Una storia dello Stato moderno

da Cultura&Identità — anno IV, n. 18, luglio-agosto 2012

di Francesco Pappalardo

L’implosione del sistema imperiale socialcomunista, a partire dal 1989, ha reso più evidenti e ha anche accelerato i mutamenti che si sono venuti preparando e talora producendo nel quarantennio della Guerra Fredda, sia nella struttura statuale che in quelle interstatuale e sovrastatuale. La competizione geopolitica per il controllo dei grandi spazi e per l’accaparramento delle risorse, l’avvento dell’economia finanziaria e l’avanzata delle rivoluzioni tecnologiche hanno indotto gli osservatori ad annunciare la morte dello Stato, innanzitutto nella forma dello Stato nazionale, accentratore e giacobino.

Questo tipo di organizzazione della società — a causa dell’espansione della sfera pubblica e della crescente diversificazione delle funzioni amministrative, che richiedono forme di autonomia e di organizzazione diverse dai vecchi modelli centralistici — è diventato troppo grande per le cose piccole; ma è anche troppo piccolo rispetto alle funzioni di governo e di tutela rese necessarie dai processi d’internazionalizzazione dell’economia e dai fitti legami che condizionano sempre più la vita di tutti i popoli del mondo.

La territorialità, cioè la base fisica dell’identità statale, è messa in crisi dalle interdipendenze prodotte dalla globalizzazione, poste in essere e gestite da centri di potere economico e finanziario di dimensioni tali da poter determinare o trascendere le attività politiche di singoli Stati. Anche il terrorismo internazionale, che ha ormai un raggio d’azione mondiale e viene guidato da centri politici e strategici aventi una base territoriale minima o mobile — come sottolineava già nel 1991 il sociologo Gianfranco Poggi (1) —, rende manifesta la relativa impotenza degli Stati. La stessa omogeneità nazionale viene minata dalle logiche centrifughe della società multiculturale e viene meno gradualmente la sovranità statale sulla società complessa.

La crisi della categoria statuale, evidente nel settore politico e in quello giuridico, si è manifestata anche sul terreno storiografico con una nuova sensibilità verso le dimensioni “antiche” del potere e verso una storia istituzionale non più coincidente con quella dello Stato tradizionalmente inteso (2). Non è possibile, d’altra parte, comprendere la natura e le problematiche della realtà istituzionale in cui viviamo senza conoscere la storia dello “Stato moderno”, locuzione con cui non si indica semplicemente l’organizzazione della società nel mondo contemporaneo, ma una forma centralizzata di gestione del potere politico, che contempla la rigorosa separazione fra una società “politica” — appunto lo Stato e i suoi organi — e una società “civile”, rappresentata dal quotidiano e dalle sue transazioni “private”.

Una sintesi del percorso che ha portato alla nascita di una siffatta forma di potere, della sua evoluzione e del suo attuale declino è stata compiuta da Wolfgang Reinhard (3), storico tedesco dell’età moderna, professore emerito dell’Università di Friburgo, autore di opere complessive come Il pensiero politico moderno (trad. it., il Mulino, Bologna 2000) e Storia del potere politico (trad. it., il Mulino, Bologna 2001).

Nel primo dei tre capitoli del libro vengono illustrati Elementi e questioni fondamentali (pp. 7-30). Lo Stato moderno «[…] nella sua essenza — scrive Reinhard — è stato di potenza, e cioè il tipo più potente di organizzazione collettiva che gli uomini abbiano creato» (p. 9). È autoreferenziale, «ossia in grado di legittimarsi da solo e fine a sé stesso» (p. 11), e possiede alcune caratteristiche essenziali, organizzate intorno al principio comune dell’unitarietà: un territorio omogeneizzato, un popolo soggetto a livellamento, un potere che è titolare della sovranità e che si è assicurato il monopolio dell’uso legittimo della forza all’interno e all’esterno nonché il monopolio del diritto.

Lo Stato è sempre più invasivo e riesce a imporre un crescente condizionamento politico dei comportamenti sociali o, in altri termini, un maggior «disciplinamento sociale», secondo la dizione utilizzata per la prima volta dallo storico tedesco Gerhard Oestreich (1910-1978) (4).

Reinhard suggerisce di riservare il concetto di Stato al solo Stato moderno e concentra su di esso l’indagine, senza però trascurare altri tipi di collettività, caratterizzate da un tasso di omogeneizzazione del territorio e della popolazione molto basso, sia perché da essi ha preso le mosse la nuova forma di organizzazione del potere, sia perché possono rappresentare alternative possibili.

Quelle formazioni politiche — regni o repubbliche —, definite felicemente «composite» (5),erano costituite da realtà aventi status differenziati e aggregate con modalità differenti, fondate su un rapporto pattizio fra governo e corpi intermedi, assemblate in un sistema comune ma tenacemente legate alle proprie libertà. In Europa, a giudizio dell’autore, la Svizzera conserva ancora molti elementi politici premoderni, come il diritto civile comunale, la costituzione in alcuni cantoni dell’assemblea civica e l’uso frequente del referendum.

Tutti gli altri Paesi, invece, pur con tempi e modalità differenti, hanno assistito al declino delle antiche modalità organizzative del potere e all’affermazione di un soggetto del tutto nuovo, che vengono descritti nel lungo secondo capitolo, Ascesa dello stato moderno (pp. 31-105).

Reinhard osserva preliminarmente che le condizioni necessarie di questa ascesa sono peculiari dell’Europa: «la suddivisione dello spazio in tanti paesaggi di dimensioni limitate, che si traduce in un pluralismo politico (p. 31), ma anche nella rivalità dinamica delle singole formazioni, che spinge i sovrani a cercare di controllare con tutti i mezzi le risorse disponibili; l’incrocio fra la cultura politica dei popoli germanici e slavi e l’eredità delle culture mediterranee — greca, romana, ebraica e cristiana —, che porta alla «nascita di collettività territoriali ignote all’antichità» (p. 32), come il comune autonomo, «senza cui difficilmente avrebbero potuto aver luogo il repubblicanesimo, il capitalismo e la disciplina sociale dello stato moderno (ibidem); un «diritto di proprietà unico nella storia umana» (p. 33), che ha favorito l’accrescimento del potere del sovrano al di là di ogni consuetudine giuridica e la nascita della cosiddetta “monarchia assoluta”.

L’itinerario verso lo Stato moderno passa comunque attraverso la monarchia, non perché vi fosse un contrasto programmatico fra monarchia e repubblica in termini di servitù e di libertà — la contrapposizione semmai era fra un monarca che agiva per il bene comune e una tirannide che metteva in discussione la legittimità del comando —, ma perché la volontà di unità e di continuità propria di una dinastia aveva buone probabilità d’imporsi.

Sebbene «studi recenti hanno dimostrato che monarchie come quelle francese o prussiana erano meno centralizzate e forti di quanto si fosse creduto in passato» (p. 38), nel secolo XVIII l’illuminismo, con la sua pretesa di trasformare la collettività in una macchina efficiente per garantire la felicità dei sudditi, pone le basi del cosiddetto dispotismo illuminato e dello Stato moderno prerivoluzionario: «[…] i sudditi furono più esautorati che emancipati […]: la razionalità crea potere, ma il potere crea nuova oppressione» (p. 39).

Il perfezionamento dello Stato moderno, nei secoli XVIII e XIX, consiste appunto nell’affermazione su tutti i sudditi di un solo potere a scapito di altri, fino ad allora autonomi, in quanto non conferiti dal sovrano, e diffusi nel corpo sociale. Nascono élite — dinastiche e burocratiche — interessate a sposare durevolmente la causa dell’autoaffermazione e dello sviluppo di un potere centrale. Gradualmente i delegati del re affermano il loro controllo su tutto il Paese e si assiste a una «moria degli ordini» (p. 57), ma non senza conflitti: le migliaia di rivolte verificatesi fra i secoli XIV e XIX in tutta l’Europa mostrano l’attaccamento del popolo e dell’aristocrazia ai propri diritti, tanto da potersi affermare che «[…] i moderni diritti fondamentali e i diritti dell’uomo […] non sono affatto alla base dello stato moderno, ma al contrario emersero proprio dalla resistenza nei confronti della sua ascesa» (pp. 57-58).

Osservazioni analoghe valgono per il diritto in generale. In assenza del monopolio giuridico dello Stato le poche leggi esistenti erano redatte in relazione a casi singoli e concreti, la giurisprudenza era orale e il diritto aveva a che fare soprattutto con la morale e con la religione. Le cose mutano con l’emergere di un forte potere centrale, che promuove la nascita e lo sviluppo di un ceto di giuristi di professione con una pretesa di monopolio mantenuta fino a oggi.

Il controllo sulla giustizia si trasferisce sempre di più dalla comunità giudicante al potere statale emergente e i sovrani, avocando a sé nuove competenze in nome del bene comune, si assicurano la potestà di creare il diritto, ponendo fine all’autoregolamentazione delle collettività strutturate da poteri intermedi. Ma la vera forza propulsiva della transizione allo Stato moderno è la guerra: i sovrani, che hanno lentamente imbrigliato la violenza quotidiana sul proprio territorio, incrementano la violenza verso l’esterno con conflitti sempre più numerosi, che non sono guerre “fra Stati” ma guerre di formazione dello Stato, nascenti dal rifiuto di un ordine sovraordinato agli Stati e sintetizzato, ad esempio, nello slogan della “monarchia universale” ispanica (6).

I costi delle attività belliche sono molto elevati, tali da determinare l’introduzione di una tassazione permanente e l’affermazione della potestà fiscale statuale: «Le fondamenta dello stato moderno furono poste dal soldato e dall’esattore delle tasse» (p. 68). Parallelamente nasce, sottobanco e in sordina, il debito di Stato, che nel tempo viene istituzionalizzato — il primo caso è nel 1672 in Inghilterra — e accompagnato dall’istituzione di una banca statale come erogatrice del credito. Invece, «in Francia, in Spagna e in Austria, dove la banca di stato venne istituita in un secondo momento, le reti internazionali della finanza ebraica e protestante ebbero, nel corso del Settecento, grande importanza» (p. 73).

L’ascesa dello Stato moderno, per quanto caratterizzato da un tendenza univoca, conosce crisi e battute d’arresto fino all’accelerazione drammatica rappresentata dalla Rivoluzione francese, che in superficie è una brusca rottura con il passato e nella sua struttura profonda istituzionalizza le innovazioni dell’Antico Regime, soprattutto la formazione di un’invadente burocrazia, l’unificazione giuridica, la limitazione delle autonomie locali e del ruolo dei parlamenti, l’aumento della fiscalità, sempre meno subordinato all’approvazione dei soggetti su cui grava, e il controllo dello Stato sulla Chiesa.

Con la Rivoluzione del 1789 viene abolita la società degli ordini e viene completato il livellamento dei sudditi: la persona non entra più in contatto con il potere statale in quanto membro di una famiglia, di una corporazione, di un ordine, ma direttamente in quanto individuo isolato. Tutti i poteri intermedi vengono sostituiti da un’amministrazione statale e l’autogoverno municipale si riduce alla gestione di compiti amministrativi per conto dello Stato.

La nascita del costituzionalismo parlamentare e poi la sua sostituzione con una repubblica democratica solo apparentemente segnano una riduzione del potere dello Stato, che invece ha già legittimato sé stesso, «[…] superando le sue tradizionali limitazioni date da una legittimazione estranea. Dio, la natura o anche solo l’idea di giustizia non hanno più alcun ruolo quando è lo stesso potere statale a decidere, in ultima istanza, su ciò che è giusto e sulle proprie prerogative. Lo stato è diventato fine a sé stesso» (p. 86).

Lo Stato moderno «maturo» (p. 100), che ha nel secolo XX il proprio fondamento nell’identificazione emotiva dei cittadini con esso, a causa dell’attecchire dell’ideologia nazionalistica, si fonda su una triplice base: l’obbligo fiscale universale, l’obbligo del servizio militare, con l’esercito inteso come scuola politica della nazione, e l’obbligo scolastico, per trasmettere a tutti l’immagine della nazione creata dallo Stato.

Nel capitolo terzo si affronta Il declino dello stato moderno (pp. 107-120). Se il venir meno del fondamento divino dell’autorità del sovrano e l’acquisizione di una legittimazione autonoma, grazie anche alla finzione democratica, hanno permesso di ampliare senza limite le competenze statali, hanno anche reso più facile la sua delegittimazione, come se il nazionalismo, la democrazie e lo Stato interventista e sociale avessero raggiunto il loro limite.

Lo Stato moderno è intaccato dal basso dalla “rivoluzione fondamentalista”, che mette in discussione con «una spaventosa intolleranza» (p. 109) i fondamenti della società e del senso comune ma anche lo Stato stesso, e dall’alto sia dalla cessione di sovranità a vantaggio di organismi sopranazionali e internazionali, sia «dai global players dell’economia» (p. 112).

Di conseguenza, la politica statale risolve un numero sempre minore di problemi, diventa semplice spettacolo e «[…] le elezioni si riducono alla misurazione dell’entità dell’applauso» (p. 119). È difficile in questo contesto fare previsioni: lo Stato può ancora svolgere funzioni regolatorie e repressive, grazie anche all’utilizzo della tecnologia, ma crescerà il numero degli emarginati, cioè, in senso generale, di coloro che non si sentono più rappresentati dal potere statale e cercheranno dunque di reagire al «furto di identità» (p. 109) prodotto dalla centralizzazione e dalla burocratizzazione di ogni aspetto della vita, forse cercando di autorganizzarsi, come in «un “nuovo medioevo” privo tuttavia (a differenza del precedente) di idee valoriali in comune» (p. 119).

Il venir meno della sovranità interna ed esterna fa ritenere che le funzioni tradizionalmente assegnate agli Stati potranno essere assolte con maggiore flessibilità da governi non territoriali e lascia immaginare un ritorno alla suddivisione del potere politico — propria dell’Antico Regime — fra un certo numero di realtà relativamente autonome, idonee a rappresentare e a far valere gli interessi dei vari settori della popolazione.

Pur guardandosi da generalizzazioni affrettate e non sottovalutando le risorse residue dello Stato nazione, va notato che l’attuale fase storica è caratterizzata da un abbassamento del rilievo del momento territoriale e che il rapporto fra uomo e uomo sembra destinato a diventare di nuovo primario, facendo ipotizzare una inversione di tendenza a favore della società e di una sua rinnovata autonomia.

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1) Gianfranco Poggi, Lo Stato. natura, sviluppo, prospettive, il Mulino, Bologna 1992, p. 268.

2) Cfr. il mio Italia: “ritardo” o diversità?, in Annali Italiani. Rivista di studi storici, anno I, n. 2, Milano luglio-dicembre 2002, pp. 87-116.

3) Cfr. Wolfgang Reinhard, Storia dello stato moderno, trad. it., il Mulino, Bologna 2010.

4) Cfr. Gerhard Oestreich, Problemi di struttura dell’assolutismo europeo, 1969, trad. it. in Ettore Rotelli e Pierangelo Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, 2 voll., il Mulino, Bologna 1971, vol. I, Dal Medioevo all’età moderna, pp. 173-191 (p. 173); per la ricezione del concetto in Italia, cfr. Paolo Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disci-plina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, il Mulino, Bologna 1994, e in particolare il saggio di P. Schiera, Disciplina, Stato moderno, disciplinamento: considerazioni a cavallo fra la sociologia del potere e la storia costituzionale, pp. 21-46.

5) Cfr. John Huxtable Elliott, L’Europa delle monarchie composite, trad. it., in Annali Italiani. Rivista di studi storici, anno I, n. 2, Milano luglio-dicembre 2002, pp. 33-60.

6) Sul tema, cfr., fra l’altro, Frances Amelia Yates (1899-1981), Astrea. L’idea di Impero nel Cinquecento, trad. it., Einaudi, Torino 1990; e Franz Rosbach, Monarchia universalis. Storia di un concetto cardine della politica europea (secoli XVI-XVIII), trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1998.