Ispi 5 gennaio 2020
di Annalisa Perteghella
Il generale ombra, il cavaliere oscuro, il guerriero imprendibile, ma soprattutto il “martire vivente”. Molte sono state le definizioni attribuite in vita a Qassem Soleimani, il comandante delle brigate al Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, responsabile delle operazioni all’estero della Repubblica Islamica iraniana: dalla lotta allo Stato Islamico al puntellamento dell’Iraq post-Isis, fino all’assedio di Aleppo e alla riconquista della Siria a favore di Bashar al-Assad.
Dal momento della sua uccisione a Baghdad per mezzo di un drone USA, Soleimani è però diventato il martire per eccellenza, la figura attorno Teheran può ricompattare un paese estremamente diviso al proprio interno, anche per effetto della pesante campagna di pressione statunitense alla base del peggioramento delle sue condizioni economiche, e pertanto dell’aumento del malcontento. A livello regionale, però, la mossa statunitense rischia di dare origine a una nuova ondata di destabilizzazione i cui effetti si riverbereranno con ogni probabilità ben oltre i confini iraniani.
L’attacco: una decisione ponderata?
Dalla sua residenza di Mar-a-Lago, poche ore dopo aver concluso una partita di golf, il presidente USA Donald Trump ha supervisionato l’operazione che ha portato all’uccisione di Qassem Suleimani, di Abu Mahdi al Muhandis, e degli altri militari legati all’Iran presenti nel convoglio in transito nei pressi dell’aeroporto della capitale irachena. Secondo le ricostruzioni, Trump avrebbe dato il via libera all’opzione presentatagli dal Pentagono già qualche giorno prima, dopo essersi consultato con il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien e altri membri dell’amministrazione.
La decisione sarebbe stata presa alla luce dell’escalation di violenza registratasi a Baghdad proprio nel corso dell’ultima settimana, culminata nell’assalto all’ambasciata statunitense condotto da miliziani iracheni collegati all’Iran, e nell’uccisione di un contractor statunitense. Già nella giornata precedente all’uccisione di Suleimani, del resto, il Segretario alla Difesa Mark Esper aveva avvertito della possibilità che gli Usa rispondessero alle provocazioni iraniane con “attacchi preventivi”.
Le motivazioni ufficiali: rischio reale, difesa preventiva?
La portata della decisione presa da Trump, e soprattutto le sue possibili conseguenze future, è tale da imporre una riflessione circa le sue motivazioni. La giustificazione ufficiale fornita dalla Casa Bianca è quella della “difesa preventiva” contro gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale Suleimani stava pianificando in Iraq.
Un’accusa plausibile, ancorché impossibile da verificare, e dunque dalla dubbia legittimità giuridica: come ha fatto notare la Special Rapporteur ONU sulle esecuzioni extra-giudiziarie Agnes Callimard, gli omicidi mirati, attraverso droni, non trovano giustificazione nel diritto internazionale umanitario, oltre a presentare una seria sfida alla sovranità nazionale. In questo senso, inoltre, l’assassinio di un esponente di un governo nemico – peraltro su territorio di un paese terzo – rappresenta un pericoloso precedente al quale altri governi potrebbero appellarsi per giustificare proprie azioni – dirette contro i propri nemici – in futuro.
Il quadro più ampio: USA 2020 e “massima pressione”
A spingere gli USA a intraprendere un’azione così gravida di rischi e dalla fragile giustificazione legale può essere stato un mix di calcoli di politica interna e di politica estera. Da una parte, l’uccisione del principale agente operativo del Medio Oriente, nonché architetto della strategia regionale iraniana, è indubbiamente un successo tattico che Trump può presentare ai cittadini statunitensi nell’anno elettorale.
Si tratta però di una scommessa, perché se di successo tattico si tratta, è invece assai dubbia la capacità e la disponibilità statunitense di fare fronte alle conseguenze che una mossa di questo tipo potrebbe avere sul lungo periodo: motivo per cui pur essendo Soleimani sulla lista dei ricercati da anni, e relativamente ben individuabile, diverse amministrazioni precedenti a quella di Trump hanno rifiutato di dare il via libera all’operazione in passato.
Dal punto di vista della politica estera, invece, Trump ha agito in ossequio alla strategia della “massima pressione”, alla base della quale c’è l’idea che un Iran indebolito e piegato possa soccombere alle proprie richieste. La mancata risposta statunitense agli attacchi – attribuiti all’Iran – contro le petroliere nel Golfo, così come all’attacco dello scorso settembre agli impianti Saudi Aramco in Arabia Saudita, avrebbe trasmesso a Teheran un messaggio di impunità, in base al quale l’Iran si sarebbe sentito legittimato ad agire senza il timore della “punizione” statunitense.
Colpendo una figura di spicco come Soleimani, Washington avrebbe ripristinato quella deterrenza che era andata perduta negli ultimi mesi, e avrebbe rimarcato quelle linee rosse che erano andate sbiadendosi in mezzo agli annunci di disimpegno statunitense dal fronte siriano a vantaggio della Turchia, e implicitamente dell’Iran.
Anche in questo caso, però, l’incognita è rappresentata dal risultato dell’azzardo di Trump. In questi mesi, la strategia di “massima pressione” non è risultata in un ritorno dell’Iran al tavolo negoziale, bensì in un preoccupante aumento della tensione e dell’instabilità nella regione, con il moltiplicarsi delle possibilità di conflitto.
A farne le spese è stato anche e soprattutto l’accordo sul nucleare (JCPOA), già azzoppato dall’uscita USA, poi ulteriormente indebolito dalla ripresa graduale delle attività nucleari iraniane in risposta alla pressione Usa, e ora definitivamente appeso a un filo.
La risposta iraniana: i rischi di un’escalation
Come prevedibile, la Repubblica Islamica ha promesso che l’assassinio di Soleimani non rimarrà impunito. Grazie all’ampia rete di proxies e miliziani attivi in tutto il Medio Oriente, e alle notevoli competenze in campo di guerra asimmetrica (tra cui quelle in ambito cyber), l’Iran dispone della capacità di colpire obiettivi mirati statunitensi nella regione.
Possibili bersagli sono anche gli alleati degli Usa nella regione, Israele e i paesi del Golfo, in particolare Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Non è un caso che la dichiarazione ufficiale del ministero degli Esteri saudita in risposta all’accaduto si differenzi rispetto a prese di posizione degli scorsi mesi per un invito a tutte le parti a esercitare “il massimo autocontrollo”.
Gli attacchi agli impianti Saudi Aramco dello scorso settembre, e la mancata risposta Usa in quell’occasione, sembrano infatti aver convinto la leadership saudita della necessità di negoziare un modus vivendi con il proprio dirimpettaio: un risultato paradossale ma senza dubbio positivo della ondivaga strategia statunitense.
Nel giorno successivo all’uccisione di Soleimani, il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il proprio omologo qatarino, possibile segnale del fatto che questo tentativo di de-escalation interna al Golfo possa continuare. Quali dunque le possibilità che l’Iran dia concreta attuazione alle proprie minacce di rappresaglia?
Da una parte l’Iran è per certi versi “obbligato” a fornire una risposta all’uccisione dell’uomo che era di fatto il numero due della gerarchia di potere iraniana, colui che da oltre vent’anni proteggeva la Repubblica Islamica dai nemici esterni attraverso la strategia della “difesa avanzata”.
Come evidenziato in questa analisi di Marco Carnelos, nel calcolo strategico iraniano non può però non rientrare anche la consapevolezza che una risposta eccessiva potrebbe provocare una ulteriore risposta statunitense, precipitando i due paesi e l’intera regione in un’escalation senza uscita.
In questo senso, la minaccia formulata via twitter da Donald Trump di colpire 52 siti iraniani – come il numero dei diplomatici statunitensi presi in ostaggio a Teheran nel 1979 – in risposta all’eventuale rappresaglia iraniana per l’uccisione di Soleimani, rischia di dare adito a pericolosi errori di calcolo.
Da una parte, con questa minaccia Trump vuole impedire che l’Iran risponda in maniera massiccia all’uccisione di Soleimani, e tale minaccia suona molto più credibile dopo che gli Usa hanno portato a termine quell’operazione; dall’altra però, la portata di tale minaccia è talmente grande da spingere l’Iran a chiedersi se Trump stia bluffando.
Colpire 52 siti su suolo iraniano, tra cui siti culturali con notevoli rischi per la popolazione civile, oltre che una violazione del diritto internazionale, rappresenterebbe l’inizio della guerra. Teheran sa che Trump non vuole un’altra guerra in Medio Oriente, e potrebbe quindi decidere di “smascherare il bluff”. Una risposta iraniana, però, a quel punto, costringerebbe Trump a dare seguito alla minaccia, dando così inizio a una guerra che nessuno voleva ma alla quale si rischia di arrivare per pericolosi errori di calcolo.
Scenari di una crisi
Teheran cercherà indubbiamente di sfruttare in maniera abile il pericoloso azzardo statunitense, cercando di volgere a proprio vantaggio la situazione e cercando di estrarre le maggiori concessioni possibili da una situazione di debolezza solo apparente. In particolare, è da tenere sotto osservazione il tentativo di “internazionalizzare” la crisi cercando di compattare un fronte internazionale anti-statunitense, facendo appello soprattutto a Russia e Cina, due paesi con cui già nelle scorse settimane Teheran aveva svolto un’esercitazione militare congiunta.
Nel concreto, la risposta iraniana potrebbe avvenire su più livelli: attacchi mirati su obiettivi statunitensi nella regione, per vendicare in maniera ufficiale la morte (“il martirio”) del generale; la continuazione della strategia di ritiro graduale dall’accordo sul nucleare, oltre che la minaccia di abbandonare il Trattato di Non Proliferazione nucleare (NPT), dunque impedendo il controllo internazionale dei propri siti nucleari.
Una delle poche certezze, in questa situazione assai ricca di incognite, è che la regione è ora esposta a una ulteriore ondata di instabilità che rischia di mettere seriamente in pericolo i pallidi risultati raggiunti in questi anni. Il primo paese a farne le spese sembra essere proprio il fragile Iraq, destinato a rimanere il principale terreno su cui si gioca il confronto Usa-Iran.
A corollario, anche le attività della coalizione internazionale contro lo Stato islamico potrebbero venire minate dalla nuova situazione di tensione venutasi a creare: diversi paesi partecipanti alla coalizione, tra cui Italia e Germania, hanno sospeso o limitato le proprie attività per via dell’innalzamento del livello di allerta.