Avvenire, ottobre 2016
Alessandro D’Avenia
“In qualche lontana città che non conosci e dove forse non ti accadrà di andare mai, c’è uno che ti aspetta. In una antica angusta stradetta della sterminata città orientale, là dove si nascondono gli ultimi segreti della vita, giorno e notte resta aperta per te la porta del suo palazzo favoloso; il quale, a chi passi in fretta per la via, può sembrare una casa come tante.”
Così comincia un brevissimo e vertiginoso racconto di Dino Buzzati, dal titolo Uno ti aspetta, in cui lo scrittore immagina la presenza di questa porta che ci attende ma: “Tu stenti qui la vita, vai vestito di grigio, perdi già i capelli. Sei uno dei tanti. Di anno in anno ambizioni e speranze si rattrappiscono. Ma laggiù, nella città di cui ignori il nome, un potente signore ti aspetta per toglierti ogni pena: per liberarti dalla fatica, dall’odio, dagli spaventi della notte. Non ci sarebbe bisogno di spiegazione, non avresti da pronunciare neppure il tuo nome, potresti arrivare anche vecchio, sudicio, impestato”.
Quella porta potrebbe immetterci nel segreto della nostra stessa esistenza, un luogo in cui siamo conosciuti e amati senza bisogno di dire il nostro nome, un luogo di assoluta misericordia, senza la quale la nostra vita diventa anonima e invecchia, perché non ha un’origine e quindi un futuro. Solo chi è figlio ha un’origine e quindi un’originalità da realizzare.
Quella porta potrebbe anche non essere in una città lontana, ma in un luogo dove siamo attesi senza bisogno di dovercelo meritare: “Potrebbe darsi invece che sia molto più vicino. Forse il signore potente ti aspetta in una delle nostre città che tu conosci”. Se la trovassimo e la varcassimo vedremmo “scomparire l’abbandono, la povertà, il sudiciume, tutto ti apparirà allegro e lucente. È arrivato! È arrivato! grideranno dalle profondità della dimora”.
Addirittura questa porta potrebbe essere nel nostro stesso condominio o, incredibile a dirsi, “anche molto più vicino, veramente a due passi, tra le mura della tua stessa casa. Sulla scala, al terzo piano, hai mai notato, a destra del pianerottolo, quella porta senza campanello né etichetta? Qui forse, per agevolarti al massimo, ti attende colui che vorrebbe renderti felice: ma non ti può avvertire”.
Sono segnali tenui quelli della misericordia, ma troppo poco noi li cerchiamo, sono in quel sussurro di vento leggero in cui il profeta Elia trovò il Signore, perché mentre la tempesta non lascia scampo, il sussurro del vento, che non sai da dove venga e dove vada, richiede attenzione e ci lascia liberi: “Perciò prova, la prossima volta che ci passi davanti, prova a spingere l’uscio senza nome. Vedrai come cede. Dolcemente ruoterà sui cardini, un impulso irragionevole ti indurrà ad entrare, resterai sbalordito”. Potremmo lasciarci sorprendere più spesso da questa fonte di perdono che rinnova ogni nostro gesto, relazione, caduta, fallimento o gioia, basterebbe riscoprire il dono della confessione. Eppure qualcosa dentro di noi resiste, nonostante la vicinanza della porta di fronte alla quale passiamo tutti i giorni: “Ma tu non provi ad aprire, indifferente, ci passi davanti, su e giù per le scale, mattina e sera, estate e inverno, quest’anno e l’anno prossimo, trascurando l’occasione.”
Ma forse la ricerca, rincara il narratore, è ancora più facile: “Ma come escludere che sia ancora più vicino colui che ti vuol bene? Mentre tu leggi queste righe egli forse è di là dalla porta, bada, nella stanza accanto; se ne sta quieto ad aspettarti, non parla, non tossisce, non si muove, non fa nulla per richiamare l’attenzione. A te scoprirlo. Ma tu, uomo, non ti alzi nemmeno, non apri la porta, non accendi la luce, non guardi. Oppure, se vai, non lo vedi. Egli siede in un angolo, tenendo nella destra un piccolo scettro di cristallo, e ti sorride. Però tu non lo vedi. Deluso, spegni, sbatti la porta, torni di là, scuoti il capo infastidito da queste nostre assurde insinuazioni: fra poco avrai dimenticato tutto. E così sprechi la vita”. Senza misericordia la vita va sprecata.
La porta è dentro di noi e il Dio, che Agostino chiamava “più intimo a me di me stesso”, non è neanche dietro di essa, ma nella stanza più interna del nostro cuore, e noi non riusciamo a vederlo, perché siamo noi stessi la porta chiusa sulla misericordia di Dio, che ci ama più di quanto noi possiamo amare noi stessi, più del nostro stesso istinto di sopravvivenza, e che è già lì: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse, 3,20).
Se aprissimo tutti i giorni, più volte al giorno, la nostra vita non si stancherebbe, i nostri minuti non sembrerebbero tutti uguali. Basterebbe una richiesta semplice, magari ancora cieca ma piena di fiducia, come quella dei due di Emmaus: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” e a tu per tu, finalmente, la chiarezza ci raggiungerebbe come raggiunse i discepoli che, spazzata via la tristezza dei senza fede, trovarono subito le forze per rimettersi in cammino, nel cuore della notte che li aveva fermati, ormai senza paura di nulla e nessuno.