di Pier Giorgio Liverani
I primi circoli del post e del transumanesimo si erano già costituiti in Italia nel 2004, ma il loro lancio avvenne, un anno dopo, con la pubblicazione sul Corriere della sera (10 febbraio 2005) di un articolo che Francis Fukuyama, scienziato nippo-americano e presidente del Comitato di bioetica della Presidenza degli Stati Uniti all’epoca di Gorge Bush, aveva scritto nel settembre dell’anno precedente, per la rivista statunitense Foreign Policy.
L’intento di Fukuyama era di demolire quel nuovo movimento ideologico materialista e antiumanista che, in nome della massimizzazione del «diritto alla felicità», dello scientismo, della biotecnologia e dell’Occidente inteso come ambiente etico, anzi etologico ideale, ha per obiettivo il superamento fisico e mentale di ogni limite naturale dell’uomo e, nelle sue speranze, di giungere all’immortalità, ovviamente terrena.
Questo progetto ideologico di abolizione di ogni limite venne confermato poco dopo da due interviste: la prima a Il Giornale (16 febbraio 2005) dell’etologo britannico Richard Dawkins, docente a Oxford; la seconda di Riccardo Campa, presidente dell’Associazione Italiana Transumanisti, a Libero (18 febbraio). Bisogna dire che tra le tesi dell’ipersviluppo dell’umanità e l’evoluzionismo esistono e si contraddicono allo stesso tempo una parentela abbastanza evidente e un annullamento reciproco.
Per capire di che cosa si tratta, è bene partire da Richard Dawkins, il quale è anche un acceso neodarwinista. Secondo lui «tutte le risposte (anche quelle della fede) alle domande “che cosa è l’uomo?” o “la vita ha un significato?”» datate prima di Darwin «sono da rigettare, perché sbagliate e prive di valore. […] La teoria dell’evoluzione darwiniana è un meccanismo molto semplice, che spiega molti problemi enormemente complicati. La fede, invece, dice che la vita è creata da un’intelligenza soprannaturale e in questo modo parla di un’entità che è ancora più complicata da capire e difficile da spiegare».
I nostri cugini scimpanzé
Definizione, come si vede, assai povera e pigra per un razionalista, che sembra arrendersi alla prima difficoltà. Dawkins, del resto, inciampa anche sull’etica, perché di sé precisa: «Sono un darwinista convinto quando parlo della natura, non lo sono più quando si deve ragionare di morale».
Questo forse perché Dio non è un prodotto dell’evoluzione? Ma la morale non è stata anch’essa – come tutte «le cose visibili e invisibili» — creata da Dio? E, in ogni caso, se non venisse da Dio dovrebbe essere anch’essa frutto dell’evoluzione, almeno nella logica evoluzionista. E inoltre: poiché tra le affermazioni di Dawkins c’è anche quella secondo cui «gli uomini e gli scimpanzè sono cugini», cioè avrebbero origini comuni, perché mai la morale, che appartiene soltanto all’uomo, dovrebbe sfuggire alle darwiniane leggi dell’evoluzionismo? (1)
Ora, a sei anni di distanza, ecco che i darwinisti, i quali oggi giudicano la potenzialità di sviluppo dell’uomo priva sostanzialmente di limiti, aggiungono a questi primi interrogativi una grave contraddizione proprio sul tema dell’evoluzionismo. Si tratta – alla faccia del supersviluppo — di una specie di suicidio ideologico, che proviene da due sorgenti assai vicine tra loro e che gettano più o meno la medesima acqua.
Una delle sorgenti è lo studio che un giovane neuroscienziato italiano, Giulio Tononi, che insegna psichiatria all’Università del Wisconsin, anche lui apparentemente insensibile al valore del limite, sta compiendo sulla – come dire? materializzazione della coscienza. Impresa davvero assai difficile e irta di ostacoli prevedibili e imprevedibili anche per chi fa della scienza una sorta di religione. Per esempio quello assai probabile di dover arrivare, con la forza della logica della parentela eammesso che vi si arrivi – alla conclusione che animali e uomini (almeno i «cugini» scimpanzè) abbiano un medesimo «io».
Per la verità il ricercatore in parola dichiara di aver trovato il modo di «prendere le misure dell’io», vale a dire di scoprire e stabilire il modo in cui la coscienza possa diventare tangibile: in altri termini (di chi scrive), la si possa identificare e delimitare come organismo anatomico, poi collocarla in qualche circonvoluzione cerebrale, identificarne i componenti (e magari anche il Dna) e, infine, valutarne le dimensioni, il peso, la qualità, l’efficienza nonché la possibilità di intervenirvi con qualche nuova tecnica neurochirurgica.
Per capire la trasformazione che la coscienza subirebbe secondo la ricerca di Tenoni, si può leggere l’articolo con cui La Stampa (15 giugno 2011) apre il suo resoconto di questa avventura coscienziale: «Solo 20 anni fa la coscienza era considerata una materia impalpabile ed effimera (perché mai effimera? Non durava almeno quanto la vita del suo io possessore?), inconcepibile come oggetto della scienza», ma il nostro professore «la pensava diversamente già al liceo» e ora ha elaborato la sua «tesi dell’informazione integrata».
Fotodiodi & pixel
Per spiegare questa tesi in sintesi si possono usare le parole del suo inventore: «Possiamo spiegarla con l’esempio della fotocamera digitale. Per quanto la fotocamera, a differenza di un “fotodiodo” (2), possa avere miliardi di stati diversi – uno per ciascuna immagine possibile – questa manca di integrazione: i suoi elementi, i “pixel”, sono milioni di piccoli moduli non connessi e pertanto non integrati.
La coscienza, invece, è integrata: ogni esperienza cosciente è quello che è come un tutto non riducibile alle sue parti. In un’immagine cosciente non esiste la sinistra senza la destra, la forma senza il colore, e così via. In sintesi, la fotocamera genera molta informazione, ma nessuna integrazione». Per realizzare la quale occorre una formula matematica chiamata «Phi» che, in poche e povere parole, consente di misurare il valore quantitativo della coscienza in «qualia», unità di misura filosofica – e non chiedetemi di più, anche perché non serve alla riflessione che tra poco suggerirò.
A questi studi e a questa teoria dell’informazione integrata, che trasforma la coscienza in un oggetto forse, domani, manipolabile, si affianca la prospettiva descritta da Stefano Rodotà, giurista, bioeticista a modo suo e ora anche profeta della tecnoscienza e della biotecnologia, il quale su La Repubblica (11 giugno 2011) preconizza quanto segue: «La specie umana, unica, si avvia a essere sostituita da una molteplicità di specie, con un passaggio dal singolare al plurale reso inevitabile da una tecnoscienza che ci avvicina sempre più al post-umano».
Entrando in questo mondo nuovo, più che il riferimento abituale all’utopia negativa di Aldous Huxley (3), vale il ricordo di quel che scriveva Günther Anders (4), chiedendosi, già nel 1956, se l’uomo fosse antiquato: «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da sé stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale».
Come informatore Rodotà sembra un po’ ritardatario: le stesse cose aveva preconizzato a Libero, nel 2005, il presidente dei transumanisti italiani, Riccardo Campa, il quale definiva i suoi consoci persone che «vivono di tecnologia» e «rifiutano l’ipocrisia antiscientifica che si sta diffondendo in Occidente». E precisava che loro «sposano un’etica eudemonistica che tende alla massimizzazione della felicità» e si rifanno a Bacone, il quale «sosteneva che i due scopi della scienza sono trovare la verità sul mondo e sconfiggere invecchiamento e morte». Rodotà ha, tuttavia, il merito di rendere più esplicite, fin troppo per un evoluzionista, queste prospettive.
Ecco, infatti, i loro progetti: «Prolungare la vita; ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche; rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali; trasformare un corpo in un altro; fabbricare nuove specie; effettuare trapianti da una specie all’altra; creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate. […] Oggi, realisticamente, il destino del genere umano appare affidato a scienza e tecnica, che lo immergono nella storia, lo liberano progressivamente da caso e necessità, fino a prendere congedo dalla natura».
Congedo dalla natura?
«Liberarsi da caso e necessità, fino a prendere congedo dalla natura»? Non sono forse caso, necessità e natura i pilastri della teoria evoluzionista? Siamo davvero dinnanzi a un colossale passo indietro del darwinismo? E quel «prendere congedo dalla natura» che cosa significa: che l’uomo post-umano non sarà più un uomo, ma una sorta di robot, sia pure di carne e ossa (però immarcescibili), senza bisogni (cioè privo di desiderio, di ricerca, di speranza), immortale e pressoché eterno? (Ma ogni cosa in qualche modo si consuma, anche il diamante, anche il titanio e persine la coscienza che cambierebbe poco a poco la sua misura).
C’è da sospettarlo, perché Rodotà non si ferma qui: «Di fronte alla radicalità di questo passaggio, alla discontinuità che descrive, l’etica torna prepotentemente in campo, la politica si divide, il diritto si interroga sul proprio ruolo. Parole nuove ci accompagnano: biopolitica, bioetica, biodiritto. E, con esse, l’umanità sembra voler “uscire da sé stessa”, nel senso almeno che si svincola dalla pura logica darwiniana [allora è vero che l’evoluzionismo è in punto di morte], affidandosi a una evoluzione tutta legata a una tecnica direttamente governata dalle persone.
Intorno al corpo di ciascuno si addensano le possibilità incessantemente offerte da biologia e genetica, dall’innovazione informatica, dalle neuroscienze, dalle nanotecnologie. Il corpo sta per trasformarsi appunto in una nano-bio-infoneuro machine […], ci appare come l’oggetto dove si manifesta e si compie una transizione che, da un canto, sembra voler spossessare la persona del suo territorio, appunto la corporeità, facendolo “reclinare” nel virtule; e, dall’altro, ne modifica i caratteri in forme che non da oggi fanno parlare di post-umano e di trans-umano».
Riduzionismo & transumanesimo
È a questo punto che vorrei suggerire la riflessione, cui accennavo più sopra, per andare oltre le preoccupazioni che i transumanisti vorrebbero infliggerci, ma che gli umani autentici giudicano risibili nella loro irrazionalità e ascientificità, e invece ritengono doveroso prenderle in considerazione sotto il profilo morale. Convivono infatti, nella medesima mentalità o filosofia, due opposte visioni dell’uomo che, tuttavia, finiscono per coincidere: il riduzionismo e il transumanesimo di cui fin qui si è scritto.
Il primo riduce anche la realtà più complessa – l’uomo, la vita – a semplici e meri processi chimici e fisici. Il secondo promuove una rischiosa illusione di strapotenza. Fa credere che l’uomo non abbia limiti alla propria creatività o, meglio, che li possa agevolmente dominare e superare: sia i limiti fisici (la vita, la morte, la sofferenza) sia quelli etici (nessun limite alla scienza) sia quelli filosofici (l’uomo è il creatore di sé stesso).
È quest’ultima filosofia che ha posto le basi della nuova antropologia, la quale a sua volta ha prodotto la «nuova questione antropologica», come la chiamò il cardinale Camillo Ruini alla Settimana Sociale di Bologna (2004). Potremmo definire tale nuova antropologia come quella che propugna l’«uomo autopoietico», ovvero l’«uomo-che-si-fa-da-sé», cioè che rinuncia a essere o a credere di essere stato creato a immagine e somiglianzà di Dio (concetto che, per il principio di reciprocità – in modo eretico, assurdo e utile strumentalmente a soli fini apologetici — si potrebbe anche rovesciare definendo Dio come immagine e somiglianza dell’uomo).
In un suo libro (Sulle orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000), Umberto Galimberti – filosofo, psicanalista ed editorialista di Repubblica — «scava profondamente in una società in cui l’uomo, dopo aver assunto quelle che egli chiama le prerogative di Dio, ora soccombe all’egemonia e al potere della tecnica, una tecnica e una scienza che non riconoscono limiti né guardano alla natura né all’uomo né a Dio» (S. Acquaviva, Il Messaggero, 7 marzo 2001).
Insomma, l’uomo che ormai si autodefinisce «un creatore», perché è riuscito a mettere le mani sui mattoncini «Lego» del nostro corpo, in realtà si illude di esserlo perché demolisce da solo quel pò di «creatore» che realmente è in lui, in virtù della sua (anche se non riconosciuta, anzi negata) somiglianza al Creatore autentico.
In realtà, proprio la capacità di scoperta dell’uomo del terzo millennio prova la sua condizione di creatura priva dell’onnipotenza con cui vorrebbe modificare i propri confini, cioè i suoi limiti: quelli che lo fanno uomo e che gli danno quelle capacità di comprensione e di indagine di cui mena vanto. Ho scritto «capacità di scoperta» e non di invenzione per non creare equivoci e perché i contenuti delle sue invenzioni sono sempre qualcosa che già esiste e di cui non si era accorto. Poniamo l’elettricità, le onde magnetiche, l’energia nucleare e via dicendo che, per di più, spesso egli usa per il male piuttosto che per il bene.
Lo fa, perché, come scriveva il beato Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vita;, non ha verso il creato uno «sguardo contemplativo», ma un sguardo possessivo: quello contemplativo essendo «lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità […] di chi non pretende d’impossessarsi della realtà, ma l’accoglie come un dono» (cfr Centesimus Annus, 37). Afferma il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes che «chi si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza prenderne coscienza, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono» (n. 36).
Riconoscersi creatura
È per questo che l’uomo più avanti va e più s’illude di essere, per l’appunto, non solamente autopoietico, ma anche capace di creare ambienti e strumenti nuovi. L’illusione gli serve (anche filosoficamente) per nascondere il proprio limite e l’angoscia che le sue mani non siano quelle di Re Mida. Il dramma si manifesta se e quando diventa consapevole dei propri limiti, che egli invece di apprezzare disprezza.
Eppure in quel momento scoprirebbe proprio il suo confine principale e, in esso, la sua dote maggiore e migliore, che è la consapevolezza del proprio limite, perché questa, se realmente tale, è anche ciò che lo fa grande e unico. Gli fa riconoscere, infatti, di essere creatura di Qualcuno, che ha pensato a lui dall’eternità. Gli da – unico nell’universo – la sapienza dei figli di Dio, il senso della libertà e della responsabilità, la conoscenza di essere immagine e somiglianza di Colui-che-è (YAHWEH), la relazione di amore reciproco che lo lega al Creatore, la capacità di adorare l’Onnipotente, vale a dire il Senza limiti, e gli dona – infine l’attesa dell’eternità.
Invece, come si è visto nella prima parte di queste riflessioni, più l’uomo è consapevole dei limiti, più tenta di violarli, in qualche modo facendosi una scimmiottatura di Dio. Lo scimpanzè, che Dawkins chiama «suo cugino» solo perché ha moltissimi geni identici ai suoi — non ha questi limiti: non quelli fisici né quelli etici o, meglio, non li ha soltanto perché non sa di averli e quindi fa tutto quello che vuole e può tutto quello che fa, senza possibilità di scelta e di responsabilità, di colpa e di merito, soprattutto di libertà.
Grandezza del limite
È il limite, dunque, la grandezza dell’uomo ed è grazie a esso che «egli si manifesta come essere trascendente rispetto al mondo che lo circonda» (Giovanni Paolo II, Discorso all’Accademia della vita, 3 marzo 2001). È per questo che non bisogna tentare di violarlo, vale a dire di sprecarlo. È il limite che ci fa «simili» a Dio, suoi collaboratori, perché gestori del creato, ma non «uguali» a Dio.
Se lo fossimo, infatti, non esisteremmo, perché non possono esistere più «dèi». Il consiglio è, dunque, di abbandonare la via del post o del transumanesimo e di imboccare finalmente la grande strada di un umanesimo pieno, quella che ci consente di rispettare il limite nell’attesa escatologica di superarlo con il passaggio dal tempo all’eternità.
Note
1) Per questa parte «storica» della materia che qui si tratta ini sono rifatto a una puntata della mia rubrica domenicale «Controstampa» su Avvenire del 20 febbraio 2005.
2) Si tratta di un sensore che si attiva e si disattiva in presenza di luce o di buio e in modo diverso a seconda della diversità della luce che lo investe
3) È l’autore di // nuovo mondo (Brave New World, 1932), Mondadori, Milano 2007, pp. 266, euro 14.
4) Filosofo e scrittore tedesco, nato a Breslavia, in Polonia, nel 1902 e morto nel 1992. Il suo vero cognome è Stern