Studi cattolici n.636 Febbraio 2014
di mons. Luigi Negri
Credo che sia innegabile, almeno per le persone dotate di buon senso, ancor prima e più profondamente che di un’autentica coscienza ecclesiale, che la Chiesa e la società vivono un periodo di estrema confusione. Epoca in cui posizioni diverse, il più delle volte senza adeguate motivazioni, vengono affermate come posizioni oggettivamente valide e pertanto indiscutibili.
In questo intreccio di banalità, di veri e propri tradimenti nei confronti della tradizione teologica e magisteriale, di irruzione dei mass media in cui, come metteva in guardia tanti anni fa il Papa Paolo VI, la mentalità laicista tenta di dettare le linee interpretative della fede e dei suoi contenuti fondamentali, si rende necessario e doveroso indicare alcune linee di riflessione e di approfondimento.
La prima osservazione riguarda la contrapposizione fra dottrina e pastorale, con una scelta che si porrebbe come esclusiva della pastorale nei confronti della dottrina. Questa distinzione, e divisione, non ha alcun fondamento di carattere magisteriale e neppure teologico. L’evento cristiano è un evento di vita, e quindi di dottrina, perché è la presentazione della verità di Dio e quindi della verità dell’uomo che, fin dai primi tempi, ha assunto una precisa modalità d’essere affermata e comunicata. Basterebbe ricordare il peso enorme che, nei primi secoli del cristianesimo, ha avuto la forte interrelazione tra dottrina e pastorale nelle professioni di fede delle varie Chiese locali e il loro influsso sulle grandi prese di posizione conciliari nei primi sette secoli della Chiesa, poi sviluppatesi nel magistero ordinario del Papa e dei Vescovi.
Il problema è che il cristianesimo non è una verità, ma vive e propone la verità, che non è soltanto recepita intellettualmente ma, in quanto accolta esistenzialmente, diventa un movimento di vita. La pastorale sta alla dottrina come l’accoglimento della verità, la sua custodia, la sua maturazione critica; è il tentativo di rendere vitale la verità che la dottrina proclama nella dimensione personale, famigliare e sociale. Mi piacerebbe chiedere a qualcuno dei fautori di questa distinzione e separazione netta fra dottrina e pastorale: su che cosa si fonderebbe la pastorale se non si fonda più sulla dottrina?
Perché sembra non debba più fondarsi, pena il consegnarsi a una posizione ideologica e quindi superata della Chiesa. Su che cosa si fonderebbe questa pastorale? Che è come chiedersi, in perfetta analogia, su che cosa si fonda l’etica se non sulla verità? Se non si fonda sulla verità, la pastorale si fonderà allora su ciò che l’ideologia mondana suggerisce o propone come indiscutibile. In alcune di queste posizioni «teologiche» (e scriviamo teologiche con un misto di sgomento e di tendenza alla comicità) chi legge ciò che sta dietro questi suggerimenti, che devono essere innovativi perché di rottura con tutto quello che si è praticato finora, si accorge che il retroterra è il massmediaticamente corretto, ovvero ciò che è sentito giusto statisticamente dalla maggioranza, anche quando è una maggioranza costruita falsamente attraverso le pressioni invasive dei mass media.
Questo è ciò su cui la pastorale, e ogni attività di carattere pratico, deve misurarsi. È chiaro dunque che il fondamento dell’azione che dovrebbe nascere dalla fede, nasce invece dall’ideologia mondana. Tutt’altra è stata per secoli l’esperienza della Chiesa: la verità si protendeva nella pastorale. San Carlo Borromeo definiva il vescovo, il pastore della Chiesa, colui che doveva vivere e proporre la carità pastorale verso il gregge; che cura il popolo, la sua maturazione culturale, morale, la sua educazione piena e integrale, in cui la personalità cristiana e quella umana si sintetizzano adeguatamente. Questo credo sia un dato della tradizione che certamente non deve essere ripetuto pedissequamente, ma non deve essere né distrutto e né superato in modo insensato.
Seconda osservazione. Certamente la Chiesa nello svolgere la sua attività, che è insieme dunque dottrinale e pastorale, deve misurarsi con la realtà obiettiva non tanto del mondo – termine su cui occorrerebbero distinzioni che purtroppo non si fanno più e che quindi rendono del tutto convenzionale e quasi equivoco farvi riferimento – ma, come ci ha ricordato bene il Concilio Vaticano II rinnovando un insegnamento permanente, con i problemi reali degli uomini che vivono in una determinata situazione e che sono coinvolti, consapevolmente o meno, in opzioni di carattere culturale e soggetti a forti pressioni ideologiche.
A questo proposito che la famiglia sia stata sottoposta negli ultimi decenni a un tipo di pressione di carattere ideologico, che di fatto ha teso a snaturare la sua identità, la sua immagine nella Chiesa e nel mondo, è certamente un dato da tenere in considerazione. Non si può pertanto riproporre la dottrina come se non fossero avvenute tali trasformazioni. La riproposizione dell’immagine della famiglia nella sua integralità, comporta un necessario dialogo vivo e capace di assumere le attuali problematiche della vita sociale.
Quale che sia la situazione non è mai un valore ma è una sfida ai valori, e i valori — in questo caso per esempio l’immagine cristiana cattolica di famiglia, in cui si realizza pienamente la famiglia naturale – devono essere in grado di ricevere tutte le sfide del nostro tempo, e dunque riproporre oggi il permanente insegnamento di Cristo e della Chiesa sulla famiglia in un modo che riesca il più possibile a rispondere alle problematiche nuove, e talora devastanti, che gli uomini incontrano in tale ambito.
Percorrere un’altra strada, come viene proposto di fare, avrebbe semplicemente il carattere di un tradimento del cristianesimo. Il cristianesimo non dipende dalla situazione ma investe, dialoga, qualche volta si oppone alla situazione ma solo per rendere possibile l’annunzio di Cristo e la comunicazione della vita cristiana. Se invece si tentasse in qualsiasi modo di sottoporre la dottrina cristiana al gradimento della situazione, o delle forze ideologiche che manipolano la situazione, si opererebbe ancora una volta un tradimento del cristianesimo a vantaggio della mentalità mondana anticattolica.
Il grande filosofo Jean Guitton in uno straordinario libro Il Cristo dilacerato. Crisi e concili nella Chiesa, scritto nelle more della prima sessione del Concilio Vaticano II, a cui partecipava come invitato, afferma che ogni generazione cristiana si è trovata di fronte alla grande sfida: è la fede che giudica il mondo o il mondo che giudica la fede? Tutta la confusione di oggi nasce dal fatto che in spazi sempre più vasti e talora inaspettati della ecclesiasticità sembra si stia dando nuova forma alla grande tentazione ariana e gnostica. «La gnosi è la madre di tutte le eresie» dice sempre Guitton, ossia la tentazione di sottoporre la fede al mondo anziché investire il mondo della luce pacificante che trasforma la realtà, secondo l’insegnamento della prima enciclica di Papa Francesco Lumen Fidei.
Infine una velocissima precisazione. Il mondo, inteso evangelicamente e secondo la tradizione magisteriale autentica della Chiesa, è una realtà che ha una sua complessità e che contiene germi di contraddittorietà. C’è il mondo che è aperto al mistero, al trascendente e non esclude nessuna possibilità, esercita la ragione come domanda del vero, del bene, del bello e del giusto non in opposizione o eliminando il mistero. Sul filo di questo mondo, che cerca anche senza saperlo o senza esserne cosciente fino in fondo, aleggia la grande idea che la rivelazione è una possibilità che la ragione non può legittimamente escludere.
Il mio grande maestro di metafisica, Gustavo Bontadini, diceva che il pensiero è vero quando realizza l’escludenza delle escludenze, ossia quando non esclude nessuna possibilità. Ma c’è anche un mondo che ha preso una decisione, consapevole o meno, contro Cristo e contro la Chiesa e vive quindi per eliminare la presenza di Cristo e della Chiesa dal mondo stesso.
Il mondo non può essere trattato, nel nostro impegno pastorale, come se fosse il mondo che aspetta Cristo e neanche come se fosse esclusivamente il mondo che rifiuta Cristo. Fare una scelta esclusiva in questo senso è assolutamente banale e rende la presenza cristiana culturalmente insignificante, perché o la chiude al mondo, e la isola fuori della vita concreta e storica dell’umanità, o la dissolve nella realtà mondana, come se la presenza della Chiesa dovesse consistere nella sua auto-dissoluzione.
Io rinnovo nel mio cuore la gratitudine per i grandi maestri di teologia che ho avuto negli anni indimenticabili del mio seminario a Venegono, a contatto con una delle più grandi scuole teologiche della Chiesa del XIX e XX secolo.