La Croce quotidiano 13 maggio 2017
Il 2 giugno sarà la festa della Repubblica Italiana ma, nello stesso giorno, cadrà un inquietante anniversario per la storia del nostro Paese: i 25 anni dal varo a bordo di uno yacht di Sua Maestà del Regno Unito del “patto del Britannia” (2 giugno 1992). I leader di alcuni grandi gruppi finanziari, con l’avallo di esponenti “selezionati” della burocrazia pubblica, decisero la svendita del patrimonio industriale nazionale (le c.d. “privatizzazioni”). Non ci si chiedano supporti fotografici o documentali: tutti abbiamo occhi
di Giuseppe Brienza
Non sono complottista e, con questo articolo, non pretendo d’impegnare la linea editoriale de “La Croce quotidiano”. Ma devo parlare di un episodio, ancora non menzionato né sui libri di storia né sui saggi economici né sui grandi giornali, che rimane centrale per comprendere l’attuale fase storico-politica nazionale. Del resto il 2 giugno ricorrerà, assieme alla “festa della Repubblica”, il 25mo anniversario di questo scellerato “patto del Britannia”, attraverso il quale approfittando del vuoto di potere politico generato con Tangentopoli, i leader di alcuni grandi gruppi finanziari anglosassoni, con la complicità di grandi imprenditori e burocrati italiani, hanno deciso fuori da ogni legittimità democratica oggetto e modalità della svendita del patrimonio industriale del nostro Paese. In pratica progettando la cessione (o quasi) di ogni residuo di sovranità economica nazionale.
Ecco in sintesi tutti gli elementi per scriverne qualcosa sul giornale che si batte “contro i falsi miti del Progresso”, uno dei quali è appunto la snazionalizzazione, il cosmopolitismo e, insomma, la “rottamazione” di ogni piccola e grande patria e sovranità (anche economica). Senza voler sopravvalutare il ruolo delle “regie occulte” nelle dinamiche storiche di interi Paesi, vale però la pena di ricordare agli smemorati (o non-conoscenti) le modalità e il risultato di questo, più o meno formale, “accordo”, siglato il 2 giugno del 1992 nelle acque del Mediterraneo a bordo del regio yacht “Britannia”, che si trovava “per caso” nelle nostre acque territoriali.
«Ora che crolla il nostro sistema italo-sovietico – ha scritto a pochi mesi dal “fattaccio” uno dei pochi giornalisti e intellettuali che hanno avuto il coraggio di denunciare -, l’arrembaggio dei privati internazionali si accanisce contro questo Paese all’asta dopo il terremoto di Tangentopoli».
Tra le clamorose conferme dei nefasti esiti della “rivoluzione politico-giudiziaria” del 1992-93, proseguiva l’allora direttore de “L’Italia settimanale”, «la vicenda delle nostre privatizzazioni decise in uno yacht di Sua Maestà del Regno Unito da gruppi finanziari mondiali insieme con le teste d’uovo della nostra finanza pubblica. […] Uno dei partecipanti all’incontro cui fu decisa la svendita del nostro Paese confessa: “è vero, la crociera ci fu”. […] Lo ha detto alla Commissione Bilancio della Camera Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro. Non sappiamo se ci siano gli estremi per parlare di alto tradimento da parte di coloro che hanno autorizzato o partecipato a quest’incontro. Certo si è trattato di un nuovo, penoso episodio di colonizzazione, di servilismo internazionale» (Marcello Veneziani, AAA Italia vendesi al peggior offerente, in “L’Italia settimanale”, 17 marzo 1993, p. 6).
Dopo questo “patto” discese quindi direttamente la prima delle progressive ondate delle c.d. “privatizzazioni”, cioè del collocamento sul mercato, a prezzi inferiori di quelli effettivi, delle aziende e dei patrimoni industriali e bancari pubblici più prestigiosi. S’iniziò con il Credito Italiano (dicembre 1993), poi fu la volta dell’Istituto mobiliare italiano-Imi (gennaio 1994), per proseguire fino all’ottobre 1999 con la svendita delle prime azioni Enel. Il processo di privatizzazione delle aziende pubbliche ha trasformato i mercati finanziari, ha cambiato il comportamento dei risparmiatori, convogliati forzosamente verso la Borsa (staccandoli dai più sicuri Bot e Btp) e ha inciso sulla stessa configurazione del sistema delle imprese. Basti pensare al declino dell’Iri che ha portato al dimezzamento dei dipendenti dell’industria pubblica, con il solo obiettivo di fare cassa e conseguire i c.d. “parametri” disegnati (non a caso) dall’Ue sui conti pubblici dei vari Stati membri.
Che bello per l’Italia raggiungere (o almeno avvicinarsi) ai parametri di Maastricht, peccato però che questo obiettivo che “ci chiede l’Europa”, l’abbiamo raggiunto svendendo il patrimonio pubblico nazionale e così impoverendoci tutti!
L’onda lunga del “patto del Britannia” è arrivata fino alle dichiarazioni rese dall’allora ministro italiano dell’Economia Fabrizio Saccomanni nel 2013 a Mosca, al G20 dei ministri finanziari, sulla disponibilità del governo Letta di vendere ulteriori quote di società pubbliche quali Eni, Enel e Finmeccanica. Così facendo, però, gli obiettarono al tempo gli osservatori economici più avveduti, «si porteranno a casa pochi soldi (e “una tantum”) rispetto all’enormità del debito pubblico (2027 miliardi di euro, contro ad esempio i circa 90 miliardi della capitalizzazione del 100 per cento dell’Eni, il che significa che anche uscendone del tutto lo Stato intascherebbe la miseria di 30 miliardi). È chiaro che quindi questa nuova ondata di privatizzazioni non potrà che essere un palliativo, e un’occasione d’oro per gli acquirenti, perché queste aziende sono ormai ottime aziende, che vivono di utili e non hanno più bisogno di aiuti di Stato» (Sergio Luciano, AAA un intero paese vendesi: l’Italia si avvia alla marginalità, in “Affari Italiani.it”, 19 luglio 2013).
La “svendita” del patrimonio industriale nazionale al grande capitale angloamericano, nonostante ufficialmente terminata la crisi politico-istituzionale del 1992-93, è continuata dunque fino ai giorni nostri.
A dimostrazione che la “transizione italiana” è ancora lungi dalla sua fine. Le nostre classi dirigenti dimostrano, almeno nei loro “salotti buoni”, di essere prive di visione d’insieme, di pensare esclusivamente ai propri profitti personali o di cordata, e di voler condurre un’azione priva di qualsiasi respiro nazionale. Per la Repubblica Italiana, a oltre settant’anni dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, continua a non esserci sovranità piena, né peso politico né in Occidente né in Europa. Continuando a “privatizzare”, mettiamocelo in testa, non risolveremo comunque il “problema” del debito pubblico, mentre proseguiremo nella marcia verso la smobilitazione dell’Azienda Italia.
E tutto si originò da quel grigio giorno della “festa della Repubblica” di venticinque anni fa quando, a bordo di uno yacht britannico, alcuni signori della Finanza e della Grande Burocrazia decisero di “privatizzare” l’Italia. Lo fecero per vari motivi ma, da parte dei connazionali coinvolti, probabilmente si vollero compiacere alcune finanziarie anglo-americane che controllavano da noi partiti, gruppi e fondazioni.
Ma non dimentichiamo che in quello stesso 2 giugno del 1992 fu ucciso a Palermo il giudice Giovanni Falcone e, proprio, mentre il Popolo italiano s’indignava e scendeva in piazza per dire No alla mafia e invocare più Stato e legalità, qualcun altro dava il via alla svendita della sovranità, economica e poi monetaria, nazionale.
“Privatizzazione” è stata a lungo una formula magica presentata alla collettività come unica cura per risanare l’economia italiana. A ben vedere, invece, ha nascosto un business dalle proporzioni incalcolabili, insieme ad «accordi e strategie politiche ben precise con un minimo comune denominatore: scippare agli Stati, considerati un inutile retaggio del passato e un odioso freno alla globalizzazione del mercato, la sovranità monetaria» (Marco Torre, E il 2 giugno fecero la festa alla Repubblica, in “L’Italia settimanale”, 3 febbraio 1993, p. 30).
Chi partecipò alla “crociera” dalla quale fu partorito il “patto del Britannia”? Secondo l’Executive Intelligence Review, un noto newsmagazine settimanale fondato nel 1974 dal giornalista e politico americano Lyndon LaRouche, «i rappresentanti della Bzw (la ditta di brokeraggio [intermediazione finanziaria] della Barclay’s), della Baring & Co., della S.G. Warburg e dai nostri dirigenti dell’Eni, dell’Agip, da Mario Draghi del ministero del Tesoro, da Riccardo Gallo dell’Iri, Giovanni Bazoli dell’Ambroveneto, Antonio Pedone della Crediop e da alti funzionari della Comit [Banca Commerciale Italiana], delle Generali e della Società Autostrade. […] Poche ore di discussione e l’affare prende corpo. Al governo Amato il compito di giustificare la filosofia dell’operazione (con un’adeguata campagna-stampa di drammatizzazione dei dati del deficit pubblico)» (M. Torre, art. cit.).
La “prima privatizzazione” non fu realizzata però dall’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato (il “dottor Sottile”), ma dal suo successore Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016), in carica a capo di un governo i cui i tecnici erano in netta prevalenza rispetto ai politici sempre più screditati, dal 29 aprile 1993 all’11 maggio 1994.
Quello che nel luglio del 1993 è stato definito un “decreto a tradimento”, ha fatto persino parlare di “colpo di Stato”. «Dopo tanti golpe estivi partoriti da fantasie molto fervide – ha scritto in proposito il già citato settimanale diretto da Marcello Veneziani -, il 1993 ce ne ha regalato uno vero. A realizzarlo è stato l’attuale Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, che ha deciso di avviare per decreto l’opera di privatizzazione, affidandola a una task force composta dal direttore generale del ministero del tesoro Mario Draghi, presidente della famigerata riunione sullo yacht Britannia nella primavera del 1992, un evento che in altri tempi si sarebbe perfino potuto prefigurare come alto tradimento» (Pietro Romano, Il golpe di luglio, in “L’Italia settimanale”, 21 luglio 1993, p. 67).
Anche l’economista e saggista Giano Accame (1928-2009) ha scritto delle pessime conseguenze per il Paese delle prime privatizzazioni, delle quali «approfittarono alcune multinazionali straniere, che proseguirono col nostro governo nel processo di colonizzazione del sistema produttivo italiano già avviato coi privati» (Giano Accame, Una storia della Repubblica, BUR, Milano 2000, p. 391).
Con il “pretesto” di dover fare i sacrifici necessari per il risanamento della finanza pubblica al fine di adeguarsi alle “direttive europee”, il governo Ciampi favorì l’ingigantimento dei supermonopolii finanziario privati, la cosiddetta “Galassia del Nord”, composta dal “salotto buono” di Mediobanca con Gianni Agnelli, o meglio Cesare Romiti, Pirelli, Pesenti, etc. E così l’Italgel dell’Iri-Sme fu ceduto con Motta e Alemagna alla multinazionale svizzera Nestlé, l’olio Bertolli passò con un’operazione piuttosto contorta dallo stesso gruppo alimentare pubblico al gruppo anglo-olandese Unilever, le vetrerie Siv dell’Efim cedute all’inglese Pilkington e il Nuovo Pignone dell’Eni all’americana General Electric,
Mentre lo scopo delle privatizzazioni secondo il precedente governo Amato avrebbe dovuto essere quello “pluralistico”, di moltiplicare cioè e differenziare i centri di potere economico, il risultato fu invece esclusivamente il trapasso di posizioni monopolistiche dallo Stato alla finanza privata, prima nazionale, poi progressivamente, multinazionale.
Persino un banchiere importante come Sergio Siglienti, già presidente della Comit, ha criticato la decisione e le modalità con cui sono state realizzate le privatizzazioni bancarie degli anni Novanta, nonché il ruolo allora giocato dalla grande banca d’affari pubblica “Mediobanca”, capitanata fin dal 1946 da Enrico Cuccia (1907-2000).
Naturalmente si tratta di una lettura moderatamente critica delle privatizzazioni bancarie, così come poteva farla un banchiere pienamente immerso nell’establishment e presidente dal 1990 al 1994 della Comit (cfr. Sergio Siglienti, Una privatizzazione molto privata, Mondadori, Milano 1996).
Ma la parola a mio avviso più convincente sulle privatizzazioni degli anni novanta è stata recentemente quella di Paolo Cirino Pomicino, presidente della commissione bilancio della Camera dal 1983 al 1988, ministro della Funzione Pubblica dal 1988 al 1989 e, soprattutto, ministro del Bilancio dal 1989 al 1992. Da uno dei libri di “storia-non-insegnata” che l’ex politico democristiano ha scritto dalle colonne de “Il Giornale” firmandosi con lo pseudonimo di “Geronimo”, traggo questo giudizio complessivo degli Anni Novanta: «sono gli anni in cui vengono privatizzati Comit e Credit, Eni, Telecom, San Paolo, Bnl, Sme, rinunciando a ogni accordo, a ogni possibilità di internazionalizzazione, a ogni chance di sopravvivenza nei mercati europei ed extraeuropei che, pure, sarebbe stata possibile» [Geronimo (Paolo Cirino Pomicino), Dietro le quinte: la crisi della politica nella seconda Repubblica, Mondadori, Milano 2002, p. 152].
Prima del “patto del Britannia”, insomma, «il 20-25 per cento delle economie nazionali di Francia, Germania e Italia era in mano pubblica. Dieci anni dopo, Francia e Germania hanno privatizzato gradualmente e solo in parte, ma nello stesso tempo hanno internazionalizzato le loro aziende pubbliche. In Italia, invece, la politica delle privatizzazioni a tutti i costi ha prodotto effetti devastanti» (ibidem.).
“Geronimo” prende ad esempio le grandi banche che spiccavano nel patrimonio pubblico nazionale: «San Paolo, Banca di Roma, Credito Italiano, della Banca Commerciale, Banca Nazionale del Lavoro, Cariplo, Banco di Napoli, Imi e Monte dei Paschi. Dieci anni dopo, a parte il Monte dei Paschi [!!!], sono state cedute tutte. E tutte sono state cedute senza il benché minimo disegno strategico o progetto industriale: lasciati a loro stessi, i manager e le famiglie del salotto buono del capitalismo italiano, spesso in lite tra loro, hanno così aperto le porte allo straniero» (P. Cirino Pomicino, op. cit., p. 151). Questi i risultati finali a venticinque anni da allora: 1) il risanamento dei conti pubblici non è stato operato; 2) centri di potere internazionali dispongono senza controllo politico di un patrimonio pubblico che, allora, ammontava a quasi 200mila miliardi di lire; 3) anche volendo le autorità economiche italiane sono state esautorate dalla possibilità di produrre la crescita dell’economia nazionale; 4) l’industria (e la finanza) italiana non è nemmeno lontanamente capace di confrontarsi neanche con i colossi europei. Più che responsabilità dei centri economico-finanziari privati nazionali, soggiunge giustamente Cirino Pomicino, la responsabilità di una tale tragica situazione «è colpa della politica, che li ha lasciati soli e senza sostegno nel panorama internazionale. Negli anni Settanta e Ottanta, con i grandi partiti popolari ancora in sella, tutto questo non sarebbe stato possibile. Negli anni Novanta sì» [P. Cirino Pomicino, Dietro le quinte…, op. cit., p. 152].