Avvenire giovedì 26 gennaio 1989
Il primo popolo annientato scientificamente
di Roberto Righetto
Si conosce il posto che l’idea di libertà, di uguaglianza e di fraternità tiene nella vostra cultura, nella vostra storia. Al fondo ci sono idee cristiane. Dico in piena coscienza che coloro che per primi hanno formulato cosi questo ideale non si riferivano all’alleanza dell’uomo con la Sapienza eterna. Ma volevano tuttavia agire per l’uomo» Il giudizio sintetico ma efficace ili Giovanni Paolo II sui principi dell’89, espresso a Le Bourget nel giugno del 1980, esprime assai bene il carattere della Rivoluzione francese, cominciata per migliorare le condizioni di vita dell’uomo ma ben presto degenerata.
«Già nel 1789 – dice Marco Tangheroni, che insegna storia medievale all’università di Pisa ma è follemente appassionato della Rivoluzione francese e si è interessato in modo particolare del caso Vandea – vi sono le premesse della svolta totalitaria ufficializzata nel ’93. C’è un elemento che vorrei far notare e che ricorre più volte nella storia rivoluzionaria: l’idea di complotto. Le reazioni iniziali alla Rivoluzione furono nulle, eppure subito si comincia a dire che la Rivoluzione è in pericolo. I rivoluzionari partono sulla base di un modello utopico che vuole fare tabula rasa del passato secondo certe idee di stampo rousseauiano. Appena si manifestano i primi insuccessi subito si individuano le ragioni in un complotto esterno. Non a caso prevale Robespierre, il migliore a far uso di questa minaccia per costringere a fare passi in avanti. Anche lo storico Furet lo ha notato: molti concetti del totalitarismo erano già presenti. Ricordo che dell’89 sono una serie di provvedimenti come l’abolizione di ogni diritto giuridico-economico senza indennizzi, l’obbligo per la Chiesa di pagare il debito pubblico e il tentativo di trasformare vescovi e preti in amministratori invece che pastori. E nel ’90 arriva la Costituzione civile del clero, eredità del protestantesimo, del gallicanesimo e del giansenismo, che vuole fare della Chiesa uno strumento del potere politico.»
Veniamo alla Vandea. che ormai un po’ tutti gli storici cominciano a guardare con occhi meno deviati dall’ideologia.
«E’ una delle cartine di tornasole che fanno vedere il carattere essenziale dei moti dell’89: la lotta al cristianesimo. Quella dei vandeani fu una reazione in nome della propria fede, l’elemento aristocratico e monarchico sono marginali. Fu il popolo ad andare a cercare i nobili per avere dei capi, non fu il contrano.»
Lei concorda con lo storico francese Pierre Chaunu che ha definito la Vandea il «primo genocidio della storia»?
«Vanno distinte due fasi: prima c’è una guerra civile che dura alcuni mesi e finisce con una serie di vittorie dei rivoluzionari. Segue la repressione vera e propria che ha il carattere di repressione di gente vinta. Per questo è esatta la parola “genocidio”: volutamente il governo programma la distruzione di un popolo e del suo insediamento perché si è dimostrato inassimilabile alla Rivoluzione. I morti furono centinaia di migliaia, anche se sono difficili da contare per la modalità di esecuzione di massa. Ci si basa sulla differenza tra un censimento e l’altro.»
Perché la reazione scoppiò proprio in Vandea?
«Grignion de Montfort all’inizio del ‘700 aveva attuato una profonda rievangelizzazione della Vandea e della Bretagna che pose le basi della reazione. Casi di ribellione vi furono a Lione e in altri paesi, ma ebbero caratteristiche di rivendicazioni autonomistiche, la religione non c’entrava.»
Jacques Le Goff di recente ha scritto: «Non difendo tanto la Rivoluzione francese quanto i valori che ha proclamato anche se non li ha ben rispettati» sostenendo poi che la Rivoluzione francese «è ancora da fare». Lei è d’accordo?
«Bisogna intendersi sul vero significato dei valori dell’89. Se democrazia significa uguaglianza assoluta, è evidente che a ciò si arriva solo con la violenza. E allora ha ragione le Goff perché la Rivoluzione è sempre da fare. Se democrazia è partecipazione del popolo al governo e alla vita politica allora la Rivoluzione francese non era una carta necessaria. Vi sono paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti che giunsero alla democrazia per altre strade. Proprio l’inglese Burke intuì già nel 1790 il carattere epocale della Rivoluzione francese, lui che era attaccato ai valori liberali. Ma si è voluto da subito dare alla Rivoluzione francese il carattere di mito: i rivoluzionari, prima ancora di avere dei nemici, li hanno voluti: è proprio dandosi dei nemici che la Rivoluzione ha definito la propria identità.»
Ma la Chiesa non avrebbe potuto «guidare» il processo rivoluzionario?
«Solo in una visione in cui la Chiesa ha il compito di seguire i tempi e di condire con un po’ di morale quanto avviene nel mondo la risposta potrebbe essere positiva, in realtà il carattere anticristiano si manifestò ben presto, tanto che non furono pochi i preti “costituzionali” ad avere un ripensamento.»
Tocqueville ha scritto che «non v’è Chiesa cristiana in Europa che non sia rifiorita dopo la Rivoluzione francese» e che «la Rivoluzione non è stata fatta per distruggere il potere della fede religiosa». Lei come reagisce?
«Ma allora i rivoluzionari si potevano accontentare di relegare la Chiesa in un ambito delimitato invece di legiferare sulle istituzioni della Chiesa. Con tutto il rispetto che ho per Tocqueville, ritengo che oggi vediamo le cose in maniera diversa. Le ricerche sociali sulla scristianizzazione dopo la Rivoluzione hanno dimostrato differenze di comportamenti nelle varie regioni di Francia. Dove il popolo aveva più fede ed aveva sostenuto i preti “refrattari” o si era sollevato contro i “costituzionali” i segni del cristianesimo sono rimasti. Del resto le percentuali del clero costituzionale sono più alte proprio dove la gente è indifferente od ostile alla fede cristiana.»
Le chiedo ora di commentare queste parole di Manzoni, contenute in una lettera a Luigi Tosi del 1020: «Il clero in Francia ha sempre invocata la forza in sostegno della religione cattolica, ha sempre applaudito agli atti governativi che hanno proibito le altre comunioni e ne hanno perseguitati i settari: finalmente la forza della Rivoluzione ha fatta proclamare la libertà religiosa, ma in questo stato di cose non solo il clero non ha mai abiurata pubblicamente la dottrina della forza, non solo non ha mai disapprovata la condotta del clero dei tempi anteriori alla Rivoluzione, ma non fa altro che esaltare, sospirare, proporre come esempio quei tempi, non fa altro che lamentarsi che la religione manchi di protezione da parte dell’autorità.»
Il clero della restaurazione in effetti si è spesso trovato in una posizione di sostegno politico ed ha avuto la tendenza ad adagiarsi. Ma Manzoni è viziato dall’influenza giansenista che ha una concezione di religiosità pura, un ideale di perfezione che non tiene conto che la Chiesa cammina nella storia. E non si cammina nella storia sena un po’ infangarsi. E’ una concezione pericolosa, che si augura per la Chiesa una situazione che la metta il più possibile alla prova.»