirth abortion, nel quale il bimbo è ucciso mentre nasce, sostenitore delle frange più estreme dei movimenti omosessualista e femminista, favorevole alla liberazione delle droghe, nemico giurato delle sane tradizioni del Paese, e via dicendo.

Per usare il gergo politico americano, per la prima volta era stato eletto non un liberal ma un radical.

Non tutti hanno intuito sul momento le ultime conseguenze di questo evento epocale. Anche il fatto che Obama abbia poi mantenuto praticamente immutata la politica estera statunitense ha indotto taluni analisti a vedervi una continuità istituzionale, quando in realtà si è trattato di una vera e propria cesura storica, appunto di una Rivoluzione.

Una Rivoluzione che, nell’opinione di un numero crescente di analisti, sia politici che ecclesiastici, sta ponendo le condizioni per lo scoppio di una guerra civile. Perché questo giudizio non sembri esagerato, bisogna spendere due parole sulla mentalità americana.

VERSO LA GUERRA CIVILE?

Gli Stati Uniti si sono sempre caratterizzati per una way of life affabile e aperta, che considera con distacco i contrasti di opinione, una way of life ottimista e irenica che predilige il pragmatismo e rifugge dalla disquisizione teorica, sempre pe­ricolosa in quanto facile premessa di idee assolute e, quindi, di perniciose divisioni.

Questa way of life permise di stabilire un clima di tranquilla convivenza e di consenso — il famoso “American compact” – distante anni luci dall’ambiente europeo, endemicamente lacerato da polemiche e da guerre. La Guerra Civile del 1861-1864, seppur molto cruenta, costituì appena una parentesi in questa lunga storia di concordia nazionale.

Permissivo per natura, questo stato di spirito poteva facilmente degenerare in un liberalismo sfrenato, atto a suscitare reazioni che avrebbero potuto dilacerare il tessuto nazionale, dando perfino vita a movimenti di tipo contro-rivoluzionario e, quindi, a guerre tipo Vandea.

Per evitare questo, lo Stato assunse la difesa della religione cristiana in genere quale fondamento dell’ordine morale, sociale e politico. Donde il paradosso di uno Stato costituzionalmente aconfessionale che si proclamava tuttavia apertamente cristiano, perfino incorporando nella sua vita pubblica non poche manifestazioni religiose. Era la cosiddetta civil religion.

La salvaguarda di questa way of life presupponeva l’assenza di conflitti che potessero lacerarla. Presupponeva quindi la manutenzione di un ampio consenso intorno alla civil religion quale fondamento dell’ordine americano. E, infatti, per più di duecento anni le polemiche dottrinali, culturali e politiche si erano sempre mantenute entro certi parametri che vedevano opposti coservatives e liberals. Le componenti radical (come d’altronde quelle tradizionaliste in senso europeo), pur presenti, erano marginali.

L’elezione di Obama nel 2008 ha fatto saltare in aria questo equilibrio. I pesanti interventi governativi in aree così sensibili della realtà nazionale che nessuno avrebbe mai sognato di toccare, stanno creando spaccature e rancori non molto dissimili a quelli che precedettero il conflitto del 1861.

Prendiamone un esempio. La riforma sanitaria proposta dal Presidente, la famigerata Obamacare, non solo introduce sostanziali modifiche nel sistema sanitario nazionale, ma mette la scure alle radici stesse della mentalità americana, fondata sull’idea di responsabilità individuale e non sull’assistenzialismo dello Stato, cosa del tutto aliena al sistema americano. Oltre agli aspetti politici ed economici, già di per sé preoccupanti, l’ Obamacare implica un’immensa rivoluzione culturale che potrebbe cambiare per sempre la stessa mentalità di ampi settori del Paese.

UNA “CROCIATA IN DIFESA DELL’ORDINE AMERICANO”

Come gli è riuscito a Obama questo tour de force? Egli ha fatto leva su settori della popolazione inclini a ricorrere agli aiuti statali – particolarmente gente di colore e ispanici – che, nonostante tutta la retorica sul melting pot, non si sono mai integrati perfettamente nel sistema americano, e adesso sembra che vi abbiano rinunciato del tutto. Sono proprio i settori ai quali si riferiva Rommey quando ha dichiarato «costoro non voteranno mai per me». E così è andata.

Ma, come dicono gli americani, there ain’t no free lunch, “non c’è pranzo gratuito”. Qualcuno deve pure pagare il conto. Chi pagherà? Ovviamente quella parte della popolazione che, nel tipico american style, non si adagia sull’assistenzialismo statale ma preferisce lavorare sodo. Sarà disposta a farlo? Basta leggere i giornali e i blog americani di questi ultimi mesi per accorgersi quanto questa parte della popolazione si senta presa in giro e stia mostrando una insofferenza crescente di cui non è possibile prevedere gli ultimi sviluppi.

Si comincia a parlare di “crociata in difesa dell’ordine americano”. L’intervento radicale di Obama ha provocato una reazione altrettanto radicale. E qui stiamo parlando del 48% degli americani, vale a dire di coloro che hanno votato Mitt Rommey e che, in futuro, potranno votare Rick Santorum.

UNO SPARTIACQUE STORICO

L’area dove l’ingerenza obamista sta provocando maggiori disagi, però, è il campo religioso.

Rompendo ogni equilibrio storico, e calpestando anche un fondamento del sistema americano, cioè la libertà religiosa, Obama ha cancellato l’obiezione di coscienza nelle strutture sanitarie nazionali, L’Obamacare prevede, infatti, che medici e infermieri non possano più addurre un conflitto di coscienza quando si tratti di eseguire interventi contrari alla morale cristiana, come l’aborto, l’eutanasia o la somministrazione di contraccettivi.

La reazione dei cattolici è stata decisa e compatta. Perfino molti vescovi, finora silenziosi quando non schiera con i liberal, hanno alzato la voce contro il governo. Il cardinale Raymond Burke, già arcivescovo di Saint Louis e attuale Prefetto della Segnato Apostolica del Vaticano, è stato molto chiaro: «Ci stiamo inoltrando in una vera e propria situazione di persecuzione religiosa». Una persecuzione totalmente aliena all’american way of life e che, in pratica, ne costituisce la negazione.

Preoccupato per la fortissima reazione dei cattolici — dei quali dipende il 40% del sistema sanitario nazionale – Obama ha sospeso fino 2013 l’applicazione di questa clausola della riforma. Ma cosa succederà dopo? Tutto il personale sanitario cattolico, e non solo, sarà costretto a scegliere fra l’obbedienza alla leggi di Dio e l’obbedienza alla legge di Barack Hussein Obama.

Se a questo aggiungiamo una serie di disposizioni legali che, sotto il pretesto della “non discrimazione”, praticamente vietano alla Chiese Cattolica di insegnare la sua dottrina in campo morale, possiamo capire le inquietanti dichiarazioni del cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago: «Io spero di morire nel mio letto. Il mio successore morirà certamente in prigione. Il suo successori morirà martire sulla piazza pubblica».

Quando si può parlare di martirio in piazza pubblica negli Stati Uniti, è chiaro che è stato superato un confine. Da parte loro, non vi è più il rispetto per i parametri tradizionali del sistema americano. Sono disposti a calpestare qualsiasi principio pur di imporre la Rivoluzione. Da parte nostra, cresce la consapevolezza di dover arrivare fino al martirio pur di difendere i principi non negoziabili.

Il “gigante assopito” si sta risvegliando. Con quali conseguenze? Solo il futuro lo dirà. Il fatto è che, a nostro parere, le ultime due elezioni americane costituiscono uno spartiacque storico.